Nell’oramai prossimo confronto elettorale italiano, il tema dell’Unione Europea rivestirà necessariamente un posto centrale. L’analisi dei maggiori accadimenti a livello europeo degli ultimi due anni permette di focalizzare alcuni punti fermi per evitare letture parziali o semplicistiche.
Qual è lo stato di salute dell’Unione Europea (UE) dopo il 2016, l’annus horribilis, come lo ha definito il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker? Questa domanda è lungi dall’essere anacronistica: il nostro futuro è strettamente intrecciato a quello delle istituzioni europee, che abbiamo contribuito a costruire fin dai primi passi in modo propositivo e attivo. La questione europea riveste perciò un indubbio rilievo a livello di dibattito italiano, in vista anche del prossimo voto, dato che sarebbe “provinciale” continuare a concentrarci sulle questioni nazionali senza inserirle nel più ampio contesto europeo di cui facciamo parte.
Le crisi che hanno scosso le fondamenta dell’Europa appena due anni fa le conosciamo bene, perché sono anche le nostre. Con esse ci confrontiamo da tempo, ora accusando la UE di esserne una causa o un ostacolo alla loro soluzione, ora lavorando a livello europeo per trovare risposte efficaci. Vi è la crisi economica, da cui stiamo uscendo molto lentamente e di cui i più deboli nella società hanno pagato il prezzo più alto; l’emergenza umanitaria per l’arrivo alle frontiere europee di migliaia di uomini e donne in cerca di un luogo sicuro dove vivere; la minaccia del terrorismo, che colpisce i ristoranti, i teatri, le strade delle nostre città, instillando la paura e minando l’apertura e la fiducia verso l’altro. A questi eventi si è aggiunta infine la vittoria di stretta misura della Brexit. Questo risultato – sorprendente e forse inatteso anche da chi era favorevole – ha costituito uno spartiacque importante per tutta l’Europa, innanzi tutto sul piano simbolico. La decisione britannica di uscire dalla UE ha significato la fine di un certo idealismo, secondo cui il progetto europeo non può che procedere verso una più profonda integrazione, superando le eventuali resistenze dei Governi o di alcuni settori della società.
La tentazione sovranista: l’unica possibilità?
Di fronte a queste sfide, le istituzioni, i partiti, le forze sociali e i cittadini europei sono alla ricerca di soluzioni. Tra le varie alternative, sempre più forte è il fascino esercitato dalla tentazione sovranista, cioè l’idea di proteggersi dai fattori che destabilizzano rinchiudendosi nei propri confini, erigendo nuovi muri, ritenendo che il bene comune dei propri cittadini si persegua meglio da soli e in contrapposizione agli altri, piuttosto che cooperando e integrandosi. Questa prospettiva – sostenuta da forze politiche presenti in tutti i Paesi europei e collocabili tanto a destra quanto a sinistra, per usare un linguaggio politico tradizionale ma forse non più adeguato per leggere e decodificare la situazione attuale – mette radicalmente in discussione il progetto stesso della UE e si traduce nell’alternativa, formulata da Juncker, tra «stringerci intorno a un programma positivo per l’Europa o ritirarci ognuno nel proprio angolo» (Stato dell’Unione, 13 settembre 2017).
Sullo sfondo di questa alternativa vi è la globalizzazione, con cui la UE e i singoli Stati membri devono fare i conti, senza cadere nell’errore di reagire in modo scomposto alle sollecitazioni del momento, ma individuando un modo di stare dentro la dinamica globale attuale che non snaturi il patrimonio di valori e principi che contraddistinguono il Vecchio continente, in primis l’attenzione alla persona nella sua integralità e il rilievo rivestito dai legami che ci rendono membri di comunità più ampie. Le immagini di un’Europa “fortezza” o, al suo estremo opposto, di un’Europa globale al cento per cento sono esempi di queste reazioni “di pancia”, che finiscono con appiattire i ragionamenti sulla globalizzazione al solo piano economico e finanziario, perdendo di vista invece la solidarietà – sia interna alle società dei singoli Stati membri e tra gli Stati sia verso l’esterno dell’Unione –, che è uno dei pilastri su cui l’intero progetto europeo si fonda sin dalle sue origini. Infatti, la stessa idea di un’Europa unita non è certo nata per ragioni economiche, ma per pacificare popoli che si erano aspramente combattuti per secoli e porre le basi per un’inedita solidarietà transnazionale, che superasse il profondo sconvolgimento politico, economico e culturale, vissuto dai popoli europei all’indomani della Seconda guerra mondiale.
