Nella zona grigia

Un neuroscienziato esplora il confine tra la vita e la morte

Adrian Owen
Mondadori, Milano 2019, pp. 264, € 20
Scheda di: 
Fascicolo: gennaio 2020

La vicenda di Eluana Englaro ha reso nota a tutti, anche nel nostro Paese, la condizione dello stato vegetativo (SV). Si tratta di una particolare alterazione della coscienza, dovuta a lesioni nella parte superiore del cervello, che determina uno stato di vigilanza senza consapevolezza: i pazienti, cioè, possiedono un ritmo sonno-veglia come le persone sane, ma non sono consapevoli di sé e del mondo esterno. La diagnosi si basa essenzialmente sulla loro incapacità di fornire risposte coerenti agli stimoli cui vengono sottoposti, come parole, gesti, suoni o immagini. Nel corso degli anni ’90 si parlava di SV permanente per esprimere la convinzione dell’impossibilità di recupero della coscienza, una volta definita la diagnosi; sulla base di quella convinzione, si sono avuti in quegli anni i primi casi di sospensione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale che consentono di tenere in vita questi pazienti.

Le cose hanno cominciato a cambiare con l’avvento del nuovo secolo. Grazie allo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, alcuni ricercatori hanno iniziato a indagare su una più diretta verifica dell’assenza di consapevolezza nei soggetti in SV. Infatti, se il paziente non risponde a nessuno stimolo, non è detto che sia perché è totalmente privo di consapevolezza; può darsi, invece, che sia ancora cosciente, ma incapace, per via della lesione da cui è stato colpito, di manifestare esternamente tale sua capacità. Questa, ad esempio, è la situazione dei pazienti colpiti dalla Locked-in syndrome (LIS o sindrome del chiavistello), che non causa la perdita della consapevolezza, ma una completa paralisi che impedisce ai soggetti di parlare o di muovere qualunque parte del proprio corpo, a eccezione degli occhi. L’idea era che, almeno in alcuni casi, i pazienti in SV potessero trovarsi in condizioni analoghe.

Tra i protagonisti di questa ricerca, un posto di primo piano spetta ad Adrian Owen, neuropsicologo inglese che nel libro Nella zona grigia fornisce un racconto affascinante di vent’anni di studi sulla coscienza. Sfidando il profondo scetticismo della comunità medico-scientifica e l’assenza di strutture e finanziamenti, lui e la sua équipe hanno prodotto risultati decisamente sorprendenti. Lo studio diretto di ciò che avviene nel cervello dei pazienti attraverso le tecniche di neuroimmagine ha consentito di dimostrare che, in una parte non irrilevante di essi, la consapevolezza di sé e del mondo esterno permane, nonostante la loro totale assenza di risposte dal punto di vista clinico. In particolare, Owen ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) che registra il livello di attivazione delle diverse aree cerebrali misurando l’aumento del flusso di sangue ossigenato associato al compimento di una certa funzione. L’idea generale era di mostrare l’eventuale analogia tra le attivazioni cerebrali di pazienti non responsivi affetti da lesioni cerebrali e quelle di volontari sani, a fronte dell’esposizione al medesimo stimolo.

L’esperimento più noto, eseguito su una sola paziente e pubblicato nel 2006, richiedeva di svolgere un duplice compito cognitivo: in primo luogo, di immaginare di giocare una partita a tennis, in secondo luogo di immaginare di andare nella propria camera da letto. Il primo compito attiva nel nostro cervello le stesse aree della corteccia premotoria che sono attive quando compiamo effettivamente l’attività sportiva in questione; il secondo richiede la consultazione di una mappa spaziale “archiviata” nel nostro cervello ed è collegato all’attività di una particolare zona dell’ippocampo. In entrambi i compiti, l’attività cerebrale della paziente in SV risultò sovrapponibile a quella dei volontari sani; e che questo risultato non dipendesse da una reazione automatica, non consapevole, alle parole che le venivano rivolte dagli sperimentatori venne dimostrato da un successivo esperimento in cui si chiedeva ai volontari sani di ignorare le istruzioni che ricevevano: in questo caso, risultò che il semplice stimolo uditivo non era sufficiente ad attivare le aree cerebrali in questione, e perciò si poteva concludere che, nell’esperimento precedente, esse erano attivate in maniera volontaria e consapevole.

