Resistenti

Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia

Tzvetan Todorov
Garzanti, Milano 2016, pp. 221, € 17
Scheda di: 
Fascicolo: ottobre 2017

Con il libro Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustiziai>, il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov, un grande maestro del nostro tempo scomparso di recente, riesce nel difficile compito di intrecciare destini individuali ed eventi storici, facendo emergere un comune orizzonte di significati e valori, una comune traccia d’umanità. Il racconto della lotta contro la barbarie ingaggiata da otto uomini e donne nostri contemporanei, così diversi tra loro per formazione, visione politica e vicenda personale, trascende le singole esperienze, muovendo verso un “principio morale di base” – la possibilità umana di dare una priorità all’altro rispetto a sé –, formulato da Emmanuel Lévinas, filosofo molto caro all’A.

Todorov, con sguardo delicato, lucido e intimamente partecipe, ci accompagna in un percorso il cui fil rouge è costituito da una bella notizia: è possibile rimanere uomini, non cedere al male, vivere affermando il bene anche in un campo di concentramento, o di fronte alla negazione della libertà, al fanatismo, al razzismo. Ci sono consegnati, a un tempo, una speranza e un appello: l’io umano non può essere totalmente schiacciato da nessuna struttura, apparato o circostanza avversa, per quanto sfavorevole e inumana possa apparire.

I protagonisti del saggio testimoniano con forza un’ultima irriducibilità della libertà a ingranaggio di un sistema vuoto e impersonale. È significativo notare che le situazioni prese in esame sono vissute tanto da dissidenti dei Paesi ex comunisti quanto da cittadini delle moderne democrazie liberali. In questo modo l’A., senza dichiararlo esplicitamente, evidenzia che non esiste forma di governo o istituzione politica nella quale il rischio di negare l’umano nei suoi tratti costitutivi sia totalmente eluso; verità, libertà e rispetto della comune dignità non sono assicurati da nessun sistema o costituzione.

Prima di tratteggiare i singoli percorsi, l’A. individua alcune caratteristiche comuni ai suoi protagonisti. In primo luogo, il valore positivo del rifiuto. Il “no” del resistente è proferito in funzione e al servizio di un più originario “sì”. Paradossalmente, esso afferma piuttosto che negare, ponendosi come argine al male personale e collettivo, pronto a pagare un alto prezzo (la libertà, la tranquillità personale, fino alla stessa vita), perché si è riconosciuto un bene, se possibile, ancor più importante.

In questi uomini e donne, l’idealità non scade mai in idealismo: la risposta unica e personale dei resistenti di cui si narra non parte da uno schema previo, dall’invenzione ragionata di un io narcisistico. Il resistente non è perfetto (l’A. non ci risparmia debolezze e limiti, con uno sguardo realistico e lontano da sdolcinate idealizzazioni agiografiche), né segue un codice morale già confezionato. Benché incoraggiato e ispirato nella sua azione da esempi attinti alle proprie tradizioni, religiose o meno, il resistente non ha un codice standard da applicare alla situazione che si trova a fronteggiare. Salta ogni riferimento alla generalità/genericità dell’etica intesa in senso astrattamente normativo o deontologico. Nessun navigatore automatico, solo la forza, discreta ma efficace, di una coscienza singolare che si lascia interpellare dall’hic et nunc dell’ingiustizia in quanto realtà oggettivamente intollerabile. Questa singolarità, questo punto di vista personale e irriducibile, rende la strada del resistente un cammino in salita, controcorrente, umanamente difficile, a tratti quasi insostenibile. Appare però a chi lo pratica come l’unica alternativa possibile alla – certo più comoda – resa di fronte all’ingiustizia, al male, alla violenza. La lotta è però sempre sbilanciata, mai combattuta ad armi pari: il resistente dispone per definizione di mezzi decisamente inferiori rispetto a quelli messi in campo da chi detiene il potere.

È la difficile assunzione di responsabilità individuale, costi quel che costi, mossa dall’amore per la verità, la cifra comune degli otto resistenti d’eccezione a cui Todorov dà voce. Etty Hillesum, giovane ebrea deportata e morta ad Auschwitz nel 1943, rifiutò l’odio indifferenziato contro il nemico: per lei quest’ultimo è lo specchio nel quale vediamo noi stessi, le nostre stesse brutture, mancanze e possibilità negative. Affermerà, poco prima di morire per mano dei nazisti, che la vita è buona, in ogni caso: e questa bontà è presente, misteriosamente, anche nel cuore dei nostri aguzzini.

Germaine Tillion, resistente francese al tempo del nazismo e poi coraggiosa attivista che denunciò le ingiustizie del colonialismo, formulò il concetto di “nemici complementari”, per cui la violenza di una parte viene legittimata dalla violenza dell’altra, in una spirale infinita. A questa inesorabile legge del taglione Germaine oppose una strada alternativa: scommettere sulla comune umanità dei contendenti, piuttosto che sulla fedeltà al proprio gruppo – logica del branco – che separa i buoni dai cattivi, “noi” da “loro”.