Non è certo la prima volta nella storia che l’Unione si trova a dover far fronte a severi banchi di prova che possono segnarne la fine. Fu così, per esempio, con l’opposizione francese al progetto di difesa comune nel 1954 o dopo il fallimento della Costituzione europea per la vittoria dei no ai referendum indetti in Francia e Paesi Bassi nel 2007. In oltre sessant’anni di esistenza, le istituzioni europee sono man mano cresciute, aggiungendo di volta in volta una “stanza” all’abitazione europea, sempre guidate dalla stella polare dell’integrazione. Nel tempo sono aumentati gli ambiti di azione, le attribuzioni, le competenze, nonché il numero degli Stati membri. Di volta in volta si sono colte le opportunità o si è risposto alle esigenze del momento, facendo fronte agli ostacoli eventualmente insorti, non seguendo un progetto chiaro e predefinito fin dall’inizio, ma rilanciando il “sogno” europeo percorrendo le strade possibili.
Le tante lezioni del negoziato sulla Brexit
Il sogno europeo oggi si confronta anche con il negoziato della Brexit e quanto esso ci può insegnare sulla condizione attuale dell’Europa. Il referendum britannico non riguarda solo un Paese, ma ha una portata generale per il modo in cui è stato indetto, lo svolgimento della campagna elettorale, il suo esito e le vicende politiche successive; racchiude in sé simbolicamente tante spinte disgregatrici da tempo all’opera nel continente e ci offre spunti sulla bontà e l’efficacia delle risposte man mano formulate.
In questo senso, è già significativo l’accordo precedente al referendum siglato tra la UE e il Regno Unito, che prevedeva concessioni generose – forse fin troppo – a favore di quest’ultimo per scongiurare la vittoria della Brexit. Evidentemente i termini dell’accordo non sono stati ritenuti sufficienti dall’elettorato contrario alla UE e possono aver deluso quanti sono favorevoli a un progetto europeo forte. Non serve, in effetti, annacquare il progetto europeo per rassicurare i cittadini che lo avvertono come distante e lo temono, quanto piuttosto chiarire che cosa implichi, come sia già una dimensione che struttura la nostra esistenza, in un modo ben più profondo di quanto sia solitamente percepito, e da cui non derivano solo svantaggi, ma anche benefici. Contro la retorica che l’Europa non è più di moda, che a sostenerla ci si voti alla sconfitta, può essere utile ricordare la vittoria di Emmanuel Macron in Francia che ha fatto dell’europeismo un suo vessillo. Allo stesso modo, è necessario andare oltre la fuorviante rappresentazione dell’Europa come capro espiatorio di tutti mali. Nel linguaggio di alcuni politici e di alcuni mezzi di informazione si alimenta una falsa e pericolosa contrapposizione tra “noi”, la classe dirigente e i cittadini di un Paese, e “loro”, i burocrati europei e gli altri Paesi. Questa retorica può essere utile per attribuire ad altri la responsabilità di scelte impopolari o per raccogliere un facile consenso in un periodo di malessere, ma i problemi interni di un Paese non si risolvono uscendo dalla UE perché non dipendono solo da essa, le posizioni sovraniste non sono alimentate solo dal progetto europeo, i problemi permangono sul tavolo e non è scontato che essendo soli sia più semplice affrontarli e risolverli.
