Menzionato nel Documento finale del Sinodo per l’Amazzonia, il peccato ecologico indica ai cristiani e all’umanità un ambito di responsabilità cruciale e un terreno su cui fare esperienza di conversione, misericordia e salvezza.
«Hanno inventato un nuovo peccato?»: è stata questa la domanda spontanea di molti quando i media hanno diffuso la notizia che il Documento finale del Sinodo per l’Amazzonia (DF), approvato a fine ottobre, propone all’attenzione della Chiesa e del mondo la considerazione del peccato ecologico. Questo viene sinteticamente definito «come azione oppure omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente. È un peccato contro le future generazioni e si manifesta negli atti e nelle abitudini di inquinamento e distruzione dell’armonia dell’ambiente, nelle trasgressioni contro i principi di interdipendenza e nella rottura delle reti di solidarietà tra le creature (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 340-344)» (n. 82). Poche settimane dopo la conclusione del Sinodo, il 15 novembre, papa Francesco ha ripreso e fatto propria questa espressione, all’interno del Discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale, nei passaggi dedicati alla tutela giuridico-penale dell’ambiente.
La novità dell’espressione peccato ecologico è relativa (cfr box alla p. seguente); in ogni caso la sua portata si può cogliere in pienezza all’interno del quadro di riferimento proposto dall’enciclica Laudato si’ (LS), a partire dall’esplicitazione di quel legame fondamentale per cui ogni azione od omissione contro l’ambiente è anche un peccato contro Dio, il prossimo, la comunità e le future generazioni. L’espressione contiene anche qualcosa di molto tradizionale e consolidato quale il concetto di peccato, che per il cristianesimo rimanda a una esperienza fondamentale di ogni essere umano. Il mondo in cui siamo inseriti è infatti percorso dal richiamo della pienezza di vita e della gioia, che esprime ciò che Dio desidera per tutte le sue creature, ma è misteriosamente attraversato anche da una logica opposta, che sembra promettere la felicità ma conduce invece alla morte. Si commette un peccato quando ci si inganna e anziché la logica della vita si segue quella della morte. Riconoscere l’esistenza del peccato ecologico dunque non significa cedere a una moda, ma affermare che anche nel rapporto con l’ambiente si può scegliere la morte anziché la vita. Per molti secoli non si è fatto caso a questo aspetto, ma la gravità dell’attuale crisi ci obbliga ad aprire gli occhi sull’impatto, a volte devastante, dei comportamenti umani sull’ambiente e sulle conseguenze che ciò provoca per la nostra stessa vita: «il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi» (LS, n. 56). È l’ascolto della realtà dei nostri giorni a fornire la base di una nuova consapevolezza che la Chiesa esprime con il linguaggio che le è proprio, indicando ai cristiani e all’intera umanità un ambito di responsabilità particolarmente cruciale, ma anche un terreno su cui fare esperienza di conversione, misericordia e salvezza.
Veri e propri “ecocidi”
Parlare di peccato ecologico richiede di avere davanti agli occhi la concretezza della realtà a cui si fa riferimento. Nel discorso all’Associazione internazionale di diritto penale, papa Francesco lo fa ricorrendo alla categoria di ecocidio, in cui inserisce «la contaminazione massiva dell’aria, delle risorse della terra e dell’acqua, la distruzione su larga scala di flora e fauna, e qualunque azione capace di produrre un disastro ecologico o distruggere un ecosistema», o, con un linguaggio più tecnico, «la perdita, il danno o la distruzione di ecosistemi di un territorio determinato, in modo che il suo godimento per parte degli abitanti sia stato o possa vedersi severamente pregiudicato». Chiede quindi che sia dato un riconoscimento giuridico a questa categoria di «crimini contro la pace», dopo aver denunciato l’impunità di cui spesso gode «la macro-delinquenza delle grandi imprese e delle multinazionali» che è «all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente».
