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Partiti politici: una via per la credibilità

La forte disaffezione nei confronti dei partiti politici richiede di essere ascoltata con attenzione, per distinguere i fermenti di rinnovamento dalle pulsioni distruttive. Se i partiti sono indispensabili nel nostro sistema politico, una loro riforma strutturale in termini di democraticità e trasparenza sembra inevitabile perché ritrovino la credibilità non più scontata
Fascicolo: giugno 2012

Da lungo tempo la politica italiana stagnava nell'acqua melmosa di una palude (cfr SORGE B., «Vogliamo uscire dalla palude?», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2009] 645-650), con una progressiva disaffezione al voto, ma senza percepibili novità negli assetti complessivi. Nelle ultime settimane le cose sembrano cambiare, non tanto per l'emergere di nuovi scandali sulla gestione delle finanze di diversi partiti - che così nuovi in realtà non sono -, quanto perché il disincanto pare riuscire a trasformarsi in protesta e in richiesta di cambiamento, obbligando i partiti a proporre riforme di se stessi e facendo emergere soggetti alternativi, come testimoniano i terremoti verificatisi in alcune forze politiche in seguito alle recenti consultazioni amministrative e la robusta affermazione del Movimento 5 Stelle.
Tutto questo viene frettolosamente catalogato sotto l'etichetta dell'antipolitica, ricollegandolo alla ormai lunga stagione della polemica contro le varie caste. Ci sembra che le cose siano più complesse. Il nostro statuto di cittadini di società opulente e medicalmente avanzate ci ha reso familiare l'esistenza di un colesterolo "cattivo", pericoloso per il sistema cardiovascolare, e di un colesterolo "buono", che invece lo protegge, e della necessità di controllare il primo e potenziare il secondo. Qualcosa di simile vale probabilmente per il fenomeno dell'antipolitica: al suo interno ci sono spinte nichiliste che feriscono la coscienza democratica ed energie positive che segnalano un problema e possono fornire le risorse per la ricerca di una soluzione. Fare di ogni erba un fascio può essere davvero pericoloso, perché in realtà della politica non è possibile liberarsi.
In questa chiave proveremo ad analizzare le radici dell'attuale ondata di antipolitica, o forse, meglio, di insofferenza verso l'attuale sistema partitico, concentrandoci sul livello nazionale. La riflessione si sposterà quindi sulle ragioni di fondo che sostengono l'esistenza dei partiti, per terminare con alcune proposte che possano riattivare un circuito positivo nel rapporto tra cittadini e partiti, in vista dell'urgente risanamento del funzionamento della nostra democrazia.