L’andamento dei negoziati tra la UE e il Regno Unito – avviati lo scorso marzo dopo un’iniziale fase di incertezza, anche tra le file dei sostenitori della Brexit, che non avevano previsto come gestire l’eventuale vittoria – danno una conferma indiretta di questi punti. Oltre alle questioni economiche, come sempre spinose quando si rompe un sodalizio, due temi sono stati particolarmente complessi: il futuro degli oltre tre milioni di cittadini della UE che vivono e lavorano nel Regno Unito e, viceversa, di quelli britannici, poco più di un milione, che risiedono nel Vecchio continente; la definizione a livello giuridico ed economico dello status del confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord. Nel primo caso, è in gioco la tutela dei cittadini che si sono avvalsi delle opportunità offerte dal mercato unico per andare a vivere, studiare, lavorare in un altro Stato membro. Ancor più delicata è la questione dell’Irlanda del Nord, dove si cerca di evitare la reintroduzione di un confine “forte”, che potrebbe far naufragare il processo di riconciliazione in corso da circa vent’anni.
Le vicende negoziali mostrano quanto sia complesso “smontare” i legami costruitisi tra gli Stati membri all’interno dell’Unione e come essi incidano sulla vita di milioni di persone, con un impatto notevole su innumerevoli aspetti, anche difficili da prevedere e non sempre affrontati nel corso della campagna referendaria. Quanto è accaduto con il Regno Unito vale ancor di più per un Paese che, oltre ad aver aderito al mercato unico, ha adottato l’euro e fa parte dell’area di libera circolazione delle persone (Schengen). Si deve poi aggiungere la fitta rete di accordi bilaterali (ben 377) che sono stati siglati tra gli Stati membri, avendo come presupposto implicito o esplicito l’adesione alla UE. Questi dati vanno tenuti in considerazione quando si dibatte nei singoli Paesi del futuro dell’Unione.
Il processo di integrazione europeo non è irreversibile o ineluttabile. Il Trattato di Lisbona (2007) prevede che uno Stato membro possa recedere in modo unilaterale dall’Unione. Tuttavia la possibilità teorica di recedere deve confrontarsi con la realizzazione pratica, i cui costi sono difficili da calcolare. Non pensiamo ai soli costi economici, ma anche a quelli sociali e personali, visto che le scelte fatte si riflettono sulla vita delle persone e delle famiglie, sul sistema economico, sul mondo della cultura e della ricerca, sull’insieme della società civile. Piuttosto che disfare quanto è stato costruito nel tempo non si può ipotizzare di orientare diversamente il futuro cammino dell’Unione perché le legittime istanze di critica e insofferenza manifestate dai sostenitori della Brexit, o da altre realtà in situazione analoghe, siano ascoltate e recepite in una visione complessiva? Non si può lavorare congiuntamente – istituzioni europee, Stati membri e società civile – perché il processo d’integrazione prosegua in un modo che meglio corrisponda alle sfide poste dal contesto internazionale odierno e alle attese dei cittadini?
Le risposte a livello europeo
I vertici delle istituzioni europee e di molti Paesi membri sono convinti che si possa dare una risposta positiva a queste domande. Il banco di prova principale è identificare l’orizzonte verso cui tendere nel prosieguo della costruzione della UE per due ragioni: un’Unione impoverita e ridimensionata non è ritenuta un’opzione sostenibile; l’individuazione della meta che si intende raggiungere permette di scegliere e graduare i mezzi per arrivarci.
Nelle recenti dichiarazioni ufficiali i responsabili politici a livello europeo e nazionale ritornano costantemente su alcuni elementi. Guardando al passato, riconoscono la bontà dell’intuizione all’origine dell’attuale Unione e i frutti raccolti in termini di pace, libertà, rispetto dei diritti umani, sviluppo economico, tutela dell’ambiente, protezione sociale. Rivolgendo lo sguardo al futuro, ribadiscono la centralità dell’unione tra gli Stati membri come un valore irrinunciabile della costruzione europea e progettano – e ancor prima sognano – un’Unione resiliente, libera e democratica, solidale ed equa, prospera e sostenibile, sicura e socialmente responsabile, forte al suo interno e anche sulla scena internazionale. Difficile immaginare che queste indicazioni possano registrare rifiuti od opposizioni, ma non sono sufficienti se restano solo degli enunciati. Bisogna considerare le realizzazioni concrete: le misure adottate e il modo in cui sono state dapprima concepite e poi attuate.