Alcuni testi di riferimento
L’enciclica Laudato si’ (LS) sulla cura della casa comune non usa esplicitamente l’espressione peccato ecologico, ma ricorre ad altre che vi sono molto vicine, in particolare quella di «peccati contro la creazione» (LS, n. 8), quali la distruzione della biodiversità, l’inquinamento o la compromissione dell’integrità della terra; riconoscendo il fondamentale contributo del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo nell’aver sviluppato la riflessione a riguardo, ne cita queste parole, pronunciate nel 1997 «“un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio”» (ivi). Anche per Benedetto XVI – lo ricorda la LS al n. 6 – il degrado ambientale, al pari di quello sociale, è la conseguenza del ripiegamento egoistico dell’essere umano su di sé (cfr enciclica Caritas in veritate [2009], n. 34). «Lo spreco della creazione – affermò Benedetto XVI durante l’incontro con il clero della diocesi di Bressanone il 6 agosto 2008 – inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi».
Si tratta dello stesso percorso compiuto dal Sinodo, che fa risalire agli «interessi economici e politici dei settori dominanti, con la complicità di alcuni governanti e di alcuni leader indigeni» (DF, n. 10), la responsabilità per il degrado ambientale dell’Amazzonia, per le violazioni della dignità umana, le violenze e la disgregazione di molte comunità. Del resto già il cap. I della LS aveva concluso la rassegna dei principali problemi ecologici del mondo contemporaneo (inquinamento, cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, questione dell’acqua, ecc.) con la denuncia delle debolezze della politica (cfr LS, n. 54) e del fatto che «i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente» (LS, n. 56).
Non si tratta di fenomeni che riguardano solo regioni lontane:
dinamiche analoghe affliggono il nostro Paese. Il dissesto idrogeologico e la scorretta gestione del territorio, causati dalla corruzione, dalla speculazione o da progetti di sviluppo miope (pensiamo ad esempio alla laguna di Venezia) provocano vittime e ingentissimi danni ogni anno, mentre numerose indagini segnalano quanto siano frequenti gli intrecci tra corruzione, interessi della malavita e gestione dei rifiuti, che si tratti della crisi ormai endemica di alcune aree urbane o della contaminazione di interi territori – la Terra dei fuochi, ma non solo – con pesanti conseguenze per la salute dei loro abitanti. Né possiamo dimenticare le vicissitudini della città di Taranto, icona degli intrecci tra interessi economici (anche di grandi gruppi multinazionali), tutela dell’occupazione e della salute, salvaguardia dell’ambiente. Non a caso sarà la città pugliese a ospitare, nel febbraio 2021, la 49a Settimana sociale dei cattolici italiani, dedicata proprio a questi temi e intitolata “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro”.
Il rompicapo della responsabilità
L’analisi delle situazioni concrete ne evidenzia le responsabilità. In alcuni casi non si fa fatica a identificare mandanti, complici e conniventi di clamorosi ecocidi. In altri emerge invece una catena ramificata. Ma quanto è lunga? In altre parole il peccato ecologico riguarda solo un numero ristretto di persone o ci coinvolge potenzialmente tutti? E in che senso possiamo o dobbiamo sentirci responsabili di vicende che si svolgono dall’altra parte del pianeta? Si tratta di domande scomode, ma non possiamo evitarle se alla diagnosi del male vogliamo far seguire un’azione contraria, che ci aiuti «ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando» (LS, n. 163).
La scomodità di questi interrogativi spiega perché la questione sia spesso affrontata in chiave di fuga o di negazione, ad esempio sulla base della considerazione che l’intreccio delle responsabilità e dei coinvolgimenti è così complesso da scoraggiare qualsiasi tentativo di ricostruirlo, con la conseguente paralisi dell’azione. Come nota la LS, «Molti diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito» (n. 56), con la conseguenza che il disinteresse generale blocca la ricerca di soluzioni alla crisi ambientale quanto e forse più dell’opposizione di chi non vuole alcun cambiamento. E questo fa il gioco di chi ha interesse ad addormentare le coscienze perché trae profitto dall’attuale situazione.
