Il dibattito sul ritorno alla nazionalizzazione in economia, riaccesosi dopo la tragedia del Ponte Morandi, rischia di rimanere sterile se non si ripensa il significato del termine “pubblico”, che non è sinonimo di “statale”.
Al centro del dibattito politico italiano è tornato il tema, per molti versi classico, del ruolo dello Stato in economia. Per alcuni decenni nel nostro Paese, così come a livello europeo, si è compiuta una scelta a favore del modello delle privatizzazioni, che riserva allo Stato il fondamentale ruolo di regolatore, ma non una presenza diretta come attore e gestore di attività economiche. Nelle ultime settimane, invece, si stanno susseguendo prese di posizione in senso opposto e si torna a utilizzare un termine che sembrava ormai desueto: “nazionalizzazione” (talvolta anche ri-nazionalizzazione o ri-pubblicizzazione). Il caso più eclatante è certamente quello legato alla tragedia del crollo del ponte Morandi di Genova del 14 agosto scorso, con il dibattito sull’eventuale revoca della concessione alla società privata che oggi gestisce buona parte della rete autostradale italiana e il ritorno allo Stato anche della gestione diretta della rete stessa, oltre che della sua proprietà. Come corollario è emersa anche la questione dell’affidamento dei lavori di ricostruzione a un soggetto “pubblico” (cioè a una impresa a partecipazione statale) come garanzia di maggiore controllo sulla qualità. Ma si ritorna a parlare di un intervento statale per salvaguardare l’interesse nazionale anche per l’Alitalia e se ne è discusso per l’acciaieria di Taranto.
Al di là degli esiti finali, in alcuni casi ancora ben lontani dall’essere definiti, queste vicende segnalano il ritorno di posizioni che privilegiano l’intervento “statale” rispetto a quello “privato”, ritenendolo una migliore garanzia degli interessi dei cittadini. L’importanza del tema è indubbia e non si può affermare, come vedremo, che esista una chiara opzione teorica a favore di una delle due visioni. Tuttavia, la dialettica tra statale e privato rischia di soffocare l’emergere di una terza prospettiva, che ha il suo perno in una rinnovata comprensione di ciò che è “pubblico”, come via per tutelare gli interessi della collettività. Vale la pena, perciò, di esplorare le feconde implicazioni che ha il termine “pubblico”, quando non è fatto coincidere in modo riduttivo con l’azione dello Stato in contrapposizione a quella dei soggetti privati, ma è riferito a un’assunzione condivisa di responsabilità in vista del perseguimento del bene di tutti. In questo percorso, sarà utile riprendere alcune nozioni classiche e altri apporti più recenti e innovativi in tema di ruolo assegnato allo Stato, beni comuni, partecipazione dei cittadini.
Il ruolo dello Stato: tra controversie e confusione
Quando si affronta il tema dell’intervento dello Stato nel sistema economico è giocoforza constatare la varietà di soluzioni sia teoriche sia di politiche pubbliche concretamente attuate. Le differenze si registrano, innanzi tutto, tra Paesi e aree culturali diverse, come mostra l’esempio delle compagnie aeree. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti, non hanno mai avuto una compagnia di bandiera di proprietà pubblica; altri invece hanno scelto o sono stati costretti a disfarsene, trasformandole in società private o in filiali di gruppi multinazionali che conservano i marchi storici (ad esempio Regno Unito, Spagna e la stessa Italia). Altri ancora vedono lo Stato presente nella compagine azionaria (è il caso della Francia) o come proprietario in varie forme (è così in molti Paesi extraeuropei, quali India, Emirati Arabi, ecc.).
