Il Concilio Vaticano II ha descritto la Chiesa nel suo insieme come “popolo di Dio”, intitolando così il secondo capitolo della Lumen gentium e anteponendolo a quello sull’organizzazione gerarchica interna. L’espressione è desunta dalla Bibbia e viene impiegata in senso strettamente teologico, per esprimere la comunione – segno di quella trinitaria – fra tutti i battezzati, aventi pari dignità al di là dei ruoli e dei doni di grazia particolari di ciascuno. Ma “popolo” è anche una categoria politica e il Concilio fu indubbiamente audace nell’impiegarla, ben sapendo di non poter eludere il confronto con la teoria e la prassi marxista in auge all’epoca.
Mentre in quel contesto di opposte ideologie il concetto indicava un vero e proprio soggetto politico, oggi può evocare realtà diverse e complesse, non inquadrabili in una cornice univoca. Lo stesso fenomeno del “populismo”, che ha nel “popolo” la sua matrice sociale e ideologica, non è chiaramente definibile, ma assume fisionomie variabili sotto l’influenza determinante dei mezzi di comunicazione e dei social media. Si tratta di «uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale […] nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione» (Revelli M., Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2017).
Nella Bibbia, invece, il popolo è sempre al tempo stesso soggetto e oggetto dell’azione divina nella storia.
Un popolo e i suoi nemici
Dio aveva promesso di donare ai patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe e ai loro discendenti una terra dove avrebbero potuto vivere in libertà e prosperità, servendo il Signore. Ma la posizione geopolitica di quella terra bella e spaziosa […] dove scorrono latte e miele (Esodo 3,8) l’ha sempre collocata nel mezzo di aspri conflitti per controllarne il territorio, non tanto per la ricchezza, quanto per la posizione strategica come luogo di transito, sia delle merci, sia degli altri popoli, alleati o nemici.
Solo nel X secolo a.C. la Palestina gode di unità e indipendenza politica e amministrativa, con i re Davide e Salomone, ma per il resto della sua storia ha sempre dovuto fare i conti con due fattori destabilizzanti: la pressione dei popoli circostanti e l’irriducibile conflittualità interna.
In particolare le vicende del regno del Nord, Israele, sono state segnate dalle relazioni con gli aramei, gli abitanti dell’attuale Siria, e gli assiri, residenti più a Nord-Est, nella regione posta tra Tigri ed Eufrate, nell’attuale Iraq settentrionale. L’espansione dell’Assiria verso Sud-Ovest, iniziata nel IX secolo a.C. con il re Assurbanipal II, viene contenuta con alterne vicende, finché Sargon II nel 722 a.C. distrugge Samaria, la capitale del regno del Nord mai più ricostituito, deporta e sostituisce con coloni stranieri parte della popolazione e impone un tributo.
Il regno del Sud, Giuda, resiste invece fino all’invasione, nel 587 a.C., dei babilonesi, che avevano già sottomesso l’Assiria, distruggendone la capitale, Ninive, nel 612 a.C. La caduta di questa città, cresciuta negli anni fino a diventare il simbolo della potenza e della crudeltà degli assiri, è salutata dal profeta Naum come segno dell’azione storica del Signore a favore del suo popolo, l’inevitabile nemesi contro chi tanto aveva infierito sul popolo dell’alleanza confidando nella sua forza, ormai ridotta a nulla: Guai alla città sanguinaria, piena di menzogne, colma di rapine, che non cessa di depredare! Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitio di cavalli, cigolio di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri (Naum 3,1-3).
Il libro della “consolazione” (questo indica il nome Naum in ebraico) è stato scritto in prossimità degli eventi annunciati o celebrati e fa parte del rotolo dei dodici profeti cosiddetti “minori” per la brevità dei loro scritti. Nella stessa raccolta, però, si trova un altro scritto profetico che tratta di Ninive: il libro di Giona, affiancato a quello di Naum nei manoscritti della LXX – la versione in greco della Bibbia – ma sorprendentemente diverso.
Chi è il vero popolo?
Il nome del profeta Giona evoca l’immagine della balena (in realtà “un grande pesce” nel testo ebraico), ripresa anche da Gesù nel Vangelo (cfr Matteo 12,40). È uno dei personaggi più simpatici della Bibbia, oggetto di grande ironia da parte del narratore, che ne fa il protagonista di una storia molto simile a una favola, ma non per questo da declassare rispetto ai testi degli altri profeti, di cui è una parodia dal messaggio teologico assai serio.