Un’altra reazione diffusa e non troppo diversa di fronte alla complessità è quella di semplificare il quadro recidendo o ignorando alcuni legami. La LS lo definisce riduzionismo, che è il rifiuto (più o meno consapevole) di considerare legami e connessioni. La sua principale forma spinge alla ricerca della massimizzazione del profitto a ogni costo, senza alcuna considerazione per le conseguenze sociali e ambientali, ma dalla stessa matrice vengono anche una fiducia cieca nelle capacità della tecnica di risolvere tutti i problemi, uno stile di vita consumista o persino un impegno ecologico superficiale, che si accontenta di soluzioni parziali senza inserire i problemi in un quadro più completo. I comportamenti che rientrano nella definizione di peccato ecologico sono quasi sempre la conseguenza di una qualche forma di riduzionismo, della incapacità o non volontà di tenere conto di legami e connessioni tra i fenomeni.
Invece è proprio la consapevolezza dell’interdipendenza e dei collegamenti il modo per affrontare in maniera costruttiva la questione delle responsabilità, consentendo di dare l’esatta misura, anche morale, ai singoli gesti che compiamo, nel bene e nel male. Di generazione in generazione, i comportamenti individuali di attenzione o di disattenzione per l’ambiente – quelli dei manager e dei politici, quelli degli insegnanti e dei ricercatori, quelli dei normali cittadini e lavoratori, quelli degli attivisti e di coloro che lottano per cambiare le cose – si aggregano e si sedimentano, dando forma a una cultura della cura oppure dello scarto, che si traducono a loro volta in strutture e istituzioni (enti pubblici, ma anche imprese, associazioni e organizzazioni di vario genere). Questo impatto aggregato supera di gran lunga quello che può produrre ciascuno di questi gesti preso singolarmente, perché cultura e strutture definiranno l’orizzonte di riferimento della collettività e le opzioni disponibili alle generazioni successive, indirizzando in modo più o meno stringente le scelte dei singoli. Il clima è un buon esempio: le scelte energetiche di ogni singolo consumatore (rispetto ai mezzi di trasporto, al riscaldamento e all’aria condizionata, ecc.) hanno con tutta evidenza un impatto trascurabile sui cambiamenti climatici, ma è altrettanto vero che le generazioni future erediteranno un pianeta più o meno ospitale a seconda di come si sono comportate quelle che le hanno precedute, compresa la nostra.
Inoltre, scelte di attenzione all’ambiente trasformano la cultura e stimolano altri a compierne di analoghe. Le dinamiche collettive sono sempre il risultato del concorso di comportamenti personali, a loro volta condizionati e orientati dalla complessa rete in cui ciascuno è inserito. Tanto per fare un esempio: operare scelte di consumo consapevole e responsabile dipende dalla concreta disponibilità di prodotti che rispettino determinati standard etici, che non è la stessa ovunque nel mondo. Le possibilità si ampliano quando molti consumatori adottano comportamenti analoghi: sarà questa pressione collettiva a far aumentare la disponibilità di prodotti che soddisfino anche le loro esigenze etiche. In un mondo in cui tutto è connesso, solo collegandosi si ottengono dei risultati.
Una nuova consapevolezza si fa avanti, quella della solidarietà nella responsabilità. Rendersi conto di essere parte di un gruppo, di una comunità, di un’impresa, di una generazione, di una collettività nazionale o di una certa cultura fa comprendere che è impossibile rescindere questi legami e azzerare una quota di responsabilità per le scelte collettive che danno forma al mondo in cui viviamo, a prescindere dagli atti che ciascuno compie individualmente. Per la stessa ragione, di fronte alle catastrofi ambientali o agli ecocidi, la spinta a cercare un capro espiatorio è una scorciatoia seducente, ma anche ingannevole. Le responsabilità individuali, a livello morale e anche penale, sono un capitolo importante, ma non esauriscono la questione.
