Satira

Fascicolo: maggio 2015
«Il motivo per cui la carne di maiale sia proibita dalla legge ebraica è tuttora poco chiaro e alcuni studiosi ritengono che la Torah suggerisca semplicemente di non mangiarla in taluni ristoranti» (Woody Allen).

Una delle caratteristiche del genio ebraico è senza dubbio lo humour, la capacità di ridere anche nelle e delle situazioni più penose e difficili da sopportare. Sviluppatosi durante il XVIII sec. in Europa orientale dal movimento di rinascita spirituale noto come chassidismo, l’umorismo ebraico si caratterizza per l’autoironia: «Il nostro rabbino è così povero che se non digiunasse al lunedì e al giovedì, morirebbe di fame».

Sdrammatizzare, non prendersi troppo sul serio, saper ridere anche di quanto si ha di più prezioso, come le proprie tradizioni, guardandone il lato comico derivante dall’inevitabile imperfezione umana, è un modo sano di stare nel mondo e affrontarne le contraddizioni, rendendole vivibili. Lo chassidismo ci insegna che si tratta di un atteggiamento spirituale, al tempo stesso culturale e religioso, riguardante, cioè, più in generale la disposizione dell’uomo nei confronti del reale con i suoi limiti, e in particolare il modo in cui si mette in relazione con Dio e con le espressioni del culto.

Anche in tema di umorismo, la spiritualità ebraico-cristiana ha nella Bibbia la sua fonte di ispirazione, soprattutto quando si relaziona al potere nelle sue varie forme attraverso la satira.


L’idolo, un fat cat

Il libro dei Giudici racconta le vicende delle tribù di Israele dopo il loro insediamento nella terra promessa, alle prese con gli abitanti autoctoni e con quelli delle regioni limitrofe. Il rapporto è reso conflittuale dalla contesa per il dominio sul territorio e ancor di più dalla necessità di mantenersi fedeli all’alleanza con il Signore. Questi due fattori danno origine a uno schema ricorrente secondo il quale sono narrate le storie raccolte in questo libro: i figli di Israele compiono il male agli occhi del Signore, cioè adorano gli déi degli altri popoli; per questa trasgressione Dio li abbandona nelle mani dei loro nemici, che li opprimono riducendoli in schiavitù, finché gridano al Signore, il quale suscita per loro un giudice, ovvero un condottiero che li guida in battaglia liberandoli e ripristinando le giuste tradizioni religiose; ma dopo un certo periodo di pace sorge una generazione che non ha conosciuto il Signore e le opere che ha compiuto per Israele e ripete gli stessi errori della precedente (cfr Giudici 2, 6-19). E la storia si ripete.

All’interno di questo canovaccio, i racconti sono redatti secondo molteplici registri narrativi: epico, tragico, umoristico. Quest’ultimo, in particolare, presenta tutte le gradazioni possibili, dall’ironia sottile (cfr Giaele che tende un tranello a Sisera, Giudici 4,18) al sarcasmo feroce (cfr la madre di Sisera che ne attende invano il ritorno, Giudici 5,28). Tra questi due estremi si colloca la satira, di cui è un esempio magistrale la storia del giudice Eud che libera Israele dall’oppressione dei moabiti, prima uccidendone il re (cfr riquadro) e poi guidando gli israeliti in battaglia contro di loro fino alla vittoria.


Giudici 3,12-25

12 Gli israeliti ripresero a fare il male agli occhi del Signore. E il Signore rese forte Eglon, re di Moab, contro Israele, perché facevano il male agli occhi del Signore. 13 Eglon radunò intorno a sé gli ammoniti e gli amaleciti, fece una spedizione contro Israele, lo batté e si impadronì della città delle Palme. 14 Gli israeliti furono schiavi di Eglon, re di Moab, per diciotto anni. 15 Poi gridarono al Signore ed egli suscitò loro un liberatore, Eud, figlio di Ghera, beniaminita, che era mancino. Gli israeliti mandarono per mezzo di lui un tributo a Eglon re di Moab. 16 Eud si fece una spada a due tagli, lunga un gomed, e se la cinse sotto la veste, al fianco destro. 17 Poi presentò il tributo a Eglon, re di Moab, che era uomo molto grasso. 18 Finita la presentazione del tributo, ripartì con la gente che l’aveva portato. 19 Ma egli, dal luogo detto Idoli, che è presso Gàlgala, tornò indietro e disse: «O re, ho una cosa da dirti in segreto». Il re disse: «Silenzio!», e quanti stavano con lui uscirono. 20 Allora Eud si accostò al re che stava seduto nel piano di sopra, riservato a lui solo, per la frescura, e gli disse: «Ho una parola da dirti da parte di Dio». Quegli si alzò dal trono. 21 Allora Eud, allungata la mano sinistra, trasse la spada dal suo fianco e gliela piantò nel ventre. 22 Anche l’elsa entrò con la lama. Il grasso si rinchiuse intorno alla lama, perché Eud non ritrasse dal ventre del re la spada e gli uscì da dietro. 23 Eud uscì nel portico e chiuse le porte della sala del piano di sopra e tirò il chiavistello. 24 Quando fu uscito, vennero i servi, i quali guardarono e videro che le porte della sala del piano di sopra erano sprangate. Dissero: «Certo attende ai suoi bisogni nello stanzino della stanza fresca». 25 Aspettarono fino ad essere inquieti, ma quegli non apriva le porte del piano di sopra. Allora presero la chiave, aprirono ed ecco il loro signore era steso per terra, morto.


