La forte disaffezione nei confronti dei partiti politici richiede di essere ascoltata con attenzione, per distinguere i fermenti di rinnovamento dalle pulsioni distruttive. Se i partiti sono indispensabili nel nostro sistema politico, una loro riforma strutturale in termini di democraticità e trasparenza sembra inevitabile perché ritrovino la credibilità non più scontata
Da lungo tempo la politica italiana stagnava nell'acqua melmosa di una palude (cfr SORGE B., «Vogliamo uscire dalla palude?»,
in Aggiornamenti Sociali, 11 [2009] 645-650), con una progressiva
disaffezione al voto, ma senza percepibili novità negli assetti
complessivi. Nelle ultime settimane
le cose sembrano cambiare, non tanto per l'emergere di nuovi scandali
sulla gestione delle finanze di diversi partiti - che così nuovi in
realtà non sono -, quanto
perché il disincanto pare riuscire a trasformarsi in protesta e in richiesta di cambiamento,
obbligando i partiti a proporre riforme di se stessi e facendo emergere
soggetti alternativi, come testimoniano i terremoti verificatisi in
alcune forze politiche in seguito alle recenti consultazioni
amministrative e la robusta affermazione del Movimento
5 Stelle.
Tutto questo viene frettolosamente catalogato sotto l'etichetta dell'antipolitica,
ricollegandolo alla ormai lunga stagione della polemica contro le varie
caste.
Ci sembra che le cose siano più complesse. Il nostro statuto di
cittadini di società opulente e medicalmente avanzate ci ha reso
familiare l'esistenza di un colesterolo
"cattivo", pericoloso per il sistema cardiovascolare, e di un
colesterolo "buono", che invece lo protegge, e della necessità di
controllare il primo e
potenziare il secondo. Qualcosa di simile vale probabilmente per il
fenomeno dell'antipolitica: al suo interno ci sono spinte nichiliste che
feriscono la coscienza democratica ed
energie positive che segnalano un problema e possono fornire le risorse
per la ricerca di una soluzione. Fare di ogni erba un fascio può essere
davvero pericoloso, perché
in realtà della politica non è possibile liberarsi.
In questa chiave
proveremo ad analizzare le radici dell'attuale ondata di antipolitica, o
forse, meglio, di
insofferenza verso l'attuale sistema partitico, concentrandoci sul
livello nazionale. La riflessione si sposterà quindi sulle ragioni di
fondo che sostengono l'esistenza
dei partiti, per terminare con alcune proposte che possano riattivare un
circuito positivo nel rapporto tra cittadini e partiti, in vista
dell'urgente risanamento del funzionamento
della nostra democrazia.
Antipolitica ieri e oggi
L'antipolitica è un fenomeno tutt'altro che originale, anche se in Italia è forse più frequente che altrove: «l'antipolitica da noi è quasi
una costante di una società che ha conosciuto assai tardivamente lo
Stato e lo ha spesso visto come un avversario da combattere o da
frodare» (BARTOLINI S., «Partiti
politici e sistemi di partito», in Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani,
<www.treccani.it>). Persino agli albori della Repubblica, il
Fronte dell'Uomo
Qualunque, che aveva per emblema un torchio sotto il quale un cittadino
comune veniva spremuto dalla nuova classe dirigente, riuscì a mandare
all'Assemblea costituente ben
30 deputati, quinta forza politica del Paese.
Tra alti e bassi, la disaffezione verso i partiti e la politica ha raggiunto un apice all'inizio degli anni '90, con "Tangentopoli",
quando le inchieste della magistratura rivelarono l'esistenza di un
sistema basato su corruzione, concussione e finanziamenti illeciti che
coinvolgeva imprenditori ed esponenti
della classe politica, locale e nazionale. Da quella crisi, nonostante
vari tentativi di rigenerazione e di "reinvenzione", i partiti non si
sono più ripresi, e,
come tante altre istituzioni, hanno continuato a perdere credibilità e
legittimazione. Per riacquistarle non è sufficiente una nuova strategia
di marketing, come il
cambio di nomi e simboli, ma serve un ripensamento profondo, poiché la
crisi della politica è vera e radicale, e la delegittimazione dei
partiti è altrettanto
evidente e priva di attenuanti.
Per questo non ci si può limitare a esecrare l'antipolitica: al suo interno c'è qualcosa da ascoltare.