Antipolitica ieri e oggi

L'antipolitica è un fenomeno tutt'altro che originale, anche se in Italia è forse più frequente che altrove: «l'antipolitica da noi è quasi una costante di una società che ha conosciuto assai tardivamente lo Stato e lo ha spesso visto come un avversario da combattere o da frodare» (BARTOLINI S., «Partiti politici e sistemi di partito», in Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani, <www.treccani.it>). Persino agli albori della Repubblica, il Fronte dell'Uomo Qualunque, che aveva per emblema un torchio sotto il quale un cittadino comune veniva spremuto dalla nuova classe dirigente, riuscì a mandare all'Assemblea costituente ben 30 deputati, quinta forza politica del Paese.
Tra alti e bassi, la disaffezione verso i partiti e la politica ha raggiunto un apice all'inizio degli anni '90, con "Tangentopoli", quando le inchieste della magistratura rivelarono l'esistenza di un sistema basato su corruzione, concussione e finanziamenti illeciti che coinvolgeva imprenditori ed esponenti della classe politica, locale e nazionale. Da quella crisi, nonostante vari tentativi di rigenerazione e di "reinvenzione", i partiti non si sono più ripresi, e, come tante altre istituzioni, hanno continuato a perdere credibilità e legittimazione. Per riacquistarle non è sufficiente una nuova strategia di marketing, come il cambio di nomi e simboli, ma serve un ripensamento profondo, poiché la crisi della politica è vera e radicale, e la delegittimazione dei partiti è altrettanto evidente e priva di attenuanti.
Per questo non ci si può limitare a esecrare l'antipolitica: al suo interno c'è qualcosa da ascoltare. Astensionismo, disaffezione, caduta dei partiti tradizionali ci parlano di un grido di sdegno, della volontà di non fornire ulteriore legittimazione a qualcosa in cui non si ha più fiducia, ma non necessariamente del venir meno della passione per la democrazia o il bene comune. Anzi, forse è vero anche il contrario, come sembra indicare il "vento nuovo" che salutavamo circa un anno fa (cfr COSTA G., «Il gusto del "vento nuovo"», in Aggiornamenti Sociali, 7-8 [2011] 485-491) e che oggi, almeno in alcuni casi, si manifesta anche in un'astensione, sempre criticabile, ma non automaticamente espressione di disinteresse.
Non è la società a ritirarsi dalla politica, sono i partiti che hanno perso la capacità di ascoltarla e di comunicare con essa: nonostante al loro interno ci siano anche persone seriamente impegnate, la percezione dello scollamento dalla realtà è ormai drammatica. E certamente non giova il fatto che con facilità i partiti siano caduti nella trappola della costruzione mediatica del consenso come strategia principale: questo ha contribuito a svuotare il contenuto partecipativo dell'esperienza democratica, riducendola a un assenso fideistico alla persona del leader. Anche a causa di questa separatezza ha potuto svilupparsi una degenerazione interna dei partiti, che ha fornito il sostrato per gli ennesimi recenti scandali. Riducendo i canali di partecipazione, si sono rarefatti gli "anticorpi" della vigilanza interna sui comportamenti dei gruppi dirigenti, sempre più selezionati per cooptazione.
Tuttavia, come ha affermato il presidente Napolitano nel discorso pronunciato a Pesaro il 25 aprile, «Nulla ha potuto e può sostituire il ruolo dei partiti, nel rapporto con le istituzioni democratiche». Occorre quindi che la società e la politica (nel senso nobile di azione di promozione del bene comune) possano riappropriarsi dello strumento che i partiti rappresentano. Un primo passaggio in questa direzione è tornare a riflettere sul senso della loro esistenza.