Si tratta di un racconto simbolico, non storico. Il nome del re di Moab, Eglon, evoca l’immagine del vitello (‘ēgel in ebraico) e viene caratterizzato come un uomo molto grasso (v. 17), un’evidente caricatura satirica di uno dei più acerrimi nemici d’Israele. Con un’espressione americana oggi lo si definirebbe un fat cat, letteralmente un “gatto grasso”, cioè una persona arricchitasi a spese di altri (cfr MCCANN J.C., Giudici, Claudiana, Torino 2008, 65-68). Lo possiamo immaginare seduto sul trono, sudato, mentre cerca sollievo dal caldo nella stanza al piano superiore della reggia, più fresca, ma anche meno controllata, cosa che gli costa la vita.

Eud, invece, è il prototipo dell’eroe solitario, il quale, da una condizione di netta inferiorità, batte un nemico molto più potente usando l’astuzia. Anche lui è una macchietta: è beniaminita, ovvero figlio della destra, espressione ebraica che indica un uomo valente nell’uso della spada, ma è mancino, letteralmente legato nella mano destra (v. 15), una contraddizione umoristica essenziale per la riuscita del suo piano, in quanto può nascondere la corta spada a due tagli sul suo fianco destro invece che su quello sinistro, e così eludere i controlli delle guardie del re.

L’immagine più satirica del racconto, però, è il corpo morto di Eglon con la spada conficcata nel ventre, immersa fino all’elsa nel suo grasso. Il v. 22 è di incerta traduzione, ma l’espressione gli uscì da dietro sembra indicare che la spada di Eud esce dall’ano di Eglon o che le sue viscere fuoriescono (cfr RIZZI G., Giudici, Paoline, Milano 2012, 142-152). Questa seconda interpretazione spiegherebbe anche perché le guardie non entrano subito nella stanza, pensando che il re sia in bagno: probabilmente sentono cattivo odore!

Da un punto di vista letterario questo testo appartiene a quel genere satirico con cui in ogni cultura da sempre vengono messi alla berlina i potenti, togliendo loro quella maschera che li fa apparire forti, quando in realtà sono fragili e inconsistenti. La satira è stata definita «quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene» (cfr la sentenza 9246/2006 della I sezione penale della Corte di Cassazione). Nella Bibbia, invece, l’uso della satira non ha lo scopo di colpire gli altri, i potenti, i nemici, denigrandoli, ma di risvegliare la coscienza del popolo eletto e renderlo consapevole delle proprie paure, di essersi consegnato a chi l’opprime. Anche l’uomo più potente del mondo è nulla in confronto al Signore e non vale la pena temerlo, lasciandosi sottomettere (cfr i tre giovani condannati da Nabucodonosor e liberati dalla fornace ardente, Daniele 3).

Questo racconto, infatti, come gli altri, probabilmente era ignoto ai moabiti e non voleva incitare Israele alla rivolta, ma affrontare il problema dell’idolatria, da cui prende le mosse, in quanto pratica che comporta sempre un asservimento. Dio, rendendo forte Eglon, re di Moab, contro Israele, esplicita la condizione di schiavitù interiore per mezzo di quella esteriore, fisica, finché il popolo grida a lui ed egli suscita loro un liberatore. Quando, alla fine, i moabiti vengono sconfitti, la liberazione interiore ed esteriore è la manifestazione dell’azione del Signore, unico vero Dio, a favore del suo popolo. Il testo rimanda alla vicenda del vitello d’oro, l’idolo fabbricato da Aronne nel deserto – di cui Eglon è la caricatura – a cui gli israeliti offrono tributi, come finge di fare Eud, mentre, in realtà, riscatta quel gesto idolatrico (cfr Esodo 32,1-6).