All’inizio del racconto Giona viene presentato come un profeta vissuto al tempo di Geroboamo II (circa 786-746 a.C.), il re che ristabilì i confini di Israele dall’ingresso di Amat fino al mare dell’Arabia secondo la parola del Signore Dio di Israele, pronunziata per mezzo del suo servo il profeta Giona figlio di Amittài, di Gat-Chefer (Secondo libro dei Re 14,25). L’autore colloca narrativamente il lettore prima della caduta di Ninive, quando il re d’Israele era riuscito a sconfiggere gli aramei, consolidando i confini del suo regno. Un tempo favorevole, quindi, agli occhi di Dio, per svolgere una missione di pace: Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me» (Giona 1,1-2). E invece, senza rispondere nulla – e la parola è tutto per un profeta – neanche per schernirsi, come avevano fatto altri prima di lui, sostenendo di non essere all’altezza del compito (cfr Mosè in Esodo 3,11 o Geremia 1,6), Giona fugge in direzione opposta, imbarcandosi nel tentativo assurdo di andare lontano dal Signore, a Tarsis, ai confini del mondo allora conosciuto (Giona 1,3).
Per quanto ridicolo, il tentativo di fuga è umanamente comprensibile e narrato con ironia, per aiutare il lettore a distaccarsene, ma con misericordia, e ad assumere il punto di vista di Dio, chiedendosi perché mai affidi una missione così importante e oggettivamente pericolosa a un uomo evidentemente non all’altezza del compito, un antieroe e antiprofeta.
Per comprendere l’intenzione comunicativa dell’autore, bisogna considerare che il testo è stato composto molto più tardi rispetto all’ambientazione della storia, nel post-esilio, probabilmente nel V o IV secolo a.C., un tempo segnato dalla riforma avviata dai governatori Esdra e Neemia sotto la protezione dei sovrani del momento, i persiani. La loro azione punta a ripristinare la tradizione giudaica attraverso la purezza del culto e la fedeltà alla legge mosaica, escludendo ogni possibile compromesso derivante dalla convivenza con gli altri popoli presenti in Palestina, proibendo ad esempio i matrimoni misti. Ne abbiamo una testimonianza nella preghiera di Esdra, scriba di stirpe sacerdotale esperto nella legge mosaica (cfr il riquadro qui sotto).
Esdra 9,10-12
10 Abbiamo abbandonato i tuoi comandamenti 11 che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: «La terra che voi andate a prendere in eredità è una terra contaminata, a causa delle contaminazioni dei popoli indigeni, e delle loro nefandezze, che l’hanno colmata da un capo all’altro con le loro impurità. 12 E allora non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere, così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni della terra e lasciare un’eredità ai vostri figli per sempre».
Questo approccio conservatore genera un conflitto fra quanti, scampati alla deportazione, avevano ricostruito il loro paese devastato cercando di vivere pacificamente in una terra dai confini ormai violati e aperti ai coloni provenienti da altri luoghi e i rimpatriati dall’esilio, che si ritenevano gli unici legittimati alla ricostruzione, essendosi mantenutisi integri e fedeli alla tradizione.
Attraverso il personaggio di Giona l’autore mette alla berlina questa impostazione teologica e politica. Questo profeta riluttante pronuncia le più belle e ortodosse professioni di fede, quando dice: «Sono ebreo e venero il Signore, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra»; o anche: «So che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato» (Giona 1,9 e 4,2), eppure non riesce ad accettare che quello stesso Dio possa risparmiare dalla distruzione Ninive, la grande città malvagia e corrotta.
Guardando con ironia e prendendo in giro in nome della bontà di Dio chi, come Giona, ritiene di essere l’unico meritevole di salvezza e chi, come Naum, profetizza l’annientamento dei suoi nemici, l’autore afferma, invece, l’impossibilità storica – quindi espressione di un piano divino secondo la più genuina concezione teologica di Israele – di salvarsi da soli: pochi anni dopo la caduta di Ninive, infatti, anche Gerusalemme era stata distrutta dai babilonesi e poi a sua volta Babilonia dai persiani. Per questo la vicenda è ambientata al tempo favorevole di Geroboamo II: non ci si può ritenere al sicuro né politicamente, perché si è riusciti a consolidare i propri confini vincendo i nemici e fortificando le proprie città; né religiosamente, perché ci si isola dagli altri, considerati infedeli, mantenendosi incontaminati agli occhi di Dio, nell’attesa che il nemico venga annientato. Se ci si disinteressa della malvagità e della corruzione presenti altrove e non si compie un’azione preventiva a vantaggio di tutti, amici e nemici, prima o poi quel male dilagherà ovunque.