Non meno significative sono poi le oscillazioni registrate nel corso della storia, per cui si sente spesso parlare di un moto pendolare tra i due estremi del totale controllo dello Stato sull’economia e della pressione per una sua progressiva ritirata. Queste oscillazioni possono avere origine ideologica, ad esempio nella radicale opposizione tra il liberalismo e i sistemi di economia pianificata, con tutti i casi intermedi di economie miste; ma possono anche derivare da percorsi in cui la politica economica procede per “prove ed errori”, muovendosi cioè per correggere strumenti che via via perdono di efficacia. Così il percorso di uscita dalla crisi del 1929 attraverso il New deal rooseveltiano e l’adozione di politiche ispirate alle posizioni dell’economista britannico John Maynard Keynes (1883-1946) segnarono il passaggio a un maggior favore verso l’intervento pubblico in economia, rispetto al rigore del liberalismo precedente. Questo tornò in auge all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, con le vittorie elettorali di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, come reazione all’esaurimento dell’efficacia delle politiche keynesiane, rendendo le privatizzazioni uno slogan globale. È in questa fase, ad esempio, anche a fronte dei problemi della finanza pubblica, che il nostro Paese cede imprese prima saldamente nelle mani dello Stato, a partire dalla già citata Alitalia, ma anche i principali istituti di credito e l’insieme delle partecipazioni statali.
Queste oscillazioni più o meno cicliche ci segnalano che in realtà sulla questione non vi è una posizione definitiva, per cui resta un legittimo spazio di dibattito e di differenziazione sia teorica sia politica, in cui un peso non indifferente è esercitato dalla diversa storia dei vari Paesi e, in particolare, dal loro modo di concepire la relazione tra autorità e cittadini. L’effetto è purtroppo quello di produrre una certa confusione e disorientamento nell’opinione pubblica, accresciuti da una comunicazione politica sempre più sbrigativa e sommaria. Per fare chiarezza è di aiuto, perciò, considerare le caratteristiche oggettive degli ambiti possibili di intervento dello Stato e dei soggetti coinvolti, utilizzando prospettive diverse, che vanno tutte tenute presenti in quanto apportatrici di un contributo peculiare.
Le caratteristiche dei beni prodotti
La teoria economica tende a ragionare a partire da alcune caratteristiche dei beni prodotti. A un estremo troviamo i beni, assai diffusi, che tecnicamente sono detti rivali ed escludibili. La rivalità indica che la fruizione da parte di un individuo impedisce quella di tutti gli altri: la stessa pagnotta non può essere mangiata da due persone diverse. Sono escludibili invece tutti quei beni di cui è possibile impedire il consumo a chi non voglia pagarne il prezzo. È la norma per i beni di consumo, visto che il venditore non li consegna a chi non li paga. Per i beni rivali ed escludibili la teoria economica individua come ottimale affidarne la produzione a operatori privati. Questo vale in modo particolare per quei beni sostanzialmente standardizzati, realizzabili da una molteplicità di produttori senza significative differenze finali, avvicinandosi al caso teorico della concorrenza perfetta. Il tentativo di ciascuno di massimizzare il proprio profitto condurrà alla produzione della quantità desiderata dai consumatori al minimo prezzo possibile. Allontanandosi dalla concorrenza perfetta, ad esempio verso il monopolio, aumentano le distorsioni che riducono l’efficienza e secondo alcuni giustificano o rendono necessario l’intervento pubblico per correggerle.
All’estremo opposto troviamo i beni non rivali e non escludibili. Un caso da manuale è quello dell’illuminazione pubblica: i lampioni fanno luce per tutti, indipendentemente dal numero dei passanti, senza che sia possibile spegnerli per chi non è disponibile a pagarne il prezzo, lasciandoli accesi per gli altri. Nessun operatore privato interessato al profitto è disponibile a produrre beni di questo genere, per cui è inevitabile che ci pensi il pubblico, facendo ricorso al prelievo fiscale. Rientrano in questa categoria anche la difesa, l’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia, da sempre considerati tra le funzioni fondamentali dello Stato, anche perché affidarli ai privati li espone a distorsioni devastanti: potrebbe un tribunale “vendere” i propri verdetti al miglior offerente?