Durante gli ultimi diciotto mesi, diverse iniziative sono state messe in cantiere: il dibattito sul futuro dell’Unione è stato rilanciato dal Libro bianco della Commissione del 1º marzo 2017; il tema della difesa comune, a lungo accantonato per visioni e interessi divergenti tra le nazioni europee, è stato l’oggetto di un recente accordo tra 23 Stati membri per dare avvio alla Cooperazione strutturata permanente (PESCO); il vertice di Göteborg dello scorso novembre ha visto l’adozione del Pilastro sociale europeo da parte del Consiglio su proposta della Commissione; sul delicato, e altamente divisivo, tema delle migrazioni il Parlamento europeo si è espresso a favore di una revisione del regolamento di Dublino, introducendo un sistema automatico e permanente di ricollocamenti in tutti i Paesi dell’Unione secondo un sistema di quote; infine la Commissione ha presentato a inizio dicembre un pacchetto di proposte per riformare l’eurozona.
L’elenco potrebbe essere ben più lungo, ma non è questa la sede per entrare nel merito delle varie iniziative proposte (per questo rinviamo alla rubrica #UnioneEuropea), che indubbiamente presentano aspetti di forza e altri più discutibili e suscettibili di miglioramento. Alcuni elementi vanno però segnalati. I temi affrontati sono capitali, rappresentando i nodi su cui il progetto europeo mostra oggi di avere fiato corto; non si è evitato perciò di mettere mano alla casa lì dove mostra che sono maggiormente necessari degli interventi: basti citare l’euro, da tempo sul banco degli imputati per il gap tra Paesi dell’Europa settentrionale e meridionale e per la crescita delle diseguaglianze a livello sociale. Con un sovrappiù di realismo, inoltre, le varie iniziative sono state adottate nel quadro giuridico presente e non si sono rinviate le questioni più spinose alla modifica dei Trattati, ipotesi quanto mai difficile da realizzare al momento attuale. Alcune novità si collocano nel quadro dell’azione comune, altre invece in quello di una più stretta collaborazione tra alcuni Stati e non tutti i 27. Inoltre, a spingere nei processi sono ora la Commissione, ora il Parlamento, ora il Consiglio.
In particolare, va segnalato il ruolo svolto dalla Commissione, che tra i suoi compiti ha anche quello di essere il motore della macchina europea. In una fase storica segnata dall’incertezza politica in diversi Stati membri, tra cui nazioni di primo piano come la Germania, e dalla necessità di confrontarsi con l’affermazione significativa di partiti sostenitori di politiche sovraniste e avversi al progetto europeo, la Commissione adempie al suo ruolo di salvaguardare il futuro dell’Unione e lo fa creando le condizioni perché temi spinosi possano essere affrontati. In questa azione delle istituzioni europee va riconosciuto il contributo di stabilità e di stimolo che esse hanno dato nel corso degli anni agli Stati membri, assicurando un quadro politico, giuridico, economico e sociale che ha permesso alle democrazie europee di svilupparsi e radicarsi, e svolgendo in taluni casi anche una funzione di contrappeso rispetto a spinte nazionali dirompenti.
Questa panoramica conferma, se mai fosse necessario, quanto sia complessa la realtà della UE. Il suo funzionamento dipende da un insieme di meccanismi che richiedono il concorso fattivo di tutti i soggetti coinvolti ed è sufficiente l’ostruzionismo o l’egoistica miopia di pochi, o ancora una progettualità che si limita a gestire l’ordinario perché l’intero ingranaggio si inceppi, danneggiando prima di tutto gli interessi dei cittadini. Alcune recenti vicende ce lo ricordano, come il silenzio europeo sulla questione catalana o la procedura scelta per l’individuazione delle nuove sedi delle Agenzie europee precedentemente situate a Londra, terminata con un sorteggio. Ogni volta che la UE sceglie la strada, apparentemente meno conflittuale e rischiosa, di non prendere posizione e di non decidere, finisce con mettere a repentaglio la propria credibilità e indebolire il progetto europeo.