A che cosa servono i partiti

Il lungo percorso storico che ha condotto all'affermazione della democrazia parlamentare ha prodotto un patrimonio di riflessioni sulla natura e il ruolo dei partiti, a cui possiamo oggi ricorrere per sfuggire alla faccia oscura dell'antipolitica. Ci limitiamo ai due pilastri principali, la Costituzione italiana e la dottrina sociale della Chiesa: entrambe dedicano ai partiti la loro attenzione, seppur in maniera apparentemente sobria.
L'unico riferimento esplicito della Costituzione ai partiti si trova nell'art. 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Con grande chiarezza è formulato il senso dell'esistenza dei partiti: sono gli strumenti che tutelano, favoriscono, rendono possibile il diritto di ogni cittadino a partecipare all'attività politica. Se falliscono in questo scopo, perdono la propria ragion d'essere e ogni legittimità. Questo dunque è il criterio fondamentale sulla base del quale misurare la performance delle istituzioni partitiche in concreto e in vista del quale organizzare la loro riforma.
Il testo tace invece sul fatto di sottoporre a vincoli e verifiche la vita interna dei partiti, anche se la questione venne affrontata dall'Assemblea costituente: sulla scorta dell'esperienza della dittatura appena conclusasi, prevalse la preoccupazione di scongiurare indebite ingerenze e controlli strumentali da parte dei detentori del potere. La democraticità del sistema apparve meglio tutelata dalla «lacuna della legge» piuttosto che da una integrale attuazione legislativa dell'art. 49 Cost. In seguito e fino ad oggi nessuna delle numerose iniziative legislative volte a colmare questa lacuna ha avuto seguito.
Sul tema dei partiti è più esplicito il n. 413 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Dopo aver affermato che «I partiti politici hanno il compito di favorire una partecipazione diffusa e l'accesso di tutti a pubbliche responsabilità», aggiunge: «I partiti devono essere democratici al loro interno, capaci di sintesi politica e di progettualità». La funzione di assicurare la partecipazione dei cittadini non può ritenersi assolta dall'esistenza di una pluralità di partiti, che tecnicamente consente di esercitare l'opzione elettorale. L'obiettivo della partecipazione deve guidare la strutturazione e la vita quotidiana dei partiti; per questo il testo del Compendio precisa che la democraticità interna è un requisito fondamentale, legato alla progettualità politica: solo il libero dibattito fra posizioni interne, che trova una sintesi ma non si esaurisce in occasione dei congressi, è in grado di produrre questo risultato. Non pochi costituzionalisti italiani concordano su questo punto, tra i quali Andrea Manzella: «se i partiti sono costituzionalmente inseriti nel circuito di "determinazione" della politica nazionale, anche la loro struttura interna e i loro processi decisionali devono ispirarsi a regole di democraticità e di trasparenza, come gli altri luoghi istituzionali della politica» (cit. in Aggiornamenti Sociali, 2 [2007] 102).
Il n. 413 del Compendio fornisce un ulteriore spunto rispetto al modo di concepire il partito, che diventa un'indicazione in termini di orientamento della sua attività: «I partiti sono chiamati ad interpretare le aspirazioni della società civile orientandole al bene comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di concorrere alla formazione delle scelte politiche». Il radicamento nella società civile è essenziale, poiché da essa provengono le istanze che i partiti sono chiamati a interpretare. Quando questo legame fondamentale viene indebolito o reciso, la vitalità politica dei partiti inevitabilmente si inaridisce, in quanto essi perdono la propria ragione d'essere. Non a caso la critica fondamentale all'attuale classe politica è di essere diventata autoreferenziale, cioè di portare avanti le proprie istanze e aspirazioni e non quelle della società.
Questa riflessione può spingersi più in profondità: se l'orientamento al bene comune delle aspirazioni della società civile, di per sé legittime ma normalmente confliggenti, è al cuore dell'impegno dei partiti, allora, contrariamente a una visione assai diffusa, essi non possono essere concepiti come "fazioni" o "bande", cioè strumenti di una parte della società che, conquistando il potere, può realizzare le proprie aspirazioni e interessi a scapito degli altri. Secondo la dottrina sociale, i partiti rappresentano piuttosto prospettive diverse sul bene comune, e di conseguenza sono portatori di un progetto complessivo di convivenza sociale, armonico e unitario. Forse una maggior cura di questi aspetti ci avrebbe evitato di arrivare a un governo tecnico, incaricato di fare quello che da troppo tempo i partiti non riuscivano a portare a termine: la sua stessa esistenza certifica lo scacco a cui i partiti italiani si sono condannati, a prescindere da ogni valutazione sui provvedimenti presi dal Governo Monti.