Astensionismo, disaffezione,
caduta dei partiti tradizionali ci parlano di un grido di sdegno, della
volontà di non fornire ulteriore legittimazione a qualcosa in cui non si
ha più fiducia, ma
non necessariamente del venir meno della passione per la democrazia o il
bene comune. Anzi, forse è vero anche il contrario, come sembra
indicare il "vento nuovo"
che salutavamo circa un anno fa (cfr COSTA G., «Il gusto del "vento
nuovo"», in Aggiornamenti Sociali, 7-8 [2011] 485-491) e che oggi, almeno in alcuni
casi, si manifesta anche in un'astensione, sempre criticabile, ma non automaticamente espressione di disinteresse.
Non
è la società a ritirarsi dalla politica,
sono i partiti che hanno perso la capacità di ascoltarla e di comunicare
con essa: nonostante al loro interno ci siano anche persone seriamente
impegnate, la percezione
dello scollamento dalla realtà è ormai drammatica. E certamente non
giova il fatto che con facilità i partiti siano caduti nella trappola
della costruzione
mediatica del consenso come strategia principale: questo ha contribuito a
svuotare il contenuto partecipativo dell'esperienza democratica,
riducendola a un assenso fideistico alla
persona del leader. Anche a causa di questa separatezza ha potuto
svilupparsi una degenerazione interna dei partiti, che ha fornito il
sostrato per gli ennesimi recenti scandali.
Riducendo i canali di partecipazione, si sono rarefatti gli "anticorpi"
della vigilanza interna sui comportamenti dei gruppi dirigenti, sempre
più selezionati per
cooptazione.
Tuttavia, come ha affermato il presidente Napolitano nel discorso pronunciato a Pesaro il 25 aprile, «Nulla ha potuto e può sostituire il ruolo dei
partiti, nel rapporto con le istituzioni democratiche». Occorre
quindi che la società e la politica (nel senso nobile di azione di
promozione del bene comune) possano
riappropriarsi dello strumento che i partiti rappresentano. Un primo
passaggio in questa direzione è tornare a riflettere sul senso della
loro esistenza.
A che cosa servono i partiti
Il lungo percorso storico che ha condotto all'affermazione della
democrazia parlamentare ha prodotto un patrimonio di riflessioni sulla
natura e il ruolo dei partiti, a cui possiamo
oggi ricorrere per sfuggire alla faccia oscura dell'antipolitica. Ci
limitiamo ai due pilastri principali, la Costituzione italiana e la
dottrina sociale della Chiesa: entrambe
dedicano ai partiti la loro attenzione, seppur in maniera apparentemente
sobria.
L'unico riferimento esplicito della Costituzione ai partiti
si trova nell'art. 49: «Tutti
i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per
concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Con grande chiarezza è formulato
il senso dell'esistenza dei partiti: sono gli strumenti che tutelano, favoriscono, rendono possibile il diritto di ogni cittadino a partecipare all'attività politica.
Se falliscono in questo scopo, perdono la propria ragion d'essere e ogni
legittimità. Questo dunque è il criterio fondamentale sulla base del
quale misurare la performance
delle istituzioni partitiche in concreto e in vista del quale
organizzare la loro riforma.
Il testo tace invece sul fatto di
sottoporre a vincoli e verifiche la vita interna
dei partiti, anche se la questione venne affrontata dall'Assemblea
costituente: sulla scorta dell'esperienza della dittatura appena
conclusasi, prevalse la preoccupazione di scongiurare
indebite ingerenze e controlli strumentali da parte dei detentori del
potere. La democraticità del sistema apparve meglio tutelata dalla
«lacuna della legge»
piuttosto che da una integrale attuazione legislativa dell'art. 49 Cost.
In seguito e fino ad oggi nessuna delle numerose iniziative legislative
volte a colmare questa lacuna ha
avuto seguito.
Sul tema dei partiti è più esplicito il n. 413 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa.
