Mommy

Xavier Dolan
Good Films, Francia-Canada 2014, Drammatico, Durata: 140 min.
Scheda di: 
Fascicolo: febbraio 2015
Diane è la madre di Steve, un quindicenne appena uscito dal riformatorio, che si vede costretta a prendere in custodia il figlio a tempo pieno. I disturbi psichici del ragazzo non permettono alla donna di vivere serenamente la propria vita e il proprio lavoro. L’improvviso sostegno di Kyla, una vicina dal passato oscuro e turbolento, permette alla famiglia di raggiungere un parziale e inaspettato equilibrio. Non è sufficiente però la creazione di un nuovo – e atipico – nucleo familiare per cambiare un destino già scritto: i sogni materni di un futuro migliore si scontreranno ineluttabilmente con la dura realtà, in un Canada immaginario dove una legge permette ai genitori di internare i figli affetti da malattie mentali.

Mommy è un film estremamente essenziale: tre personaggi (una madre, suo figlio, una vicina di casa), un’unica speranza di un futuro di stabilità domestica, nient’altro. Niente figure paterne, né maschili, nessun contesto sociale (in un interessante slittamento verso la fantascienza esibito da uno dei cartelli iniziali), nessun passato, nessun retroterra. È giocato sulla semplicità del racconto e sulla profondità dello sguardo registico; come ha avuto modo di ribadire il regista in una intervista apparsa su la Repubblica il 3 dicembre 2014: «Tutti siamo prima figli e poi alcuni di noi diventano anche genitori in senso letterale (come Diane) o in senso lato (come Kyla). Mommy parla del rapporto madre-figlio in tutte le sue declinazioni possibili: il rapporto che c’è, che c’è stato, quello di riavvicinamento e di allontanamento. Gli spettatori vanno a vedere questo film con genitori, parenti o amici. Non tutti, ovviamente, vivono situazioni e problemi così drammatici, ma al centro della storia c’è l’amore tra madre e figlio e il desiderio di proteggersi l’un l’altro, nonostante tutto e tutti. E insieme al desiderio c’è anche la paura di essere privati di questo legame a causa della società che ci allontana per diverse ragioni».

Se Dolan ha iniziato la sua carriera con un grido autobiografico e violentemente edipico come J’ai tué ma mère, con Mommy esplora invece la dimensione affettiva. Il film, in cui non c’è nessuna velleità di dire qualcosa di nuovo sul rapporto madre-figlio, né di aggiungere un tassello narrativo a un percorso che trova le sue radici in Sofocle, mostra quanto l’essenza del cinema sia fare proprio il motto «Forma è sostanza». Se da un lato può sembrare il rovescio della prima opera del regista, dall’altro Mommy è la stessa storia, perché l’arte – e il cinema in particolare – non sono un percorso al “nuovo” nella sostanza, ma un “nuovo” della forma, che illumina in maniera diversa il proprio nucleo sostanziale. Mommy è quindi un film dedicato all’amore filiale, all’eterna ripetizione del mito edipico, in nuove forme e nuove immagini. Mentre tutto il cinema mondiale va nella direzione di un’insensata ripetizione delle forme, cercando una sostanza differente (più attuale? Più commerciale? Più ludica?), Xavier Dolan si concentra sul piano formale in un caleidoscopio di formati e immagini in movimento. Un cinema nuovo, di fatto, che riporta in vita lo stupore per un linguaggio non ancora esausto.

Poco noto in Italia, Dolan è considerato l’enfant prodige del cinema mondiale: a soli 26 anni ha realizzato ben 5 lungometraggi proiettati nei più importanti festival del mondo, da Venezia a Sundance; con Mommy, nel 2014, è riuscito a vincere, ex-aequo con Jean Luc-Godard, il premio alla regia al Festival del Cinema di Cannes. La cinematografia di Dolan gioca sulla ricerca delle qualità pittoriche dell’immagine, attraverso l’uso dei colori e l’esaltazione delle forme, e Mommy rappresenta l’ultimo tassello di un percorso che vive ogni fotogramma con passione, a volte adolescenziale a volte raffinata, indagando il cinema come linguaggio estetico. La prima peculiarità del film è il formato 1:1, che riduce lo schermo a un quadrato, avvicinando la pellicola all’estetica di smartphone e tablet, giocando continuamente con gli eccessi degli autoscatto ormai noti a tutti come selfie. Il cinema si trasforma in un quadrato perfetto, escludendo la possibilità di campi lunghi e riprese in esterno, portando in scena solo i volti: «Volevo che lo spettatore guardasse direttamente negli occhi dei miei personaggi, che non fosse distratto da nient’altro».

