La trama del film
La sera del 28 febbraio del 1953 Radio Mosca diffonde in diretta il Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 di Mozart. Toccato dall’esecuzione, Stalin ne richiede una registrazione. Impauriti dalla sua possibile collera, direttore e orchestra decidono di ripetere il concerto. Tutti tranne Maria Yudina, la pianista che ha perso famiglia e amici per mano del tiranno. Quando quest’ultima alla fine cede e suona, allega al disco un biglietto insurrezionale. L’orchestra si vede già condannata al gulag, ma l’indomani Stalin è moribondo. Colpito da ictus, muore il 2 marzo scatenando un conflitto feroce per la successione tra i membri del Comitato Centrale del PCUS.
Siamo da poco usciti da un anniversario, quello della Rivoluzione russa del 1917, occasione in diversi contesti per una riflessione sulle utopie che hanno attraversato il secolo scorso. Accanto al contributo di studiosi ed esperti, che hanno indagato sulle conseguenze del regime comunista nel mondo contemporaneo, si è affacciato all’orizzonte anche un film che è diventato un piccolo caso. Si tratta di Morto Stalin se ne fa un altro, vincitore del Premio FIPRESCI per il Miglior film al 35º Torino Film Festival: una commedia britannica che racconta in una maniera inedita l’Unione Sovietica e quanto avvenuto subito dopo la morte di Josif Stalin.
Liberamente ispirato al graphic novel La morte di Stalin di Fabien Nury e Thierry Robins, pubblicato in Italia da Mondadori, il film è uscito nel nostro Paese con il titolo Morto Stalin se ne fa un altro, che rispetto a quello internazionale anticipa l’ironia che pervade l’intera operazione. Il regista italo-scozzese Armando Iannucci converte infatti gli avvenimenti del 1953 in una commedia nera, a metà strada tra il biopic storico e la satira del potere à la Monty Python, raccontando con i toni della farsa una delle fasi più critiche del totalitarismo sovietico e il clima di disfacimento di un impero che si respirava in quel momento.
Già nelle serie televisive The Thick of It e Veep Iannucci si era dimostrato molto abile nella satira politica. Nel suo apprezzato film In the Loop (2009) si prendeva gioco in particolare delle diplomazie americana e britannica e del modo in cui venivano prese le decisioni nell’ambito della politica internazionale. In Morto Stalin se ne fa un altro il regista si cimenta invece con una storia ambientata nell’Europa orientale, scegliendo, almeno in apparenza, di abbandonare il presente e le questioni legate all’attualità. A livello di scenografia e costumi, infatti, il film sembra aderire perfettamente all’ambientazione storica nella Mosca del marzo del 1953. Tuttavia, nonostante gli attori indossino impeccabili abiti da bolscevichi, il loro modo di parlare e i loro accenti tradiscono le loro differenti provenienze. Iannucci lascia infatti che gli interpreti adottino diverse e marcate inflessioni occidentali, esagerandole, in modo da suscitare la risata ed evidenziare che il film non cerca la verità attraverso la mimica, bensì con la deformazione della caricatura. Il cast – composto da celebri e talentuosi attori come Steve Buscemi, nei panni di un ingegnoso Nikita Krusciov, e Simon Russell Beale in quelli del brutale capo della polizia segreta Lavrentij Beria –, lavora proprio sulla pronuncia, enfatizzandone le peculiarità.