Gli ecocidi, così come le buone pratiche di cura della casa comune – che pure ci sono e vanno valorizzate – ci fanno percepire la forza del legame che unisce i membri di una collettività, per cui le azioni compiute da alcuni coinvolgono tutti: nel male, come nel bene, vi è una profonda solidarietà. Provare a rifiutarla, magari sulla spinta dell’individualismo dominante, non la elimina, ma ci preclude possibilità di azione efficace sulla realtà. Un buon esempio viene da tutte quelle dinamiche che intaccano il capitale sociale o ne favoriscono il recupero. Gli atti di corruzione non hanno un impatto solo su chi li commette (corruttori e corrotti), ma sull’intera società, diffondendo la propria logica perversa e provocando la degenerazione del tessuto sociale circostante. Lo stesso vale, ma in direzione opposta, per tutte quelle azioni che favoriscono la coesione della società: per questo il volontariato, così come tutte le esperienze di gratuità, rappresentano una componente insostituibile del capitale sociale. Lo vediamo bene anche in campo ambientale!
Così, riflettere sulla questione della responsabilità all’interno dell’intricata rete di connessioni e interdipendenze che è la trama del nostro mondo ci porta a scoprire una tensione ineliminabile, ma feconda, tra due livelli differenti (anche in termini di imputabilità morale), ma in relazione: quello collettivo e quello personale. Il condizionamento (negativo e positivo) che viene dalla cultura e dalle strutture prodotte dalla sedimentazione delle scelte compiute da chi ci ha preceduto non può essere ignorato, ma questo non azzera lo spazio della libertà e quindi della responsabilità personale: piccolo o grande, c’è sempre un margine di scelta tra comportamenti ispirati alla logica della vita o a quella della distruzione. E questa scelta contribuirà a configurare le opportunità di cui potrà disporre chi verrà dopo di noi.
Peccato e conversione
Questo margine di scelta è anche la condizione di possibilità di una inversione di rotta, evitando di chiuderci nel senso di solitudine o di impotenza. Rileggere la crisi socioambientale in termini morali attraverso la categoria di peccato ecologico fa emergere dinamiche e responsabilità che facilmente tendiamo a occultare o sminuire, ma consente anche di guardarle in una diversa prospettiva. Nella teologia e nella spiritualità cristiana, infatti, considerare i peccati commessi, e ancor di più la trama di peccato in cui tutti siamo inseriti, non è un esercizio di autocommiserazione o di autoflagellazione per cercare di placare i sensi di colpa. Per il cristiano, il peccato può diventare il luogo di incontro con la misericordia di Dio, che dona la salvezza e apre un cammino di conversione. Questo vale anche per gli ecocidi e gli errori che sono alla radice dei disastri ambientali del nostro mondo. È questa la radice della speranza che percorre l’intero testo della LS e da cui siamo invitati a lasciarci contagiare: «non tutto è perduto, perché gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi» (n. 205). In altre parole, scegliere la logica del bene, che abita la nostra realtà a fianco di quella del male, resta una possibilità sempre aperta per la libertà della coscienza umana. Non è un caso che nel DF la menzione del peccato ecologico appaia in un paragrafo intitolato «Appello profetico e messaggio di speranza a tutta la Chiesa e al mondo intero».
L’incontro gratuito con la salvezza donata da Dio non risolve tutti i problemi in modo magico o estrinseco, ma suscita l’impegno a incamminarsi in un percorso di conversione ecologica: abbandonare le abitudini, le scelte, i comportamenti riconosciuti come sbagliati, farsi carico delle loro conseguenze, spesso tanto drammatiche quanto irrevocabili, e dirigersi in direzione del bene.
Tuttavia, nessun cambio di rotta, per quanto deciso e profondo, potrà eliminare la complessità del reticolo di interazioni che abbiamo considerato nel paragrafo precedente, compresi i fattori che potranno limitare il nostro slancio. Anche questi limiti dovranno essere assunti e integrati. Del resto, ogni conversione, anche quella ecologica, orienta al bene concretamente possibile oggi, sapendo che compierlo equivale a fare un passo avanti che dischiuderà maggiori possibilità di bene domani. In questo senso la LS è attenta a inserirci in un orizzonte di progressione, specie quando si tratta di intervenire su assetti economici e sociali che hanno dato vita a strutture estremamente solide e ramificate. Parlando ad esempio della necessità di abbandonare al più presto i combustibili fossili, essa riconosce che questo non è realizzabile dall’oggi al domani. Nel frattempo «è legittimo optare per l’alternativa meno dannosa o ricorrere a soluzioni transitorie» (LS, n. 165), a condizione che questo non diventi un pretesto per rallentare il processo o per scaricare sui più deboli i costi della transizione energetica o del ritardo nel compierla.