Mommy è quindi un film sul dolore adolescenziale, sulla solitudine esistenziale a cui costringe la contemporaneità – Steve è continuamente sul baratro dell’alienazione –, e ne esplora con curiosità i sintomi. I segni di tale malessere sono anche e soprattutto estetici. Il formato 1:1 manifesta l’impossibilità di trovare uno spazio comune in cui includere “l’altro”, il terzo escluso (la società, il padre, la famiglia) a cui la psicoanalisi in tempi recenti sta prestando tanta attenzione. Un “altro” non solo esteriore, ma prima di tutto interiore. In Mommy l’esclusione non riguarda il rapporto tra i personaggi, ma la possibilità, per ciascuno di loro, di integrarsi in un gruppo o in un progetto. Non a caso il formato si apre solo nei momenti in cui è la proiezione di un futuro a dominare la scena: un domani fatto di altre persone e altre storie. L’egoismo di Steve, talvolta feroce e violento, viene ricondotto nel fotogramma quadrato che richiama continuamente la finestra delle prigioni fisiche – il riformatorio, l’ospedale psichiatrico – o psicologiche – il deficit di attenzione, la bipolarità, l’eccesso di autoreferenzialità – in cui si ritrova continuamente recluso.

Con qualche eccesso di stile nella costruzione dell’immagine, Xavier Dolan non interpone alcuna barriera tra i propri personaggi e la macchina da presa, dando forma alle loro parole e ai loro gusti personali, senza troppa attenzione per la prosecuzione del racconto. Non è quindi casuale che Steve sia sboccato e gergale, con tutti gli eccessi linguistici di una cultura adolescenziale fatta di televisione spazzatura e reality show, o che Diane si vesta in modo volgare e ami la musica pop. Al contempo però non c’è commiserazione

o pietà nei confronti dei tre personaggi. Come ha spiegato il regista a Cannes, «Non vedo la ragione di fare dei film su dei perdenti, e non capisco che senso abbia osservare questa categoria. Ho solo un’avversione nei confronti di qualsiasi documento artistico che ritragga gli essere umani attraverso i loro fallimenti. Esseri umani che, credo, non dovrebbero essere definiti in base alle avversità o alle etichette, ma dai loro sogni e sentimenti. Ecco perché volevo fare un film sui vincenti, qualsiasi cosa possa poi accadergli alla fine. Spero davvero di essere riuscito almeno in questo» (cfr il pressbook del film, <www.mymovies.it/filmclub/2014/04/113/mymovies.pdf>).

La frequentazione assidua del cinema indipendente americano di Gus Van Sant e del primo Martin Scorsese ha permesso a Dolan di comprendere come nell’era ipermoderna creare significhi sempre in qualche misura intrattenere. Non c’è quindi commistione di livelli in Mommy, perché non ci sono livelli di fruizione, gli Eiffel 65 o Celine Dion sono una parte fondamentale della creazione dolaniana tanto quanto Gerry di Gus Van Sant o I 400 colpi di François Truffaut. Questo universo di referenze incrociate, popolari e colte, si mescola scena dopo scena, in un continuo gioco relazionale tra i tre personaggi che sembrano più incarnazioni dello stesso regista che veri e propri esseri umani. La scommessa del cineasta canadese è quindi aggiornare il cinema nell’era della sua polisemia, senza arrancare dietro a modelli culturali verticali. Come tutti gli amori e gli innamoramenti cinefili – da Hollywood Reporter ai Cahiers du Cinéma in molti hanno gridato al capolavoro – anche quello per il cinema di Dolan è esposto alla rinuncia alla critica per quelli che in futuro potranno manifestarsi come limiti. Il rischio è quello di un cinema ombelicale, ostinatamente autoreferenziale e provocatorio. I pregi di Mommy – come dei precedenti Tom à la ferme, Laurence Anyways e Les amoures imaginaires – ne sono gli stessi difetti: Dolan è un regista giovane che eccede nel proporre il proprio ego sullo schermo (talvolta imponendosi come attore protagonista), incapace di costruire narrazioni complesse, proiettando le proprie idiosincrasie e i propri amori nei suoi personaggi. Forse proprio per questo in Mommy, che è un film sull’egoismo dei figli e sulla solitudine delle nuove generazioni, le note stonate e gli eccessi si armonizzano perfettamente con il soggetto, fino a creare una soluzione stilistica originale e ipnotica.


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