Utilizzando questa tecnica di modulazione cerebrale, Owen e colleghi hanno potuto anche stabilire delle forme di comunicazione con pazienti in stato vegetativo. Ai soggetti posti sotto fMRI veniva detto che, se volevano rispondere positivamente, dovevano immaginare di giocare a tennis, se volevano rispondere negativamente dovevano pensare di esplorare la propria camera da letto; si è quindi proceduto a sottoporli a semplici domande relative ad esempio ai nomi dei propri parenti; e poiché gli sperimentatori conoscevano preventivamente la risposta a queste domande, si è potuto verificare che i soggetti erano in grado di comprendere le istruzioni ricevute verbalmente e di fornire risposte coerenti. In sostanza, pazienti clinicamente non responsivi rispondevano a delle semplici domande attraverso la modulazione volontaria della propria attività cerebrale, e la macchina per la fMRI era in grado di “leggere” tali risposte. Questi esperimenti presuppongono peraltro la capacità di questi pazienti di seguire istruzioni che richiedono sforzi cognitivi relativamente consistenti, come immaginare di giocare a tennis per circa 30 secondi; il che ha lo svantaggio di non consentire di individuare la coscienza in pazienti dotati di più scarse risorse cognitive. Negli esperimenti più recenti, si sono utilizzati frammenti di film, in particolare quelli il cui racconto crea suspense nello spettatore, come i film di Hitchcock. Si è osservato che i cervelli degli spettatori si sincronizzano, ossia manifestano le stesse attivazioni cerebrali nel seguire i colpi di scena mostrati dalla pellicola. Uno dei pazienti in SV analizzati da Owen ha evidenziato un’attività cerebrale del tutto analoga a quella dei soggetti di controllo, mostrando di condividere le tensioni generate da una pellicola che richiedeva la comprensione dei pericoli corsi dai protagonisti, nonché del fatto che questi ultimi ne fossero ignari. Questo esperimento ha consentito perciò di inferire l’esistenza di consapevolezza in pazienti in SV senza richiedere loro risposte a istruzioni esplicite, ma solo osservandone la reazione cerebrale.

I numerosi casi di pazienti con lesioni cerebrali studiati e qui magistralmente raccontati da Owen mettono in crisi ogni convinzione “dogmatica” circa l’assenza di coscienza nei soggetti diagnosticati in SV. Uno dei pazienti più significativi, in SV da dodici anni, non solo era in grado di dire chi fosse e dove si trovasse, ma sapeva anche quanto tempo era trascorso dall’incidente e perfino qual era il nome della persona che l’accudiva; confermò anche di non provare dolore. Alcuni hanno avuto dei recuperi funzionali clamorosi, riacquisendo in pieno la consapevolezza e recuperando in parte anche le funzioni motorie; in altri casi, viceversa, i risultati sono stati nulli. La stima dell’autore è che la percentuale di pazienti in SV probabilmente capaci di coscienza si aggira attorno al 17%. Questo ci introduce, ovviamente, agli interrogativi etici sollevati da queste ricerche. Sebbene si sia sviluppata negli anni una certa tendenza a ritenere che, nei casi di SV, sospendere la nutrizione e l’idratazione lasciando morire il paziente sia una scelta legittima, la possibilità che questi pazienti abbiano forme non irrilevanti di consapevolezza anche dopo molti anni dalla lesione cerebrale mette in dubbio tale convinzione. L’A. suggerisce che i pochi dati in nostro possesso consigliano un certo scetticismo in merito. È noto che l’interazione con pazienti affetti dalla sindrome del chiavistello è relativamente più facile, dal momento che questi pazienti generalmente mantengono la capacità di aprire e chiudere intenzionalmente le palpebre; questo consente, una volta che ci sia resi conto della loro condizione di piena consapevolezza, di interagire verbalmente con loro, ascoltando il loro vissuto e facendoli rispondere a delle domande. Ebbene, gli studi effettuati su questi pazienti hanno mostrato che, contrariamente a quel che tendiamo a pensare noi sani, il 72% di questi soggetti dichiara di essere felice e solo il 7% è favorevole all’eutanasia. Questi dati sovvertono la nostra tendenza a pensare che una vita in simili condizioni non sia degna di essere vissuta e gettano più di un dubbio sul valore delle disposizioni anticipate relative a simili circostanze; si può pensare che questi pazienti “incatenati” dalla malattia abbiano ricalibrato i loro bisogni e i loro valori e non condividano le idee dei sani sul valore della vita nella “zona grigia”. Per questo, secondo l’autore, bisogna diffidare delle affermazioni troppo nette circa il diritto di morire di pazienti con lesioni cerebrali.

Nella zona grigia non è un libro scientifico, ma un libro sulla scienza; sul modo in cui procede e su come delle idee inizialmente controcorrente si possano progressivamente affermare. Ma soprattutto, è un resoconto affascinante, scritto con un linguaggio pienamente accessibile e strutturato quasi come un thriller scientifico, del viaggio dell’autore in quella zona di confine tra la vita e la morte in cui si trovano i pazienti affetti da lesioni cerebrali. Un viaggio che lo porta da un iniziale desiderio, tutto scientifico, di dischiudere i misteri del cervello alla convinzione che la ricerca debba avere soprattutto lo scopo pratico e terapeutico di riportare questi pazienti nella terra dei vivi, consentendo loro di comunicare con le persone che li amano e stanno loro vicine; è probabile che in futuro strumenti di interconnessione tra cervello e computer consentano di realizzare sempre meglio questo obiettivo, aprendo la strada a possibilità di recupero oggi impensabili.

Ultimo numero

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza