Patagrande, Rambo, Leidi, Sueca, Pitufo, Lobo, Perro e Bum Bum sono i nomi di guerra di un plotone di ragazzi-soldato, i Monos, che in spagnolo significa scimmie, affiliati a un’organizzazione militare colombiana. Nascosti in un remoto punto delle Ande, la loro missione è occultare un ostaggio – una dottoressa statunitense – e occuparsi di una mucca da latte dall’ironico nome di Shakira. Un messaggero a cavallo, di tanto in tanto, porta gli ordini dell’organizzazione. Immersi in una natura desolata e ostile, ostaggi come la donna che devono controllare, vivono una quotidianità che alterna rituali militari – fatti di gesti camerateschi violenti – a momenti di gioco infantile. Del resto, i loro nomi – che tradotti suonano come Zampagrande, Puffo, Lupo, Cane, Svedesina – sembrano appartenere più a un cortile di scuola che al mondo della lotta armata.
Durante una notte di festeggiamento, però, la mucca viene colpita da una pallottola e Lobo, il giovane e rispettato capogruppo, si suicida pur di non essere fucilato dall’organizzazione. A ciò segue lo spostamento del gruppo in una zona ancora più isolata. I continui tentativi di fuga della prigioniera statunitense e i cambi di gerarchia all’interno dei Monos porteranno all’esplodere di una violenza selvaggia e primitiva.
Monos è il primo film di finzione del regista colombiano Alejandro Landes. Un’operazione che sembra ripercorrere, a quarant’anni di distanza, quella di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola: adattare, attraverso le lenti di un conflitto attuale, un grande classico della letteratura. Come Apocalypse Now era la trasposizione di Cuore di Tenebra di Joseph Conrad nella guerra del Vietnam, Monos è l’adattamento, più o meno fedele, de Il signore delle mosche (1954) di William Golding al conflitto armato colombiano.
La guerra civile colombiana, scoppiata nel 1961 in piena Guerra fredda sulla scia della rivoluzione cubana, è ancora in corso in varie parti del Paese sudamericano, che ha visto alternarsi in oltre cinquant’anni una molteplicità di organizzazioni militari rivoluzionarie (di cui la più famosa sono le FARC, Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e paramilitari (tra cui il famoso MAS - Muerte A Secuestradores, legato al narcotrafficante Pablo Escobar). Il processo di pace, iniziato negli anni ’80 e mai terminato completamente – si pensi al fallimento del referendum su un accordo indetto nel 2016 dall’allora presidente Juan Manuel Santos – è tutt’oggi una ferita aperta in Colombia.
Come ha avuto modo di dire il regista Alejandro Landes presentando il film: «C’è stata una guerra civile apparentemente senza fine in Colombia, una guerra che ha coinvolto molti fronti: quelli paramilitari, i guerriglieri, i Narcos e il Governo. Tutto sembra essere arrivato al limite. La possibilità di una pace è nell’aria, ma è troppo fragile, ed è passato molto tempo. Il film esplora questo momento attraverso il cinema» (<www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2020/08/20/news/monos_-_un_gioco_da_ragazzi_sulle_ande_tra_avventura_e_guerra-264025804>).
Il film però non offre nessuna coordinata politica allo spettatore. I Monos possono essere un gruppo rivoluzionario o paramilitare, la loro organizzazione rimane misteriosamente senza nome. I loro obiettivi, al di là della salute dell’ostaggio, sono ignoti. Sempre Landes afferma: «L’idea era quella di creare un mondo atemporale, fuori posto, fuori dal tempo, lontano da tutto, con questo gruppo di ragazzi che viene addestrato e sorvegliato da una forza sconosciuta. Sono in missione, parte di un esercito clandestino. Sono una squadra di soldati ma sono, anche, un gruppo affiatato di adolescenti. Sebbene i dettagli della guerra civile colombiana siano la fonte di ispirazione, l’idea era che il film attraversasse i confini ed esistesse come un mondo a sé stante» (<www.cameralook.it/web/monos-lo-straordinario-gioco-da-ragazzi-di-alejandro-landes>).
Le pagine de Il Signore delle mosche, filtrate attraverso l’attualità della Colombia, sembrano così trascendere una semplice lettura politica o contestuale e riportare lo spettatore di oggi a interrogarsi sulle grandi questioni dell’opera di partenza: l’essere umano è per natura buono? L’infanzia è l’età dell’innocenza? Il romanzo di Golding – in risonanza con la scuola empirista inglese di Hobbes e Locke – sfidava, in forma romanzesca, le idee sulla natura umana offerte da Jean-Jacques Rousseau nel suo Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes. Il pensiero dell’intelletuale svizzero, negli anni in cui Golding pubblicava Il signore delle mosche, animava il dibattito pedagogico. I paradigmi di impianto teosofico di Rudolf Steiner e Maria Montessori sembravano riportare nella scuola la sua idea che l’essere umano è buono per natura ed è la società la causa della sua corruzione morale.
Golding, che nel suo discorso di accettazione del Nobel disse «L’uomo produce il male come l’ape il miele», con il suo romanzo, si poneva nella posizione opposta. Il Signore delle mosche inizia con un incidente aereo. I suoi protagonisti, alunni innocenti di una scuola inglese, rimangono bloccati, senza adulti, su un’isola deserta. L’incidente – non diversamente dall’isolamento causato dalla guerra per i giovani protagonisti del film – spinge i bambini a una condizione di sopravvivenza animale. Come i bambini, abbandonati sull’isola, al posto di formare la propria società cadevano rapidamente nel caos e nella violenza, anche i Monos subiranno via via, durante il film, un successivo degradamento verso un tribalismo violento e animale.
Ma se Golding usava i suoi personaggi per dimostrare il suo punto di vista – costruendo Il Signore delle mosche come un romanzo a tesi – la narrazione corale di Monos cerca di moltiplicare le prospettive. Attraverso la pluralità di sguardo dei protagonisti – più esplicitamente nel conflitto tra il violento Patagrande e il sensibile Rambo (che ironicamente è il pacifista del gruppo) – allo spettatore è lasciata la possibilità di scegliere la propria posizione. Gli otto personaggi protagonisti si dispongono su una differente gradazione morale: chi completa la propria trasformazione in una bestia come vuole il titolo e chi, come Rambo e Pitufo, rimane fedele a uno sguardo innocente sul mondo. Il film, sebbene senza lo status di classico dell’opera di Golding, è quindi attento ad aprirsi al mistero della natura umana, che non può contenersi in una semplice scelta binaria: Alejandro Landes sembra così rifuggire una semplice struttura dicotomica, l’essere umano non è né buono né malvagio per natura e anche nella situazione più degradante è ancora in grado di scegliere.
In tale senso una delle decisioni di regia più originali dell’intera opera è quella di lasciare ogni violenza fuori dall’inquadratura. I tagli di montaggio generano così delle ellissi temporali e si percepiscono solo gli echi lontani delle barbarie che, a poco a poco, iniziano a dominare la scena. L’idea di allontanare la macchina da presa dagli aspetti più morbosi del racconto, in una geografia cinematografica come quella colombiana dominata dalla violenza – sia nelle narrazioni seriali come Narcos, sia in quelle cinematografiche, come il recente Oscuro Animal – permette allo spettatore di distanziarsi dialetticamente dalla materia narrata per riflettere – e a tratti comprendere empaticamente – la tragedia tanto delle vittime come dei loro carnefici.
Con questa scelta di distanziamento dalla violenza, Monos si allontana anche dai due film che ne hanno costituito parzialmente il modello: Johnny Mad Dog (2008) di Jean-Stéphane Sauvaire, che raccontava la vita di un gruppo di bambini soldato liberiani, e United Red Army (2007) di Wakamatsu Koji, su una setta di terroristi giapponesi. Questi due film hanno raccontato l’esperienza altamente alienante di gruppi militari composti da adolescenti ben prima dell’opera di Alejandro Landes. Entrambi però polarizzavano la visione sulla dicotomia dei ruoli di vittima e carnefice e si chiudevano con una messa in scena documentaristica dominata dalla camera a mano.
La particolarità estetica del film di Landes invece è la scelta di mescolare momenti onirici e iperrealismo, genere post-apocalittico e videoclip, senza chiudersi nel cinéma-vérité. Girato in Cinemascope, Monos, attraverso il magistrale lavoro del direttore della fotografia Jasper Wolf, cattura invece la natura selvaggia con l’attenzione del naturalista e la usa efficacemente, sequenza dopo sequenza, per raccontare la trasformazione di alcuni dei ragazzi protagonisti. La raffinata confezione visiva – in cui si mescolano riferimenti alle opere di Claire Denis, Werner Herzog, Elem Klimov – rischia però di dominare su alcuni degli elementi di riflessione del film, che nella parte centrale si perdono nelle molte sequenze di carattere onirico e contemplativo. Il difetto maggiore di Monos risiede proprio nella mancanza di un rigore narrativo che, a livello di sceneggiatura, possa mantenere vivi i grandi interrogativi del film. Se nella prima parte gli spunti sono molti, sviluppati in chiara relazione dialettica con l’opera di Golding, nel finale il film non riesce a portare a conclusione molte delle riflessioni aperte. La sensazione è che il ricorso sempre più continuo a un montaggio sincopato manifesti un’incapacità, a livello profondo, di risolvere i conflitti drammaturgici. Monos è un’opera ambiziosa – il fatto che un giovane regista già entri in risonanza estetica con Herzog, Coppola, Wakamatsu è di per sé un successo – ma la sensazione che lascia allo spettatore è quella di un’occasione sprecata. Il drammatico finale aperto, con il primo piano di Rambo e il suo ritorno alla civiltà, chiude solo parzialmente il crescendo conclusivo, lasciando irrimediabilmente incompiuta un’interessante riflessione sulla natura umana.