Senza adulti

Gustavo Zagrebelsky
Einaudi, Torino 2016, pp. 106, € 12
Scheda di: 
Fascicolo: ottobre 2016

Quale posto è riservato alla “terza età” in una società che sempre più esalta la giovinezza da conservare a ogni costo e quanto più a lungo possibile? Possono ancore dare un contributo coloro che hanno dietro le loro spalle la maggior parte della propria vita? E quale? E che fine fa in tutto ciò la maturità, l’età della pienezza, un tempo considerata la «condizione durevole dotata di valore, anzi: del massimo valore, poiché incorpora il meglio delle fasi tra le quali si pone e le collega tra loro» (p. 44)?

Queste domande percorrono l’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky, in cui la riflessione sulla dialettica tra le varie tappe della vita muove da un capovolgimento di percezione avvenuto nell’epoca moderna. Per lungo tempo in Occidente l’anzianità è stata considerata sinonimo di saggezza; circondata di rispetto, era chiamata a “conservare” la società nel suo ordine e far fronte al nuovo guardato con sospetto e precauzione. A un tratto, però, il primato passa di mano: dagli anziani ai giovani, dal vecchio al nuovo, dalla continuità incarnata dalla generazione precedente al cambiamento promosso da quella giovane. Il processo, avviatosi alcuni secoli fa, è avanzato senza conoscere battute d’arresto giungendo a un esito inatteso: «Volendo sintetizzare le trasformazioni che il corso della vita ha subito nelle nostre concezioni pratiche, potremmo fare ricorso a una sequenza numerica: tre, due, uno e infine, minacciosamente, zero. Tre era il numero della giovinezza, della maturità e della vecchiaia. Due, della giovinezza che si prolunga sino alla vecchiaia. Uno, della giovinezza che annulla la vecchiaia. Zero, della giovinezza che consuma se stessa senza preoccupazione di quanto l’avvenire potrebbe riservare» (p. 78).

Come ci fa capire questa citazione, che ha la forza di un aforisma, la vera questione che si cela dietro il cambiamento nel modo di pensare le varie età dell’uomo riguarda il futuro. Nel libro non vi è il rimpianto sterile di un passato perduto e ritenuto migliore, ma l’interrogarsi su ciò che è necessario perché vi sia un avvenire per le generazioni che non sono ancora nate. Ma perché ciò avvenga, perché vi sia vita per la generazione attuale e quelle a venire, l’A. indica una strada da percorrere che presuppone un continuo lavoro di selezione per «individuare, nei nostri modi di vita acquisiti, ciò che è mortifero per metterlo a morte e, da lí, liberare le energie del rinnovamento» (p. 98). Si tratta di dare spazio a una ri-generazione che non consiste nella riproposizione di tutto ciò che esiste, ma solo della parte vitale. Resta sullo sfondo la domanda di chi è chiamato a operare perché vi sia un futuro: i vecchi o i giovani? Un’alternativa di tal genere, formulata in modo secco, rischia di costringere il pensiero in un vicolo cieco costituito da presupposti e luoghi comuni. Il richiamo alla weberiana etica delle conseguenze, evocata in conclusione dall’A., non è rivolto a una generazione più che a un’altra, ma a tutte invitandole ad agire responsabilmente, tenendo in conto che la ricerca del bene non è prerogativa di una parte.

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