Ugualmente bisogna tenere conto che le possibilità di azione dipendono dal ruolo occupato da ciascuno all’interno del sistema economico e sociale: i poveri che vivono nelle periferie degradate non hanno la stessa possibilità di incidere e quindi la stessa responsabilità di chi è chiamato a prendere decisioni ai livelli più alti delle organizzazioni internazionali, delle amministrazioni pubbliche o delle grandi imprese multinazionali.
La considerazione della complessità strutturale della conversione ecologica introduce un altro elemento di grande rilevanza: essa è un compito per il genere umano nella sua totalità: «mentre l’umanità del periodo postindustriale sarà forse ricordata come una delle più irresponsabili della storia, c’è da augurarsi che l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità» (ivi). Insieme all’impegno personale è indispensabile il concorso di tutti: il peccato ecologico ci coinvolge collettivamente, come umanità o, più precisamente, come famiglia universale composta da «noi tutti esseri dell’universo […] uniti da legami invisibili» (LS, n. 89). E proprio come rischiamo di sprofondare tutti insieme, è altrettanto chiaro che nessuno si potrà salvare da solo.
La profezia della gratuità
In conclusione, il peccato ecologico è una lettura di una delle più gravi emergenze del nostro tempo, che fa tesoro delle ricchezze della tradizione per sostenere lo slancio verso il cambiamento e contrastare la tentazione della chiusura nello scoraggiamento o nei sensi di colpa. Lo stupore che ha suscitato la menzione del peccato ecologico nel DF è la spia che questa dinamica non ci è familiare, almeno a livello di consapevolezza condivisa e in riferimento alle questioni ambientali. Per aiutarci a scoprire come introdurre la dimensione ecologica nelle pratiche della vita cristiana, già nel 2016 papa Francesco aveva proposto un esame di coscienza ecologico e l’inserimento della cura della casa comune nel tradizionale elenco delle opere di misericordia (cfr. Usiamo misericordia verso la nostra casa comune, Messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, 1° settembre 2016). La nostra Rivista ha fin da subito mostrato attenzione a questi stimoli e continuerà anche nei prossimi numeri a dar spazio a contributi a sostegno di percorsi di conversione ecologica a diversi livelli.
Considerare ecocidi e disastri ambientali come peccati ecologici ci lancia davvero una sfida radicale. Ci ricorda infatti che non sarà possibile farvi fronte solo con la logica del conteggio dei danni e dei relativi indennizzi, o di qualche forma di compensazione che non cambia radicalmente le cose ma aiuta chi sa di aver sbagliato “a mettersi a posto la coscienza”. Per la teologia cristiana è chiaro che solo la grazia può vincere il peccato. Per questo la LS non cessa di sottolineare l’importanza di tutte le esperienze personali e collettive di gratuità, dalla fruizione della bellezza (naturale o artistica) alla difesa di spazi sociali di riposo e celebrazione sottratti alla logica del consumo e del profitto, agli impegni di volontariato e azione per la giustizia, in cui persone e ambiente sono oggetto di rispetto e non di sfruttamento. Tutto ciò che è gratuito appartiene all’ordine della grazia e per questo ha efficacia salvifica. Ma la brutalità e la violenza del peccato ecologico su scala globale sono così intense che possiamo affrontarle solo entrando in una prospettiva di gratuità ancora più integrale e capace di debordare, di eccedere ogni misura, cioè nella gratuità del dono di sé. Famosi o sconosciuti, cattolici o non cattolici, i martiri ecologici del nostro tempo – tra cui non poche donne, quali Berta Cáceres e suor Dorothy Stang – ci aprono profeticamente questa strada.