Il sistema vigente nell’Unione Sovietica di Stalin ci viene presentato nella sequenza iniziale del concerto classico eseguito dalla pianista Maria Yudina, interpretata da Olga Kurylenko (ucraina e detentrice dell’accento più “autentico” del cast). Iannucci si basa su una storia, i cui fondamenti reali non sono stati dimostrati, descritta in Testimonianza. Le memorie di Dmitrij Sostakovic, le memorie apocrife del compositore russo Shostakovich, secondo cui, nel 1944, Stalin sentì alla radio Yudina eseguire il Concerto per Pianoforte n. 23 di Mozart e ne chiese una copia, terrorizzando i funzionari che, in preda al panico, svegliarono Yudina nel mezzo della notte, assemblarono un’orchestra e incisero un vinile. Proprio su questo leitmotiv del timore dei funzionari verso il dittatore – anche quando questi è defunto – si basa la maggior parte delle gag del film, che si sposta più volte nel territorio dello slapstick, ovvero di una comicità fisica, fatta di cadute, svenimenti e gesti goffi, che caratterizzava anche il cinema del primo Novecento. Se, dal punto di vista narrativo, il fulcro della storia rimane l’ascesa di Krusciov a scapito di Beria, questo aspetto della vicenda rischia di passare in secondo piano, in virtù della frenesia e del caos comico che Iannucci mette in scena. La brutalità del regime staliniano è infatti immersa nell’incrocio quasi ludico che il regista imbastisce tra risate, Storia e il feretro di Stalin.
È in questa coralità di personaggi pirandelliani, davvero poco a loro agio negli abiti che la Storia ha loro attribuito, che il potere sovietico viene messo in ridicolo e ridiscusso in tutta la sua iconografia. Basti pensare alla messa in scena dei cerimoniali che costituiscono le fondamenta del potere nel Novecento, come il funerale di Stalin, sabotato nella sua impeccabile ufficialità dalla dabbenaggine dei funzionari e dallo sconclusionato discorso del figlio del dittatore. Lo stesso “corpo del capo” viene esibito e dissacrato dalla farsa, in particolare nella scena del suo ritrovamento, quando i suoi possibili eredi si esibiscono in commenti prosaici e battute sulle condizioni del cadavere.
Ma se l’Unione Sovietica degli anni ’50, trasfigurata attraverso l’immaginario britannico, è dominata da un caos politico e sociale su cui è possibile fare satira, lo stesso non si può dire del terrore staliniano e post-staliniano, i cui aspetti più violenti vengono riportati doviziosamente. Lo spettatore si trova così combattuto tra l’adesione divertita a una pochade e l’inaccettabile orrore di una delle pagine nere del secolo scorso. Proprio nelle scene finali, infatti, si smette di ridere: Morto Stalin, se ne fa un altro vira oltre il divertimento, assumendo un tono cupo e glaciale, per narrare il volto più aberrante del potere, tra delitti efferati che sono compiuti davanti alla stessa macchina da presa che fino a poco prima filmava le gag dei personaggi. Come se il racconto storico, reiterato, producesse un’assuefazione di cui solo in un secondo momento, posti di fronte alla violenza del presente, possiamo renderci conto. Lo stesso Iannucci, d’altra parte, ha spiegato l’attinenza con l’attualità che lo ha spinto a realizzare il film: «Mi interessava analizzare i populismi oggi più che mai vivi […] I regimi totalitari stanno tutti in fondo nell’anima stessa del populismo, portatori di false verità alle quali si richiede di aderire a volte con sviluppi drammatici».
La vena satirica del lungometraggio, che ha colpito positivamente la critica occidentale, è stata al contrario avversata in Russia: qui il lavoro di Iannucci è fortemente a rischio di censura. Nell’ex Unione Sovietica, nel centenario della Rivoluzione, già un altro film aveva diviso il Paese: Matilda, del regista russo Aleksej Ucitel, sulla relazione che Nicolaj Romanov ebbe tra il 1892 e il 1894 con la ballerina di teatro Matilda Kshesinskaja. Per molti, infatti, il film avrebbe profanato la memoria dell’ultimo zar, canonizzato dalla Chiesa ortodossa russa nel 2000. Gli scontri seguiti alla distribuzione della pellicola nei cinema russi hanno portato i manifestanti a incendiare due auto nel centro di Mosca e una sala a Ekaterinburg. Al punto che la maggiore catena di distribuzione del Paese ha rinunciato a proiettare il film, per non mettere a rischio gli spettatori. La stessa sorte è toccata, come prevedibile, a Morto Stalin se ne fa un altro, accusato di “destabilizzare la società russa”. Una dimostrazione di come una risata, oggi, sia insufficiente a seppellire i fantasmi del “secolo breve”.