Pur uniti dalla comune vocazione letteraria, Aleksandr Solženicyn e Boris Pasternak affrontarono in modo diverso il leviatano sovietico. Se il primo decise di sfidare apertamente il sistema, rischiando la vita con la denuncia dei gulag e del destino dei prigionieri rinchiusi in Siberia, il secondo invece, d’indole meno battagliera ma con un’altrettanto decisa avversione per la menzogna, preferì puntare sulla forza gentile della sua arte letteraria, tratteggiando storie di uomini impegnati nella costruzione della propria umanità, alla costante ricerca del proprio posto nel mondo. Entrambi pagarono un caro prezzo per la loro resistenza fatta dall’uno attraverso l’azione e dall’altro con l’arma della contemplazione e della riflessione.

Della figura pluriosannata del leader dell’African National Congress, poi presidente del Sudafrica Nelson Mandela, l’A. ripercorre le diverse tappe, evidenziando l’evoluzione spirituale e la visione politica di un resistente entrato giustamente nelle pagine della grande storia. Todorov lo presenta come perfetta antitesi del Principe machiavelliano: in Mandela, infatti, la virtù morale e l’utilità politica non sono separabili. I migliori risultati, a suo parere, si ottengono scommettendo sulla parte migliore di chi si ha davanti, accordandogli una previa stima, nella speranza che questi tirerà fuori risorse di bene inaspettate. Si realizza in Mandela quanto di più raro si possa immaginare, pensando a un politico impegnato in un contesto così intriso d’odio e risentimento come il Sudafrica pre- e post-apartheid: la compresenza di un grande potere e di una altrettanto sorprendente capacità di perdono, bontà e amore per chiunque, compreso l’avversario politico e i propri ex carcerieri. Una libertà testimoniata anche dal fatto che «Mandela ha lasciato la carica dopo il suo unico mandato: il potere non lo ha reso assetato di potere» (p. 205).

Pur con alcune rilevanti differenze, analoga è la posizione assunta da un altro resistente contemporaneo nei confronti della violenza e dell’odio. Si tratta di Malcolm X, assassinato il 4 aprile del 1968, all’età di trentanove anni. Todorov sostiene che questo resistente «dimostra che è possibile vincere il determinismo razziale, o sociale, o psichico, trasformandosi dall’interno con l’adesione a un ideale. Ma soprattutto egli sa riconciliare in sé i principi universali e la difesa di una comunità, la rinuncia all’odio e il proseguimento della lotta» (p. 173).

Il testo si conclude narrando l’esperienza di due resistenti contemporanei, le cui storie s’intrecciano con la cronaca (sono infatti gli unici due protagonisti ancora in vita). Si tratta di David Shulman ed Edward Snowden. Il primo, israeliano, è impegnato in una coraggiosa attività di resistenza non violenta nel tragico scontro che oppone la sua nazione, Israele, alla Palestina. Alla logica mortifera dei nemici complementari, che nei due nazionalismi estremi si realizza con singolare ferocia, Shulman contrappone una strada differente. Insieme a un gruppo di volontari di entrambi le parti è da anni impegnato in prima linea: «Shulman si reca nei territori occupati, là dove i palestinesi rischiano l’espulsione, le loro terre la confisca, le loro abitazioni la distruzione: la semplice presenza di persone che protestano […] permette talvolta di ritardare, o perfino di sospendere le misure antipalestinesi. Minuscole vittorie, ottenute senza il ricorso alla violenza» (p. 182). Snowden, come Solženicyn, è pronto a pagare a caro prezzo la propria azione di resistenza, ingaggiata contro la nazione più potente mai conosciuta dalla storia umana, gli Stati Uniti. La sua vicenda inizia con la denuncia alla comunità internazionale dell’indebita appropriazione da parte delle agenzie governative statunitensi di un numero altissimo di dati personali di cittadini non sospettati di alcun crimine. Una “acquisizione preventiva” d’informazioni che da più parti è stata associata ai peggiori scenari distopici narrati da autori come George Orwell.

Nell’esistenza di questi uomini e donne «Tutto avviene come se il soffocamento suscitasse per reazione la forza intellettuale, come se la mancanza radicale di umanità preludesse alla sua manifestazione più evidente, come se fosse necessario essere espulsi dalla vita per raggiungere il suo punto focale. Il dolore estremo genera allora la piena liberazione: dalla paura totale nasce il coraggio totale» (p. 208). Per chi scrive, il valore di questo libro non consiste solo in chiarezza di scrittura, varietà delle fonti utilizzate ed equilibrio nel giudizio storico; ancor di più, esso è in grado di mostrare al lettore una possibilità alta, positiva, generativa; e – ecco il suo valore testimoniale – percorribile da chiunque ritenga la conservazione della propria umanità come il bene più prezioso, ancor più della stessa vita, per quanto illogico o innaturale questo possa sembrare.

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