In mezzo si colloca un’area piuttosto ampia di casi intermedi, riferiti a quelli che sono definiti “fallimenti del mercato”, in cui si ritiene opportuna una qualche forma di intervento pubblico. È il caso dei monopoli, specie quelli noti come “naturali”, dove i costi di creazione della struttura produttiva sono così alti da giustificare la presenza di un unico soggetto. Le infrastrutture e le reti di distribuzione sono i casi classici, anche se il progresso tecnologico sta per così dire sparigliando le carte: la telefonia mobile permette infatti la presenza di una pluralità di reti, a differenza di quella fissa o della distribuzione del gas. Vanno poi considerate tutte le situazioni in cui si ha un significativo allontanamento dalla concorrenza perfetta o in cui le decisioni degli operatori privati porterebbero a una produzione complessiva dei beni o servizi inferiore a quella socialmente desiderabile. Ad esempio, un sistema sanitario totalmente privato non avrebbe alcuna convenienza ad assistere i cittadini meno abbienti, ma questo genererebbe un peggioramento delle condizioni sanitarie generali, oltre che una evidente violazione dei diritti fondamentali di alcuni. Lo stesso vale nel caso dell’istruzione. Anche in questo caso interviene lo Stato, normalmente all’interno di sistemi misti che vedono la presenza anche di soggetti privati in una varietà di rapporti con quelli pubblici (concessioni, appalti, accreditamenti, ecc.).
Infine merita menzionare gli interventi dello Stato nel sistema economico dettati da ragioni di tipo strategico (è spesso il caso della produzione di armi) o dal tentativo di perseguire finalità redistributive o sociali, come il sostegno dell’occupazione, lo sviluppo delle aree depresse o il riequilibrio dei divari territoriali. Negli anni ’60, ad esempio, la produzione di energia elettrica fu nazionalizzata anche per consentire l’accesso in condizioni di parità a tutte le aree del Paese. Oggi lo stesso non accade ad esempio per la disponibilità della banda larga, offerta da singoli operatori privati laddove lo ritengono remunerativo, e lasciando così scoperte o mal servite alcune zone del Paese che inevitabilmente ne risultano svantaggiate.
I soggetti coinvolti
Una prospettiva giuridica o politologica potrà fornire un utile complemento a queste riflessioni di matrice economica. Il primo elemento da considerare è la varietà di forme istituzionali con cui lo Stato può intervenire: dalla gestione diretta alla creazione di imprese giuridicamente private, magari persino in forma societaria, ma di proprietà interamente o parzialmente pubblica (statale o degli enti locali); dall’affidamento di alcuni servizi in concessione o appalto (definendo quindi le condizioni dell’erogazione), alla creazione di rapporti contrattuali con soggetti privati chiamati a erogare un servizio pubblico di cui sono definite le caratteristiche e il prezzo. Il risultato non è necessariamente identico. Ugualmente possono variare le forme attraverso cui il soggetto pubblico interviene: l’istituzione di imprese pubbliche è diversa da un sistema di accreditamento di privati che si impegnano a rispettare determinati standard e sono soggetti al controllo statale, così come un sistema di norme imperative (obblighi e divieti) è diverso dal ricorso a nudging (cfr Codagnone C. – Bogliacino F. – Veltri G.A., «Nudge, ovvero la spinta gentile. Comportamento umano e politiche pubbliche», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2016] 718-729) e a soft law, oppure a forme di incentivazione fiscale.
