Quale giustizia?

Fascicolo: marzo 2020

Nel nostro tempo assistiamo all’estendersi della conflittualità a tutti i livelli. È il sintomo di un disagio crescente che attraversa la nostra società e che porta all’erosione dei vincoli interpersonali e sociali. Una deriva in cui si riconosce «la traccia violenta dell’umano… gli altri diventano ostacoli, oggetti di cui disporre, oppure nemici da negare» (Lizzola I., «La risposta al reato. Oltre il diritto di punire: prospettive pedagogiche», in Eusebi L. (ed.), Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale, Vita e Pensiero, Milano 2015, 39).

Abbiamo documentato in precedenti interventi come «la traccia violenta dell’umano» affiori lungo l’intera Scrittura. Particolare interesse rivestono i primi capitoli della Genesi. In essi viene chiamata in causa la cupidigia – il desiderio smodato di essere tutto e di avere tutto – quale terreno in cui la violenza mette radici e si propaga. La volontà di dominio assoluto nei confronti della realtà (la brama di essere «come Dio» [cfr Genesi 3,5]), misconoscendo che la vita è segnata da quello che Paul Ricoeur ha chiamato «un dono inaugurale» (Bianchi E. [ed.], Paul Ricoeur: La logica di Gesù, Qiqajon, Magnago 2009, 147), conduce a piegare tutto e tutti al proprio interesse. Viene così stravolta la percezione di Dio, visto non come colui che dona la vita, ma come colui che la soffoca. Radicata nella relazione distorta con l’Origine, la cupidigia investe i rapporti interpersonali, che vengono vissuti nel segno dell’aggressività, come illustra il racconto di Caino e Abele in Genesi 4,1-16 (cfr Teani M., «Dominare la violenza», in Aggiornamenti Sociali, 10 [2017] 686-689). L’altro, invece di essere visto come fratello da riconoscere, è percepito come rivale da eliminare. Ma la violenza non si ferma qui, si estende ai rapporti sociali, moltiplicandosi con progressione geometrica fino a occupare la terra intera (cfr Genesi 6,11-13), che diventa preda dell’ingiustizia e della corruzione (cfr Teani M., «Dominare la violenza 2», in Aggiornamenti Sociali, 12 [2017] 854-858). Da dove partire per arginare tanto male?

 

Il caso serio: il «cuore»

Le Scritture ebraico-cristiane segnalano le forme istituzionali nelle quali l’ingiustizia prende corpo e si afferma nella storia. La voce dei profeti si alza ripetutamente a denunciare la violenza che intacca le sfere dell’economia, della politica e del diritto e lo stesso ambito religioso. Tuttavia, l’interesse principale della Bibbia si concentra sul “cuore” umano, cioè su quel centro personale nascosto, da cui scaturiscono le decisioni fondamentali e proviene l’orientamento di fondo dell’esistenza. È questa una linea interpretativa che arriva fino a Gesù. Si pensi all’episodio narrato nel capitolo settimo di Marco. Impegnato in un serrato confronto con gli scribi e i farisei sull’osservanza delle norme di purità alimentare, il Maestro di Nazaret relativizza tale pratica, chiamando in causa il cuore e l’intenzionalità che lo attraversa. Afferma che non c’è nulla fuori dall’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose vengono fuori dall’interno e contaminano l’uomo (Marco 7,21-23).

In continuità con l’ammonimento di Gesù, il cardinal Martini, pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ricordava che tutti gli sforzi per contrastare il terrorismo «con la forza delle armi non avranno un effetto duraturo se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause profonde del male stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia» (Omelia nella festa di Sant’Ambrogio, riportata in Corriere della Sera, 7 dicembre 2001). Il caso serio è dunque il cuore, poiché è in esso che si annidano i semi della violenza. È nel cuore che deve avvenire un mutamento radicale, se si vuole assicurare un cambiamento profondo e duraturo a livello istituzionale.