Dopo aver affermato che «I partiti
politici hanno il compito di favorire una partecipazione diffusa e
l'accesso di tutti a pubbliche responsabilità», aggiunge: «I partiti
devono essere democratici
al loro interno, capaci di sintesi politica e di progettualità». La
funzione di assicurare la partecipazione dei cittadini non può ritenersi
assolta dall'esistenza
di una pluralità di partiti, che tecnicamente consente di esercitare
l'opzione elettorale. L'obiettivo della partecipazione deve guidare la
strutturazione e la vita quotidiana
dei partiti; per questo il testo del Compendio precisa che la democraticità interna è un requisito fondamentale, legato alla progettualità politica:
solo il libero dibattito fra posizioni interne, che trova una sintesi ma
non si esaurisce in occasione dei congressi, è in grado di produrre
questo risultato. Non pochi costituzionalisti
italiani concordano su questo punto, tra i quali Andrea Manzella: «se i
partiti sono costituzionalmente inseriti nel circuito di
"determinazione" della politica
nazionale, anche la loro struttura interna e i loro processi decisionali
devono ispirarsi a regole di democraticità e di trasparenza, come gli
altri luoghi istituzionali
della politica» (cit. in Aggiornamenti Sociali, 2 [2007] 102).
Il n. 413 del Compendio
fornisce un ulteriore spunto rispetto al modo di concepire il partito,
che diventa un'indicazione in termini di orientamento della sua
attività: «I partiti sono chiamati ad interpretare le aspirazioni della
società civile orientandole
al bene comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di
concorrere alla formazione delle scelte politiche». Il radicamento nella società civile
è essenziale, poiché da essa provengono le istanze che i partiti sono chiamati a interpretare.
Quando questo legame fondamentale viene indebolito o reciso, la
vitalità politica dei partiti inevitabilmente si inaridisce, in quanto
essi perdono la propria ragione d'essere. Non a caso la critica
fondamentale all'attuale classe politica
è di essere diventata autoreferenziale, cioè di portare avanti le
proprie istanze e aspirazioni e non quelle della società.
Questa
riflessione può
spingersi più in profondità: se l'orientamento al bene comune delle
aspirazioni della società civile, di per sé legittime ma normalmente
confliggenti,
è al cuore dell'impegno dei partiti, allora, contrariamente a una
visione assai diffusa, essi non possono essere concepiti come "fazioni" o
"bande", cioè
strumenti di una parte della società che, conquistando il potere, può
realizzare le proprie aspirazioni e interessi a scapito degli altri.
Secondo la dottrina sociale,
i partiti rappresentano piuttosto prospettive diverse sul bene comune,
e di conseguenza sono portatori di un progetto complessivo di
convivenza sociale, armonico e unitario.
Forse una maggior cura di questi aspetti ci avrebbe evitato di arrivare a
un governo tecnico, incaricato di fare quello che da troppo tempo i
partiti non riuscivano a portare a
termine: la sua stessa esistenza certifica lo scacco a cui i partiti
italiani si sono condannati, a prescindere da ogni valutazione sui
provvedimenti presi dal Governo Monti.
Un segno dai partiti
Dare per assodato che dei partiti non possiamo fare a meno - in forza
del loro ruolo nell'attuale ordinamento, delle buone ragioni di fondo a
favore della loro esistenza, o della
constatazione storica che la loro eliminazione o il loro indebolimento
aprono rapidamente a derive plebiscitarie o populiste, che sono un
rimedio peggiore del male - non significa
doversi accontentare di partiti qualunque purché ci siano. È indispensabile che i partiti italiani, tutti insieme e ciascuno per conto suo, mostrino la volontà
e la capacità di assumere responsabilmente quel ruolo di cui non possiamo fare a meno:
essere un'istituzione indispensabile non assicura automaticamente
credibilità
e affidabilità, come valanghe di sondaggi dimostrano. Il problema di
oggi è che non ci sono testimoni credibili a sostenere le buone ragioni
di fondo che abbiamo esaminato.
Il divorzio tra solidità delle argomentazioni e credibilità di chi le
propone è estremamente pericoloso perché disintegra le basi della
fiducia che è
alla radice del circuito della rappresentanza su cui si reggono i nostri
assetti istituzionali. In questo l'eccessiva personalizzazione della
politica e il ruolo assunto dai leader
dei partiti non hanno certo aiutato.
Tra le due componenti
(credibilità e argomentazioni) serve una nuova integrazione, che, anche a
livello semantico, rimanda a integrità:
è questa la strada per ricostruire la buona politica, in modo da
permettere alle buone ragioni di riaffacciarsi al dibattito pubblico
attraverso solide argomentazioni offerte
da persone credibili, scongiurando i limiti della demagogia anticasta.