Uno e molti, ovvero tutti
Il libro di Giona nasce nel post-esilio come espressione del pensiero di circoli profetici portatori di una visione universalistica della fede e della missione del popolo d’Israele, accanto e in opposizione a quella teologica e politica particolaristica.
Tale rielaborazione costituisce una svolta radicale capace di assumere fino in fondo, all’interno della tradizione, le implicazioni della vicenda storica dell’esilio, innanzitutto il superamento della concezione di un dio nazionale in conflitto con le divinità degli altri popoli. Da questo punto di vista, infatti, il Signore, Dio d’Israele, sarebbe solo un dio minore, perdente in quanto sconfitto insieme al suo popolo dagli assiri prima e dai babilonesi poi, entrambi assistiti dai loro dèi più potenti. Se, invece, i nemici sono il mezzo storico di cui Dio stesso si serve, prima per punire con l’esilio l’infedeltà all’alleanza del popolo (cfr Geremia 1), poi per ripristinarlo nella terra promessa (cfr Esdra 1) e Gerusalemme è la città santa dove tutti i popoli si uniranno nella pace per adorare il Signore (cfr Isaia 60), allora non ce ne sono altri, è lui l’unico artefice del mondo e della storia (cfr Isaia 45).
Il legame particolare fra Dio e Israele, il popolo a cui si è voluto rivelare, resta inalterato e necessario, ma l’identità di entrambi è pensabile solo in termini universali, ovvero della manifestazione a tutti i popoli e del loro riconoscimento di questo unico, vero Dio vivente e, quindi, in relazione alla missione storica del popolo eletto. Pertanto è assurdo e antistorico volere che gli altri siano solo puniti per la loro malvagità e non redenti dalla misericordia del Signore, come si aspetta Giona, incapace di gioire per la conversione degli stranieri che incontra.
Prima, infatti, si convertono i marinai, mercenari venali dalla compagnia poco raccomandabile, di lingue e culture diverse, adoratori degli dèi; poi i niniviti, il popolo più crudele e corrotto che ci sia (cfr Giona 1,14-16; 3,5-9). E questo – ironicamente – nonostante il profeta, che alla fine va nella grande città e proclama: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Giona 3,4). Inconsapevolmente, infatti, impiega un verbo ambivalente in ebraico, che può significare distruggere, secondo la sua aspettativa e il senso recepito dai niniviti, o trasformare, secondo, invece, l’intenzione di Dio, che si compie nel perdono delle colpe in seguito al pentimento di tutta la città per il male commesso.
La storia termina con l’immagine fortemente ironica di Giona ripiegato su se stesso, assurdamente afflitto per una pianta di ricino all’ombra della quale si è potuto riparare dal sole del deserto. Dio ha mandato un verme per farla seccare e così rendere il profeta consapevole della piccolezza di quanto gli sta a cuore rispetto alla grandezza dell’opera appena compiuta: Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino? (cfr Giona 4,5-9).
Vox populi, vox Dei?
In questa domanda conclusiva è racchiuso il dramma della tensione fra l’universalità dell’azione storica di Dio e il particolarismo di Giona, incapace di guardare oltre il risentimento della sua frustrazione. I testi biblici – così diversi tra loro eppure conservati in un’unica raccolta – la esprimono in relazione all’identità di un popolo che, come il profeta, non viene ripudiato quando resiste alla missione affidatagli, ma non può appropriarsene, gestendola solo a suo favore, proprio per l’universalità che le è propria. Così, mentre gli autori biblici si muovono dentro la complessità della storia, evitando le semplificazioni, la retorica populista invece offre la possibilità a chi sostiene gli obiettivi politici del leader di sentirsi parte del vero “popolo”, moralmente puro, legittimato a difendere i suoi diritti particolari anche a scapito di quelli degli altri, corrotti o in qualche modo inferiori, senza percepire la prospettiva limitata e antistorica.
La questione si pone sia per le singole nazioni, sia per le aggregazioni, come l’Unione Europea, che rischiano di implodere nella dialettica fra globalizzazione e localismo, se le identità particolari vengono separate dalla missione universale sottesa a tutta la storia: prevenire il male e l’ingiustizia.