Progettare

Dialoghi intorno a una pratica generativa

Emilio Vergani
Navarra Editore, Palermo 2016, pp. 77, € 12
Scheda di: 
Fascicolo: dicembre 2016
Che cos’è la progettazione? Questa è la domanda alla quale vuole rispondere Emilio Vergani, docente di Metodi e tecniche della progettazione sociale presso l’Università LUMSA Santa Silvia di Palermo, proponendo ai lettori una nuova prospettiva. Lo spettro di ambiti evocati dalla parola progettazione è ampio, come lascia presagire il relativo spazio semantico (“progetto”, “progettista”), andando da realizzazioni di grande respiro alla vita quotidiana e alle emozioni che sorreggono le singole scelte. Infatti, comprendere l’atto del progettare, come sottolinea l’A., significa interrogarsi sulla natura stessa del soggetto umano. Per tale motivo esso necessita sempre di una teoria del soggetto che ne supporti il senso ed eviti che si cada nella mera tecnica. Con questo orizzonte di fondo il libro si sofferma sulla pratica della progettazione considerata ad ampio raggio, da quella sociale all’urbanistica, a quella degli oggetti, considerata come uno strumento che prova a dare senso alle idee, alla fantasia, all’immaginazione e non un fine o un insieme di tecniche finalizzate a riprodurre se stesse.

Il libro, articolato in sette dialoghi, ha come protagonista Beniamino che incontra maestri, architetti, progettisti, studenti e si confronta con loro su aspetti della progettazione. La scelta del genere letterario del dialogo in un testo saggistico risponde a una doppia esigenza: creare un’ambientazione lontana dai luoghi formali della trasmissione del sapere codificato, come le aule scolastiche; entrare direttamente nell’argomento affrontato senza mediazioni. Rifiutando di essere una guida alla progettazione, il testo si propone come una riflessione rivolta a tutti i professionisti sulla progettualità intesa come pratica generativa, in grado di predisporre alternative di realtà possibili. Come sostiene Beniamino, «Progettare […] è un gettare-oltre lo sguardo, nel buio sconosciuto, ma alla ricerca di cosa? Si getta lo sguardo verso l’ignoto perché ci manca qualcosa, il presente non è completo, quel che c’è non basta, quel che si sa non ci appaga appieno oppure non ci fa risolvere i problemi che abbiamo. […] Ora se guardiamo le cose da questo punto di vista, allora è facile notare che fare progetti non è qualcosa che riguarda solamente dei professionisti, non è un lavoro: creare progetti è il destino dell’uomo, di ogni uomo e di ogni donna, in qualsiasi tempo» (p. 17). Questo momento storico è, per Beniamino, l’interregno – come diceva Gramsci –, un tempo in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere (cfr p. 14) e nel quale proliferano incontrollati progetti spesso estemporanei che non considerano il senso dell’azione e l’importanza del discernimento.

La prospettiva proposta dall’A. parte invece dalla necessità di disorientare, dalla messa in discussione dei propri punti di riferimento, adottando un atteggiamento “riflessivo” su quel che si fa, per poi riorientarsi, ossia trovare “certezze” nuove o rinnovate. Come procedere? Il primo passo è riattivare la capacità di immaginare, che è stata accantonata nella contemporaneità a causa dell’idea che la razionalità moderna possa rispondere a tutte le esigenze del vivere quotidiano. Per fare questo è necessario riscoprire la fiducia nel futuro, gettando lo «sguardo nel buio» (titolo del primo dialogo), verso l’ignoto, per cercare l’altro, l’altro da noi, distinto da ciò che già conosciamo, da ciò che sappiamo fare o in cui crediamo.

Altro ingrediente è il coraggio nell’utilizzare la propria facoltà di pensare razionalmente e con discernimento. Prendere le distanze dall’oggetto consente di vedere relazioni invisibili e di imparare a stabilire nuove connessioni, nuovi nessi inferenziali. Chiunque svolge un’attività di progettazione è necessario che costruisca intorno a sé una mente collettiva (mente allargata) che formuli domande e permetta di trovare soluzioni inattese a problemi sconosciuti o solo intuiti. La mente collettiva, a cui è dedicato il quarto dialogo, è un dispositivo che non individua soltanto le domande ma dà forma ai problemi e voce agli interessi, è la conseguenza della scelta di utilizzare un approccio partecipato alla progettazione. Ciò comporta, come consigliava Rainer Maria Rilke, di “imparare ad abitare le domande” e, come aggiunge l’A., di praticare l’ascolto attivo, che non significa soltanto raccogliere le richieste o le preoccupazioni dell’altro, ma riuscire a formulare le domande giuste ai bisogni. Ma come? L’argomento è complesso e implica la necessità di rimodulare in profondità il proprio modo di operare. Ciò porta lo studioso a considerare la dialettica tra realizzazione e distruzione nella struttura di un progetto: «Ideare un progetto e poi tradurlo in pratica ha sempre un prezzo perché raramente si va ad occupare uno spazio lasciato vuoto, il più delle volte si lavora per fare spazio al proprio progetto e ciò può voler dire la distruzione di qualcosa che c’è: un oggetto reale, uno stile, un simbolo. […] Non si progetta mai in uno spazio vuoto, neutro, spopolato» (p. 59).

Infine, nell’ultimo dialogo è espressa la domanda sviluppata durante tutta la trattazione, ossia che cosa è la pratica progettuale, quale dovrebbe essere l’etica di chi progetta e da dove inizia una buona progettazione. La risposta dell’A. è che la progettazione è un’esperienza di produzione di senso e dovrebbe iniziare dall’ostranenie, parola usata dai formalisti russi negli anni ’20 del Novecento, ossia dallo “straniamento”, dal vedere le cose per la prima volta, dal sentirsi stranieri. Solo attraverso l’adozione di questa prospettiva è possibile avere una visione delle possibilità verso cui dirigersi e sviluppare una coscienza progettuale, che costituisce quel luogo interiore in cui il progettista diviene consapevole delle innumerevoli connessioni innescate dai propri progetti. In questo modo la coscienza progettuale, la cui formazione non è esclusivamente un problema tecnico ma è legata alla formazione dell’individuo, necessita di una prospettiva etica che orienti al riconoscimento dell’appartenenza reciproca e all’esercizio di virtù quali l’attenzione e la pazienza (cfr p. 74).


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