Ma la riflessione sull’identità dei soggetti coinvolti può spingersi molto più in là. L’evoluzione politica della modernità ha visto la progressiva concentrazione delle prerogative pubbliche nella figura dello Stato, sostanzialmente l’erede del monarca assoluto. Di qui la sostanziale coincidenza di termini come pubblico e statale, in opposizione a privato (di fatto tutto il resto). Questo ha fatto via via perdere di vista che la storia ha conosciuto anche assetti diversi, in cui non tutto lo spazio del pubblico era occupato dallo statale, in quanto esisteva ad esempio la sfera del collettivo o del comunitario. Ne restano oggi poche vestigia (i c.d. usi civici), anche se numerosi studiosi hanno sottolineato l’opportunità di tornare a esplorarne le potenzialità, utilizzando per lo più la terminologia dei “beni comuni” (o commons, in inglese). Dietro queste realtà vi è un dato essenziale: il carattere comune di questi beni si radica in una trama di legami tra i soggetti coinvolti, che non possono essere dimenticati o negati. Diventa possibile, allora, immaginare modalità di regolazione che non passano dall’autorità (Stato) o dal prezzo (mercato), ma dalla reciprocità (autogoverno dei commons), evidenziando così un’assunzione di responsabilità differente, che investe direttamente alcuni soggetti della società civile. In questa prospettiva, lo Stato non è proprietario o gestore, ma non per questo è escluso, dovendo porre le condizioni istituzionali necessarie perché vi siano azioni collettive e forme di autogoverno che assicurano la piena partecipazione degli utenti e la tutela dei beni in questione.
Anche da questo punto di vista l’innovazione tecnologica potrebbe riservarci sorprese e far ritornare in auge forme ritenute superate in modo forse troppo frettoloso. Non sono pochi i casi in cui le nuove tecnologie permettono l’emergere di soggetti collettivi, persino a scala globale, capaci di rendere disponibili alla collettività (e talvolta all’umanità intera) beni di grande importanza senza alcun coinvolgimento statale: è il caso di alcuni comparti della sharing economy (cfr Polizzi E., «Economia collaborativa tra reciprocità e mercato», in Aggiornamenti Sociali, 10 [2017] 641-651), così come di tutte quelle forme di finanziamento dell’innovazione sociale e anche produttiva fondate sul cosiddetto crowdfunding, cioè su un sostegno collettivo slegato dalle usuali considerazioni in vista di un investimento e basato sul desiderio di essere coinvolti in un processo innovativo (senza escludere a priori forme di remunerazione).
Ma possiamo collocare in questo ambito anche esperienze ben più consolidate, come quella del software libero o dell’approccio wiki, che si basano su un elevato grado di interazione tra gli utenti e favoriscono lo sviluppo di risorse Internet in comune: nell’uno come nell’altro caso è la conoscenza a essere messa a disposizione gratuitamente da una collettività globale di operatori per finalità diverse dal ritorno economico. Anche le diverse forme di consumo e risparmio critico presentano elementi analoghi: una serie di singoli si unisce nel dare forma a un soggetto collettivo sulla base dell’attenzione a determinati valori, condizionando il funzionamento del sistema economico per produrre quelli che a buon diritto possono essere considerati beni comuni o collettivi (ad esempio un ambiente meno inquinato, o una maggiore giustizia nei confronti dei lavoratori più deboli coinvolti in un determinato processo produttivo).
Infine non può essere dimenticato il fatto che l’esercizio di un’attività economica costituisce anche una forma di potere, in quanto è la base del controllo di determinate risorse e dell’istituzione di rapporti spesso asimmetrici (ad esempio con i lavoratori o i fornitori). Così, il cambiamento degli assetti produttivi a seguito dell’ingresso o della ritirata dello Stato dal sistema economico rappresenta sempre anche una riallocazione del potere. È significativo che il percorso di costruzione del monopolio statale sull’area del pubblico abbia coinciso con il progressivo svuotamento di altre istanze, in particolare tutta quella rete di corpi intermedi che per secoli aveva caratterizzato – nel bene e nel male – le società europee. Non è probabilmente un caso che il lessico dell’interesse nazionale o della ri-nazionalizzione torni in auge in una fase in cui la scena politica è dominata da soggetti che si dicono esplicitamente sovranisti e che si muovono costantemente nella prospettiva della centralità dello Stato. Questo favorisce la presa sulla società da parte di chi è al Governo, anche attraverso inevitabili fenomeni clientelari. Il prezzo da pagare è però la riduzione dell’area di responsabilità di altre istanze, dai poteri locali a quelli sovranazionali alla stessa società civile, progressivamente esautorati in uno scenario che rischia di diventare sempre più uniforme.