Un
primo fronte di impegno è quello ordinario dell'amministrazione della
cosa pubblica, su cui i
partiti continuano a essere chiamati a misurarsi, a partire dalle
neoelette amministrazioni locali. Il potere praticato rappresenta la
prova del fuoco anche per quelle realtà,
come il Movimento 5 Stelle, che sulla protesta urlata hanno costruito il
proprio successo. Ma nell'attuale situazione di emergenza questo non
basta: occorre che i partiti aggrediscano
direttamente la propria crisi di credibilità, facendo tesoro di questo
tempo in cui le circostanze li estromettono almeno in parte dalla
gestione della cosa pubblica. Da
oggi alle prossime elezioni politiche nazionali i partiti devono mandare segnali chiari di aver intrapreso la propria riforma, non tanto in vista del destino di ciascuno di
essi (del quale potremmo anche non preoccuparci), ma di quello della democrazia italiana, che ci sta invece a cuore.
Saranno
questi segnali a permettere agli elettori di discriminare
chi è credibile da chi non lo è. Non si tratta di procedere a qualche
maquillage più o meno superficiale, o di cancellare il termine "partito"
dalla
ragione sociale. Né basta un look da web 2.0, liquido e reticolare, con
l'illusione che non ci sia bisogno di organismi direttivi o
rappresentativi, locali o nazionali. Questo
può sedurre, ma non va alla radice: questi tentativi a buon mercato
peggiorerebbero solo la situazione e alimenterebbero l'antipolitica
"cattiva". Proviamo qui
a indicare alcune riforme che, in aggiunta a quella, indispensabile,
della legge elettorale, potrebbero aiutarci a superare la sfiducia
diffusa e depressiva nelle possibilità
di incidere sulla realtà attraverso le dinamiche della rappresentanza
democratica. Per essere efficaci, queste riforme dovrebbero tradursi in
misure legislative, che sarebbe
di buon auspicio se fossero approvate a larghissima maggioranza.
a) Democraticità
Un primo versante è quello della democraticità interna dei partiti, che vincoli il loro funzionamento
ed elimini la percezione di un arbitrio sfrenato dei
vertici in virtù dell'assenza di ogni controllo. A questa situazione i
partiti non possono mettere riparo fino a che nella forma organizzativa e
nella logica interna restano
quelli che sono attualmente, strutturati per svuotare la partecipazione
ai processi decisionali, impermeabili a qualsiasi dispositivo di
controllo. Nell'Italia di oggi, ben diversa
da quella del 1946, serve dare una appropriata disciplina alla
democrazia nei partiti e al modo in cui essi assolvono alle loro
funzioni rappresentative e svolgono la loro vita
interna: competenze e modalità di elezione degli organi dirigenti,
criteri di assicurazione della presenza delle minoranze negli organi
collegiali, periodicità dei
congressi, procedure di approvazione degli atti che impegnano il
partito, misure disciplinari, e soprattutto modalità di selezione dei
candidati alle competizioni elettorali.
A protezione del diritto sancito dall'art. 49 Cost., occorre una
legislazione sullo statuto pubblico dei partiti, recuperando il
dibattito che, come abbiamo visto, è stato
vivace fin dall'Assemblea costituente: in questo senso hanno di recente
argomentato autorevoli costituzionalisti (Emanuele Rossi, Enzo Balboni,
Angelo Mattioni, Valerio Onida, Filippo
Pizzolato, in Democrazia nei partiti, In dialogo, Milano 2010). E
questo non solo per conferire "patenti di democraticità" da esibire
agli elettori, ma anche
per stabilire requisiti di accesso alle competizioni elettorali e ai
finanziamenti pubblici. Molti lo dicono, ma finora non si è visto nessun
risultato.
Anche nella vita
interna dei partiti i requisiti di democrazia devono essere coerenti con
quanto prevede la Costituzione e non possono limitarsi alla regola
della decisione a maggioranza. I vincoli
alla sovranità interna dei partiti devono essere finalizzati alla
promozione di un effettivo dibattito che permetta di articolare proposte
per il bene comune. Anche dentro
ai partiti, la democrazia resta fondamentalmente un sistema di limitazione dello (stra)potere di chi comanda,
che mira a garantire la partecipazione di tutti: «La democrazia
è un sistema complesso, anzitutto perché ha la pretesa di istituire un
ordine fondato sulla libertà e che mantenga il più possibile la
pluralità
delle espressioni dell'esperienza umana» (PIZZOLATO F., «Costituzione:
sottrarre la democrazia all'arbitrio del potere», in Aggiornamenti Sociali, 9-10
[2010] 574).