Un segno dai partiti

Dare per assodato che dei partiti non possiamo fare a meno - in forza del loro ruolo nell'attuale ordinamento, delle buone ragioni di fondo a favore della loro esistenza, o della constatazione storica che la loro eliminazione o il loro indebolimento aprono rapidamente a derive plebiscitarie o populiste, che sono un rimedio peggiore del male - non significa doversi accontentare di partiti qualunque purché ci siano. È indispensabile che i partiti italiani, tutti insieme e ciascuno per conto suo, mostrino la volontà e la capacità di assumere responsabilmente quel ruolo di cui non possiamo fare a meno: essere un'istituzione indispensabile non assicura automaticamente credibilità e affidabilità, come valanghe di sondaggi dimostrano. Il problema di oggi è che non ci sono testimoni credibili a sostenere le buone ragioni di fondo che abbiamo esaminato. Il divorzio tra solidità delle argomentazioni e credibilità di chi le propone è estremamente pericoloso perché disintegra le basi della fiducia che è alla radice del circuito della rappresentanza su cui si reggono i nostri assetti istituzionali. In questo l'eccessiva personalizzazione della politica e il ruolo assunto dai leader dei partiti non hanno certo aiutato.
Tra le due componenti (credibilità e argomentazioni) serve una nuova integrazione, che, anche a livello semantico, rimanda a integrità: è questa la strada per ricostruire la buona politica, in modo da permettere alle buone ragioni di riaffacciarsi al dibattito pubblico attraverso solide argomentazioni offerte da persone credibili, scongiurando i limiti della demagogia anticasta.
Un primo fronte di impegno è quello ordinario dell'amministrazione della cosa pubblica, su cui i partiti continuano a essere chiamati a misurarsi, a partire dalle neoelette amministrazioni locali. Il potere praticato rappresenta la prova del fuoco anche per quelle realtà, come il Movimento 5 Stelle, che sulla protesta urlata hanno costruito il proprio successo. Ma nell'attuale situazione di emergenza questo non basta: occorre che i partiti aggrediscano direttamente la propria crisi di credibilità, facendo tesoro di questo tempo in cui le circostanze li estromettono almeno in parte dalla gestione della cosa pubblica. Da oggi alle prossime elezioni politiche nazionali i partiti devono mandare segnali chiari di aver intrapreso la propria riforma, non tanto in vista del destino di ciascuno di essi (del quale potremmo anche non preoccuparci), ma di quello della democrazia italiana, che ci sta invece a cuore.
Saranno questi segnali a permettere agli elettori di discriminare chi è credibile da chi non lo è. Non si tratta di procedere a qualche maquillage più o meno superficiale, o di cancellare il termine "partito" dalla ragione sociale. Né basta un look da web 2.0, liquido e reticolare, con l'illusione che non ci sia bisogno di organismi direttivi o rappresentativi, locali o nazionali. Questo può sedurre, ma non va alla radice: questi tentativi a buon mercato peggiorerebbero solo la situazione e alimenterebbero l'antipolitica "cattiva". Proviamo qui a indicare alcune riforme che, in aggiunta a quella, indispensabile, della legge elettorale, potrebbero aiutarci a superare la sfiducia diffusa e depressiva nelle possibilità di incidere sulla realtà attraverso le dinamiche della rappresentanza democratica. Per essere efficaci, queste riforme dovrebbero tradursi in misure legislative, che sarebbe di buon auspicio se fossero approvate a larghissima maggioranza.

   a) Democraticità

Un primo versante è quello della democraticità interna dei partiti, che vincoli il loro funzionamento ed elimini la percezione di un arbitrio sfrenato dei vertici in virtù dell'assenza di ogni controllo. A questa situazione i partiti non possono mettere riparo fino a che nella forma organizzativa e nella logica interna restano quelli che sono attualmente, strutturati per svuotare la partecipazione ai processi decisionali, impermeabili a qualsiasi dispositivo di controllo. Nell'Italia di oggi, ben diversa da quella del 1946, serve dare una appropriata disciplina alla democrazia nei partiti e al modo in cui essi assolvono alle loro funzioni rappresentative e svolgono la loro vita interna: competenze e modalità di elezione degli organi dirigenti, criteri di assicurazione della presenza delle minoranze negli organi collegiali, periodicità dei congressi, procedure di approvazione degli atti che impegnano il partito, misure disciplinari, e soprattutto modalità di selezione dei candidati alle competizioni elettorali. A protezione del diritto sancito dall'art. 49 Cost., occorre una legislazione sullo statuto pubblico dei partiti, recuperando il dibattito che, come abbiamo visto, è stato vivace fin dall'Assemblea costituente: in questo senso hanno di recente argomentato autorevoli costituzionalisti (Emanuele Rossi, Enzo Balboni, Angelo Mattioni, Valerio Onida, Filippo Pizzolato, in Democrazia nei partiti, In dialogo, Milano 2010). E questo non solo per conferire "patenti di democraticità" da esibire agli elettori, ma anche per stabilire requisiti di accesso alle competizioni elettorali e ai finanziamenti pubblici. Molti lo dicono, ma finora non si è visto nessun risultato.
Anche nella vita interna dei partiti i requisiti di democrazia devono essere coerenti con quanto prevede la Costituzione e non possono limitarsi alla regola della decisione a maggioranza. I vincoli alla sovranità interna dei partiti devono essere finalizzati alla promozione di un effettivo dibattito che permetta di articolare proposte per il bene comune. Anche dentro ai partiti, la democrazia resta fondamentalmente un sistema di limitazione dello (stra)potere di chi comanda, che mira a garantire la partecipazione di tutti: «La democrazia è un sistema complesso, anzitutto perché ha la pretesa di istituire un ordine fondato sulla libertà e che mantenga il più possibile la pluralità delle espressioni dell'esperienza umana» (PIZZOLATO F., «Costituzione: sottrarre la democrazia all'arbitrio del potere», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 [2010] 574).
Ai requisiti di democraticità interna va associato uno stile partecipativo che coinvolga l'intera cittadinanza: questo requisito non può essere imposto per legge, ma va messo in pratica, sfruttando anche le nuove potenzialità tecnologiche o le acquisizioni della democrazia deliberativa. Il partito non può rappresentare l'unico canale della partecipazione politica, perché di fatto può coinvolgere direttamente solo una porzione assai ridotta di cittadini. È essenziale invece che i canali della partecipazione politica siano plurali e liberi, anche esterni al sistema dei partiti, ma che questi tornino alla loro funzione di coordinamento e sviluppo - e non di monopolio - della partecipazione.