L’avvenire dell’Unione
Nelle sue Mémoires, Jean Monnet, una delle figure di riferimento nel processo di integrazione europea, scriveva che «l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi». In questa ottica le crisi sono opportunità da cogliere e le soluzioni adottate per risolverle costituiscono la carta d’identità di un’Europa in via di costruzione. Per rispondere alle sfide che oggi si pongono è necessario assumerle fino in fondo, senza cercare soluzioni tampone di breve respiro che non scontentano nessuno e che proprio per questo non incidono sulla realtà. Questo compito tocca alle istituzioni europee e a quelle nazionali, ma è fondamentale che sempre più vi sia il coinvolgimento attivo della società civile, perché il progetto europeo sia fino in fondo di tutti. Tutti questi soggetti sono chiamati a lavorare per il futuro dell’Europa, dove la questione principale non è definirne i tratti generali, i principi su cui si fonda (democrazia, rispetto dello Stato di diritto, uguaglianza, solidarietà, solo per citare i principali), gli impegni che assume nella scena internazionale e nei confronti dei cittadini europei; su questi elementi vi è già un’ampia convergenza, pur non mancando i timori per le politiche di alcuni Governi nazionali dell’Europa centrorientale e, più in generale, per il rischio che una visione economicistica mortifichi la centralità della persona e della comunità. Ben più cruciale è determinare il modo attraverso cui costruire l’Europa così immaginata e chi si fa carico di costruirla.
A proposito del modo, va registrato l’orientamento espresso da Juncker di recente. Per il Presidente della Commissione non è più il momento di ampliare ulteriormente le competenze dell’Unione: «Non dobbiamo intrometterci nella vita dei cittadini europei regolandone ogni aspetto. Dobbiamo essere grandi sulle grandi questioni. Non dobbiamo irrompere con un fiume di nuove iniziative né cercare di appropriarci di altre competenze. Dobbiamo anzi restituire competenze agli Stati membri quando ha senso farlo» (Juncker, Discorso sullo stato dell’Unione, 2017). Più che un passo indietro della UE ci sembra un passo avanti verso un modello in cui l’unità di visione generale e la pluralità delle realtà presenti al suo interno possano coesistere e non essere in competizione. Non serve un’Unione che replichi su una scala maggiore gli Stati nazionali, ma un’istituzione capace di realizzare quanto non potrebbe essere fatto dai singoli Paesi. Si tratta di costruire una realtà che sappia fare della cooperazione il suo asse principale, che scopra i modi per portare avanti un lavoro più simile a quello che si realizza nelle reti partecipate che a quello delle organizzazioni internazionali.
Perché questa collaborazione possa davvero funzionare è capitale che la rappresentazione dell’Europa come contrapposizione “noi-loro” alimentata dai sovranismi venga meno. Il più grande cantiere europeo è la presa di coscienza che da oltre sessant’anni la partecipazione alle istituzioni europee sta costruendo un’identità europea, un “noi” costituito dall’insieme dei cittadini degli Stati membri della UE. Non si tratta di una realtà identitaria monolitica, che si sostituisce a quella nazionale, bensì composita e complementare, perché i tratti culturali presenti in ogni Paese non possono e non devono sparire, e per questo capace di tenere insieme e articolare il piano europeo e nazionale, senza metterli in competizione tra loro. La presa di coscienza che questo “noi” è già un dato di realtà, non una minaccia ma un’opportunità, è il sogno su cui lavorare oggi, soprattutto sul piano culturale ed educativo, o meglio è il sonno da cui svegliarci per prendere atto di qualcosa che già viviamo e che non può portare appieno i suoi frutti finché è negato.