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Rosario Livatino: un fascio di luce in una notte buia

Intervista a Giovanbattista Tona, magistrato, attualmente in forza alla prima sezione penale della Corte di appello di Caltanissetta, dal 2014 al 2018 consulente della Commissione parlamentare antimafia, a cura di Paolo Foglizzo

Fascicolo: maggio 2021

Come magistrato e come siciliano, che cosa ha pensato quando ha appreso la notizia della beatificazione di Rosario Livatino?

A chi in questi trent’anni ha cercato di mantenere viva la memoria della sua testimonianza professionale e umana, il decreto del Santo Padre ha dato la sensazione di un approdo: un riconoscimento a un magistrato al quale spesso sentiamo il bisogno di rivolgere lo sguardo per ritrovare il senso più profondo di una professione che impone elevata competenza tecnica, ma che non si esaurisce in questa. Tuttavia questa sensazione è conforme alla povertà dei nostri schemi. È come se dicessimo che Livatino ha raggiunto l’apice di una carriera, la più alta, quella della schiera dei santi. Invece, come non ha mai cercato palcoscenici in terra, oggi dall’aldilà non cercherebbe altari dove collocarsi.

Piuttosto è invece una opportunità per noi, per la Sicilia, per la Chiesa e per la magistratura. Proclamarlo beato ci permette di guardarlo meglio e riconoscere come, anche tra le imperfezioni delle nostre istituzioni e le fragilità degli uomini, pur investiti di forti responsabilità, anche nei contesti apparentemente irredimibili della nostra società, sia possibile fondere professione e missione in un comportamento feriale e discreto, invisibile solo perché la luminosità deve saper essere nient’altro che trasparenza.

 

E quali reazioni la notizia ha suscitato nel suo ambiente di lavoro?

Quelle che può determinare un fascio di luce, quando ti raggiunge nel pieno di una notte buia. Un segno di speranza nel momento in cui la magistratura, al livello più basso della sua credibilità presso l’opinione pubblica, sta ripiegata su stessa sotto le macerie del caso Palamara a leggere e rileggere chat uscite da uno smartphone, mentre ci sarebbe da leggere con attenzione e pazienza «la società che cambia», come diceva Livatino nella sua conferenza sul ruolo del giudice del 1984, spiegando che i magistrati, se non sanno praticare un dialogo fecondo con la storia al cui interno operano, perderanno il proprio ruolo e appariranno solo come un’istanza di potere: autoreferenziale, terribile e fragile.

 

Livatino ha raggiunto la santità attraverso una vita di impegno civile e professionale, tipicamente laicale. Qual è il significato di questa beatificazione per i cristiani impegnati, soprattutto nella lotta alla mafia?

Livatino si riconosceva parte delle comunità dove era inserito, ma non era un conformista. La Chiesa era ancora in ritardo nella comprensione della reale gravità del fenomeno mafioso e soprattutto ancora non aveva elaborato una chiara pastorale che ne additasse la inconciliabilità con il Vangelo. In ritardo era anche la società, per non parlare della politica e del mondo economico, dove l’inconsapevolezza faceva da cemento alle complicità. Livatino si sa spingere in avanti e soprattutto riconosce gli interessi mafiosi in quegli ambiti dove non c’era allarme sociale, ma anzi compiacenza, e dove molti cattolici o uomini di Chiesa non vedevano peccato perché non vi riconoscevano le categorie canoniche: i finanziamenti pubblici, l’abusivismo edilizio, gli affari dell’imprenditoria più disinvolta e compromessa. E lo fa nella periferia dell’impero, in un periodo in cui i media parlavano della mafia di Palermo, mentre ci si era già dimenticati che quella melliflua e pervasiva raccontata da Sciascia ne Il giorno della civetta (1961) era la stessa di cui si occupava Livatino nella provincia di Agrigento.

 

E che stimolo rappresenta per la Chiesa siciliana?

Egli incarna il coraggio sapienziale di cui il laicato può essere capace: l’amore per il prossimo che si traduce nella storia e oltre la storia nel servizio allo Stato e alle sue leggi, riuscendo a cogliere le manifestazioni del male nel contesto, andando oltre le comode abitudini, la pavidità e l’opinione corrente.

 

Non tutti i magistrati sono credenti, né lo sono tutti coloro che lottano contro la mafia: in che modo la figura di Livatino può essere di ispirazione anche per chi non fa parte della comunità cristiana?

Livatino non si vantò mai di essere credente, nemmeno in occasione della conferenza intitolata “Fede e diritto”, tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986. Invece, nell’intimità del suo diario aveva scritto la frase alla quale oggi tutti lo associamo: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». In questo era autentico seguace di Cristo, che non fa differenze tra le genti e che, quando tutte le riunirà per giudicarle, distinguerà i giusti per le opere che hanno compiuto in favore degli ultimi, anche se non si sono nemmeno resi conto di averle compiute in favore di Dio.

 

La via della santità non passa necessariamente per il martirio: in che modo si cammina verso la santità esercitando il ruolo di magistrato?

Il magistrato esercita un potere e il potere è “una brutta bestia”, difficile da far diventare una via per la santità. Se non si svolge questo compito esercitandosi ad ascoltare gli altri senza superbia e ricordandosi che ci si siede sullo scranno dell’accusatore o del giudice non perché si è migliori ma perché di qualcuno che occupi quel posto c’è bisogno, allora può diventare la via per la dannazione. Il magistrato italo-americano Guido Calabresi ha scritto alcuni anni fa che nel mestiere di giudice ogni giorno si deve fare del proprio meglio e comunque chiedere scusa. È segno che l’insegnamento di Livatino è arrivato oltreoceano.

 

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