   b) Trasparenza

Un secondo asse di lavoro per la riforma dei partiti è quello della trasparenza. Un requisito di trasparenza, minimo e basilare, è rinunciare a ogni connivenza con chi fa del malaffare la chiave della propria azione politica. Gli abusi non possono emergere solo quando arrivano magistratura e forze dell'ordine, senza che all'interno nessuno si accorga di nulla. Senza cadere nel rischio della caccia alle streghe, occorre che i partiti mostrino di essere capaci di fare pulizia al proprio interno da soli. Un ulteriore ambito specifico di trasparenza riguarda i bilanci e i conti dei partiti, che devono essere accessibili agli iscritti e agli elettori e certificati da osservatori davvero indipendenti.
Parlando di trasparenza non si può evitare una parola sul finanziamento pubblico, che la nostra legislazione prevede al pari di quelle delle maggiori democrazie europee (cfr TINTORI C. - FOGLIZZO P., «I costi della politica. Una lettura critica», in Aggiornamenti Sociali, 5 [2008] 331-343). La valutazione delle ragioni di questa misura non può limitarsi alle reazioni alle malversazioni, né al confronto con il ben più sobrio livello di spesa negli altri Paesi, ma deve affrontare una domanda di fondo: quali strumenti ci vogliamo dare per evitare che l'attività politica risulti nei fatti appannaggio solo di coloro che se lo possono permettere? Quale concorso al bene comune possono dare coloro che hanno idee valide, ma scarsi mezzi economici? Assicurare la partecipazione di tutti rende probabilmente insuperabile nel breve periodo un meccanismo di finanziamento pubblico dei partiti, ma occorre intervenire per prevedere stringenti forme di rendicontazione e una commisurazione alle effettive esigenze di spesa: come è possibile che i partiti possano accumulare patrimoni tanto ingenti?
Nel lungo periodo sono disponibili anche altre opzioni, verso le quali incamminarsi. Altre democrazie, in particolare quella americana, favoriscono il sostegno economico diretto dei cittadini ai partiti e ai candidati, ma con un enorme apparato a garanzia della trasparenza e del fatto che la politica non cada in ostaggio dei potentati economici (ad esempio fissando un tetto alle donazioni ed escludendo quelle da parte delle imprese): per rendersene conto basta un'occhiata alla massa di dati disponibili sul sito della Commissione elettorale federale americana (Federal Election Commission, <www.fec.gov>), che registra e dichiara l'identità di tutti coloro che hanno versato un sostegno economico a un candidato pari ad almeno 200 dollari. È un orizzonte estremamente interessante, che permetterebbe agli elettori di dare il proprio sostegno ai partiti con il "portafoglio" oltre che con la scheda elettorale. Anche in Italia sono state recentemente presentate proposte in questa direzione.
Entrare in questa logica richiede un robusto cambiamento nella cultura politica del nostro Paese: non lo si può realizzare dalla sera alla mattina, ma rappresenta un inevitabile traguardo di crescita della nostra democrazia che l'attuale crisi dei partiti ci stimola a raggiungere.
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