Ai requisiti di democraticità interna va associato uno stile partecipativo
che coinvolga l'intera cittadinanza: questo requisito non può essere
imposto per legge, ma va messo in pratica, sfruttando anche le nuove
potenzialità tecnologiche o le acquisizioni della democrazia
deliberativa. Il partito non può
rappresentare l'unico canale della partecipazione politica, perché di
fatto può coinvolgere direttamente solo una porzione assai ridotta di
cittadini. È essenziale
invece che i canali della partecipazione politica siano plurali e
liberi, anche esterni al sistema dei partiti, ma che questi tornino alla
loro funzione di coordinamento e sviluppo
- e non di monopolio - della partecipazione.
b) Trasparenza
Un secondo asse di lavoro per la riforma dei partiti è quello della
trasparenza. Un requisito di trasparenza, minimo e basilare, è
rinunciare a ogni connivenza
con chi fa del malaffare la chiave della propria azione politica.
Gli abusi non possono emergere solo quando arrivano magistratura e forze dell'ordine,
senza che all'interno
nessuno si accorga di nulla. Senza cadere nel rischio della caccia alle
streghe, occorre che i partiti mostrino di essere capaci di fare pulizia
al proprio interno da soli. Un ulteriore
ambito specifico di trasparenza riguarda
i bilanci e i conti dei partiti, che devono essere accessibili agli iscritti e agli elettori e
certificati da osservatori davvero
indipendenti.
Parlando di trasparenza non si può evitare una parola sul
finanziamento pubblico, che la nostra legislazione prevede al pari di quelle delle maggiori
democrazie europee (cfr TINTORI C. - FOGLIZZO P., «I costi della politica. Una lettura critica», in
Aggiornamenti Sociali,
5 [2008] 331-343). La valutazione delle
ragioni di questa misura non può limitarsi alle reazioni alle
malversazioni, né al confronto con il ben più sobrio livello di spesa
negli altri Paesi, ma deve
affrontare una domanda di fondo: quali strumenti ci vogliamo dare per
evitare che l'attività politica risulti nei fatti appannaggio solo di
coloro che se lo possono permettere?
Quale concorso al bene comune possono dare coloro che hanno idee valide,
ma scarsi mezzi economici? Assicurare la partecipazione di tutti rende
probabilmente insuperabile nel breve
periodo un meccanismo di finanziamento pubblico dei partiti, ma occorre
intervenire per prevedere stringenti forme di rendicontazione e una
commisurazione alle effettive esigenze
di spesa: come è possibile che i partiti possano accumulare patrimoni
tanto ingenti?
Nel lungo periodo sono disponibili anche altre opzioni, verso le quali incamminarsi.
Altre democrazie, in particolare quella americana, favoriscono
il sostegno economico diretto dei cittadini ai partiti e ai candidati, ma con un enorme apparato a garanzia della
trasparenza e del fatto che la politica non cada in ostaggio dei potentati economici
(ad esempio fissando un tetto alle donazioni ed escludendo quelle da
parte delle imprese):
per rendersene conto basta un'occhiata alla massa di dati disponibili
sul sito della Commissione elettorale federale americana (Federal
Election Commission, <
www.fec.gov>),
che registra e dichiara l'identità di tutti coloro che hanno versato un
sostegno economico a un candidato pari ad almeno 200 dollari. È un
orizzonte estremamente interessante,
che permetterebbe agli elettori di dare il proprio sostegno ai partiti
con il "portafoglio" oltre che con la scheda elettorale. Anche in Italia
sono state recentemente
presentate proposte in questa direzione.
Entrare in questa logica richiede un
robusto cambiamento nella cultura politica del nostro Paese:
non lo si può realizzare
dalla sera alla mattina, ma rappresenta un inevitabile traguardo di
crescita della nostra democrazia che l'attuale crisi dei partiti ci
stimola a raggiungere.