L’azione di un eroe solitario e inadeguato contro un re potente ma schiacciato dal suo stesso peso, è simbolo della lotta fra Dio e gli idoli, fra il vero potere, creativo e liberante, e quello appariscente, oppressivo ma inconsistente. L’aspetto satirico del racconto caratterizza l’atteggiamento di chi sa che, in fondo, non si tratta di una vera lotta: la guerra è già vinta, perché combattuta in nome e per conto di chi, detenendo il vero potere, svela l’inconsistenza di ogni potere mondano. Con questa motivazione, la responsabilità storica di sostenere il conflitto nelle situazioni particolari può essere assunta senza impiegare le armi violente e oppressive della controparte, ma con la leggerezza della parola che suscita il riso e libera, sollevando il velo e mostrando il re nudo. In questo senso, la satira biblica non ha un nemico, né lo crea per legittimare se stessa.


Satira e potere

Il primo, infatti, a ridere dei tentativi umani di contrastare la sua azione nella storia e nel mondo è Dio stesso: Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra, i principi congiurano insieme contro il Signore e il suo Messia: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi i loro legami». Ride chi abita i cieli, il Signore si fa beffe di loro (cfr Salmo 2,1-4).

In questo salmo Dio, sovrano di tutta la terra, interviene per difendere il re scelto come suo vassallo, ridicolizzando i suoi nemici. Ma quando i governanti di Israele esercitano il proprio potere in modo ingiusto e oppressivo, non esita a rivolgere il suo sarcasmo anche nei loro confronti. Così dice il Signore: Come il pastore strappa dalla bocca del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così scamperanno i figli di Israele che abitano in Samaria nell’angolo di un letto, sulla sponda di un divano (cfr Amos 3,12). In questo oracolo del profeta Amos, i capi del popolo che nell’VIII sec. a.C. non governavano secondo giustizia, ritenendosi al sicuro, come se Dio non vedesse i loro misfatti, sono presi in giro dal Signore, il quale si presenta a loro come un pastore le cui pecore sono state assalite da un leone e che mostra al proprietario del gregge i resti degli animali sbranati per testimoniare la propria innocenza! Nessuno, quindi, sia dentro, sia fuori Israele, viene risparmiato dalla sferza satirica se opprime il popolo invece di liberarlo, comportandosi in maniera diversa da quella in cui Dio stesso esercita il suo potere: il servizio.

La satira biblica, però, non colpisce solo i governanti, ma include anche i sudditi. Se, infatti, l’idolo è così ridicolo come Eglon e gli altri potenti della terra, quanto più chi a lui si sottomette! Tuttavia, nel caso del popolo, lo sguardo ironico di Dio si fa compassionevole e lo spinge a intervenire in suo favore, marcando, così, la differenza fra l’umorismo esercitato da parte di chi si trova in una posizione di dominio e quello di chi, invece, è oppresso. Per i primi l’ironia è ipocrita e funzionale a mantenere lo status quo; per i secondi si tratta di autoironia liberante.

Ora, Dio esercita la satira da una posizione di infinita superiorità, ma, nella lotta contro gli idoli, simulacri del potere, lo fa a partire dagli oppressi, quindi in una forma autoironica, cioè prendendo le distanze dal suo stesso potere e ribaltandone la prospettiva in quella dell’amore. Infatti, il suo intervento non instaura un ordine definitivo al quale tutti devono adeguarsi, ma ripristina una libertà vera, al punto che, dopo un certo tempo, il popolo torna a fare il male ai suoi occhi! Diversamente, Dio assumerebbe il ruolo di un idolo. Il suo obiettivo, invece, anche quando ride dei potenti della terra e del popolo, è di tenere gli uomini in una relazione vitale con lui e fra loro, sulla base di un amore libero e liberante. Per farlo assume un atteggiamento autoironico, di distacco da sé. Di conseguenza, questo vale anche per i suoi eletti: ad esempio, il profeta Elia, dopo aver schernito e ucciso i quattrocentocinquanta profeti di Baal, viene a sua volta messo in ridicolo per la sua paura di morire (cfr 1Re,18-19).

Pertanto l’autoironia è il criterio di valutazione della satira, perché la mantiene all’interno del limite e la salvaguarda dalla sua stessa potenza, impedendole di snaturarsi e divenire essa stessa parte di un sistema oppressivo, che si chiude su di sé e fa morire le relazioni, invece di dar loro vita. Fondata sull’esercizio della compassione di Dio verso il suo popolo come limite critico di ogni altro potere, la satira biblica ha in se stessa il proprio criterio e principio regolatore: è autentica se liberante, se aiuta a prendere coscienza delle paure, dei condizionamenti oppressivi e di ogni forma di idolatria.

Se la satira biblica ha un potere, è proprio quello di liberare l’uomo dalla logica del potere, ridendone insieme a Dio: «Dio ride. Ed essendosi sconsideratamente eletti come suo popolo, gli ebrei non possono che ridere di se stessi» (OVADIA M., L’ebreo che ride. L’umorismo ebraico in otto lezioni e duecento storielle, Einaudi, Torino 1998).
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