 

La logica del cuore violento

C’è una logica che tende a imporsi nel cuore di chi è preda della cupidigia. È quanto ha messo in luce Armido Rizzi, analizzando quello che ama chiamare il «cuore padronale» (Rizzi A., Alle origini della violenza. Il nodo della cultura di pace, Pazzini, Villa Verucchio 2015, 33). Lo studioso ha mostrato come esso non sia solo la fonte dell’agire violento ma, più radicalmente, tenda a giustificare tale agire, a renderlo cioè un atto di giustizia. «È questo il cuore padronale: quello per cui il possesso diventa diritto e l’imposizione della propria volontà atto di giustizia; quello per cui la sacralità dell’orizzonte di diritto e giustizia diventa “i miei sacrosanti diritti”» (Id., «Il cuore violento. Fenomenologia della violenza umana», in Servitium, 18 [novembre-dicembre 1981] 10). Quando si abbraccia questa logica perversa, «quando ciò che io voglio è, per ciò stesso, giusto, la possibile interferenza non è più semplice concorrenza; è ingiustizia, torto, offesa» (ivi). L’altro diventa nemico «così che l’aggredirlo assurge ad affermazione di giustizia, a ricomposizione dell’ordine leso» (ivi, 11). La conclusione si impone: «la storia umana è storia di violenza non soltanto perché collisione di interessi ma perché è capacità di trasformarli in questioni di principio, in ideali da salvaguardare, in cause per cui battersi» (ivi, 12). Come intervenire in una storia di violenza, in cui il cuore padronale, preda della cupidigia, escogita “ragioni” per giustificare l’agire prevaricatore nei confronti degli altri?

 

Una via d’uscita

Come ha mostrato Pietro Bovati, le Scritture ebraico-cristiane forniscono una risposta originale all’interrogativo appena posto. Lo studioso ha raccolto i risultati della sua prolungata ricerca in una pubblicazione (Vie della giustizia secondo la Bibbia. Sistema giudiziario e procedure per la riconciliazione, EDB, Bologna 2014), a cui rimandiamo per una puntuale documentazione. Qui ci limitiamo a richiamare un punto chiave, che egli mette a fuoco a partire da quanto maturato all’interno della tradizione profetica.

In maniera sempre più chiara i profeti riconoscono che Israele e l’intera umanità si trovano sotto il dominio della violenza e della menzogna. Ora, se tutti sono compromessi con il male, tutti, secondo una concezione retributiva della giustizia, sono da condannare. Dio, quale giusto giudice, dovrebbe emettere un decreto di condanna esteso a tutti. Ma ciò sarebbe in stridente contraddizione con la rivelazione di Esodo 34,6: Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà. Si afferma allora, all’interno della tradizione profetica, un rovesciamento di prospettiva. Si giunge a interpretare l’azione di giustizia che Dio attua nei confronti del popolo peccatore, alla luce della procedura giuridica detta «lite bilaterale» (in ebraico: rîb, cfr Osea 2,4-25; Isaia 1,1-20; Geremia 2-3; Ezechiele 16; ecc.).

Tale procedura si svolge tra due soggetti legati da un vincolo preciso, che comporta un impegno di fedeltà e di aiuto reciproco. Se uno dei due soggetti ritiene di avere subìto un torto (si pensi, in ambito familiare, a uno dei coniugi nei confronti dell’altro, o, in ambito politico, a una nazione nei confronti di un’altra nazione alleata), intraprende un’azione giuridica senza fare ricorso a un giudice super partes. Convocato il partner, la parte lesa denuncia il male subìto, adduce le prove, confuta le scuse, allo scopo di far ragionare l’interlocutore, così che giunga a riconoscere la verità dei fatti contestati. La parola accusatoria cerca di «smuovere coloro che hanno consolidato il loro ingiusto comportamento mediante l’ipocrisia, un distorto apparato ideologico, un costume socialmente approvato, e per questa ragione resistono a ogni parola di denuncia» (Bovati P., «“Quando le fondamenta sono demolite, che cosa fa il giusto?” [Sal 11,3]. La giustizia in situazione di ingiustizia», in Ricerche storico bibliche, 1-2 [2002] 35). Avviando la procedura giuridica della «lite bilaterale», la parte lesa, in assenza del giudice, non cerca la condanna del trasgressore. Tende invece a recuperare nella verità la relazione con quest’ultimo; cerca, in altre parole, la riconciliazione.