Criteri di scelta
L’elenco delle possibili opzioni potrebbe allungarsi ulteriormente, via via che si aggiungono ulteriori punti di vista da cui considerare le cose. Già appare con sufficiente chiarezza che ci troviamo di fronte a una serie di scelte, ciascuna con dei pro e dei contro, talora alternative ma spesso complementari o combinabili in diversa misura. In alcuni casi, da un punto di vista tecnico è sostanzialmente impossibile indicare quale sia l’assetto migliore verso cui dirigersi. Lo conferma anche l’esperienza concreta: una medesima gestione del trasporto pubblico locale (azienda municipalizzata) produce risultati molto diversi da luogo a luogo, mentre a oggi non sembrano emergere con chiarezza elementi di maggiore successo della gestione in-house di alcuni servizi (servizio idrico, raccolta rifiuti) rispetto alla loro esternalizzazione.
Non deve stupire, giacché si tratta comunque di alternative fra mezzi, cioè di scelte che non possono essere compiute se non dopo aver affrontato la questione dei fini, spesso assente nel nostro dibattito pubblico o cortocircuitata – il che è anche peggio – da una deliberata semplificazione delle alternative. A che cosa devono servire tutte quelle attività economiche che possono variamente essere assegnate a soggetti privati o statali nelle tante forme che abbiamo sommariamente delineato? Se la risposta sarà quella sempre più prevalente, ormai quasi automatica, e cioè a mediare tra i molti interessi privati contrapposti che esse suscitano, allora dovremo rassegnarci a una serie indefinita di cambiamenti di assetto che non produrranno mai significative e definitive variazioni. L’interesse privato, quando ha campo sostanzialmente libero, è infatti in grado di infilarsi all’interno di qualunque struttura e assetto: sono infiniti i casi di asservimento di realtà pubbliche a un interesse privato, in termini sia economici, sia di potere. Tanto che si potrebbe persino dubitare se non sia questa una delle finalità della rinnovata insistenza sulla “nazionalizzazione” da parte di soggetti politici che non sembrano avere molto chiare le idee su meccanismi e organi di limitazione e bilanciamento dei poteri.
Se la convivenza sociale e la politica sono soltanto il terreno di scontro e composizione degli interessi privati, saranno condannate a una conflittualità e a una instabilità da cui non riusciranno a uscire, ma in questo scenario la stessa alternativa tra Stato e mercato diviene in fin dei conti irrilevante. Se invece ci concediamo il lusso di pensare che accanto agli interessi privati – che nessuno nega, sarebbe ingenuo – vi sia anche lo spazio per provare a costruire una qualche forma di progetto comune, allora le cose potrebbero cambiare radicalmente anche per quanto riguarda i criteri di scelta tra statale e privato. Si tratta di una modalità “pubblica”, che muove dal riconoscimento di nessi e vincoli già esistenti all’interno della società e interroga in modo nuovo il fine delle azioni intraprese. Diventa così possibile convocare soggetti privati come le imprese non solo sul terreno della massimizzazione del profitto, ma anche, ad esempio, su quello della responsabilità sociale. E il numero di imprese sensibili e disponibili a prendere sul serio questa prospettiva è certamente crescente. Ugualmente diventa possibile convocare le risorse della società civile e dell’azione collettiva dei cittadini, oltre che di ciò che resta dei corpi intermedi, per approfittare del patrimonio di esperienze che hanno accumulato e aiutarle a riformulare in chiave propriamente politica la lezione delle molte buone pratiche di cui sono protagonisti. Tra questi soggetti e le diverse parti dell’amministrazione pubblica diventa allora possibile forgiare alleanze e forme di partenariato capaci di costruire reali sinergie, uscendo da una opposizione tra statale e privato che oggi risuona tanto semplicistica quanto anacronistica.