Alla luce dell’intenzionalità che attraversa il rîb, i profeti ripensano il modo in cui Dio interviene in una storia di peccato, preda di una violenza pervasiva che inquina i rapporti. Ricorrendo ora alla metafora paterna (cfr Isaia 1,2-20), ora a quella sponsale (cfr Osea 2,4-25; Geremia 2-3), essi presentano il Signore come parte lesa che, di fronte al torto subìto (la ribellione dei figli o l’infedeltà della sposa), non chiede la condanna di chi ha compromesso la relazione, ma cerca in tutti i modi di ripristinare e rinsaldare il legame con gli stessi che lo hanno infranto. Per questo, con parole appassionate, persino dure, il Signore le tenta tutte per parlare al cuore di chi rimane oggetto del suo amore, affinché risponda con il pentimento e si apra al perdono (cfr Osea 2,16).

Merita qui di essere particolarmente sottolineato il fatto che è attraverso una parola di sapienza che Dio si trova impegnato a smontare le giustificazioni teoriche, a cui fa ricorso il cuore violento, nel tentativo di dare una parvenza di giustizia al proprio agire prevaricatore.

 

La forza del perdono

Attraverso la parola dei profeti – dura come un martello che spacca la roccia (Geremia 23,29b) ma, nello stesso tempo, «dolce come il miele» (Ezechiele 3,3b) – Dio ha parlato molte volte e in molti modi fino alla venuta del Figlio (cfr Ebrei 1,1-2). È in Gesù di Nazaret che la tradizione profetica trova piena realizzazione, in Lui viene rivelata la suprema giustizia di Dio. Essa si dispiega non nel giudizio di condanna ma in un agire che riabilita il malvagio in forza di un amore tenace, capace di vincere il male attraverso il perdono. La storia di Gesù – il quale, per non condannare nessuno, accetta di subire una ingiusta condanna – mostra che la giustizia è un cammino di progressiva realizzazione dell’amore. È una strada che, percorsa fino in fondo, conduce alla croce. Sul Golgota l’uomo-nemico è stato trattato fino in fondo come amico. Là Gesù ha riscattato nel perdono la stessa malvagità che lo ha ucciso.

Emblematico è un passo della Lettera agli Ebrei, in cui è detto che il sangue di Cristo parla più forte del sangue di Abele (Ebrei 12,24. Per questa traduzione cfr Marcheselli Casale C., Lettera agli Ebrei, Paoline, Milano 2005, 570). L’A. fa riferimento a Genesi 4,10 dove, dopo l’uccisione di Abele, Dio si rivolge a Caino con queste parole: La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. Secondo la tradizione biblica, il sangue versato grida al cielo, chiede cioè che Dio intervenga perché il malvagio non resti impunito e venga ristabilito il diritto e riparato il torto (cfr Bovati P., Vie della giustizia, 48-49). È un grido che continua a levarsi nel mondo. Il sangue di Abele presta la propria voce a tutte le vittime della storia, denuncia la violenza fratricida che insanguina i popoli e fa appello a Dio perché ponga fine a questo tragico stato di cose. Dio ha risposto attraverso suo Figlio. Alla vicenda originaria di Caino e Abele fa da contrappunto un’altra vicenda fondatrice, quella di Gesù. Egli riceve su di sé i colpi mortali della violenza. Tuttavia il suo sangue, invece di invocare la punizione del colpevole, grida perdono. È un grido più forte di quello che si alza dal sangue di Abele, è un grido che sopravanza la richiesta di una giustizia meramente retributiva. La parola di perdono che si leva dalla croce indica a tutti la strada con cui Dio, nella sua sorprendente giustizia, ricompone la fraternità, una fraternità che tende a non escludere nessuno, nemmeno il malvagio.

5 marzo 2020
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