Ci sono momenti nella vita di una collettività in cui si attraversano profonde crisi. Forza e potenza sono allora le caratteristiche richieste al leader per uscire dalle difficoltà ed essere credibile È quello che Israele chiede spesso a Mosè nel deserto. Ma c'è un testo, Numeri 11 e 12, che propone, in risposta, un altro paradigma come fondamento dell'esercizio di governo, la mitezza.
L'episodio narra, infatti, del malumore del popolo che, nutrito solo di manna, invoca una migliore qualità di vita per rendere percorribile il cammino nel deserto. Non si può vivere solo di pane, solo del sufficiente per sopravvivere: Ora la nostra gola inaridisce; non c'è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna (Numeri 11, 6). Il popolo chiede carne, anche nell'antichità cibo festivo, raro, ma che fa superare il semplice quotidiano riempire il ventre per un altro giorno di cammino. Un'altra volta, l'ennesima, si accende l'ira del Signore (cfr 11, 1-3). Questa espressione non intende certo riferirsi a un'emozionalità incontrollata, ma intende esprimere, certo con un'enfasi colorita, l'assoluta distanza di Dio da ogni forma di male che l'umanità esprime. In fondo è il segnale più chiaro nel racconto biblico dell'egoismo e della malvagità di questo genere di richieste da parte del popolo. L'ira esprime proprio il carattere assoluto dello scontro. È un vero e proprio braccio di ferro tra il popolo e il suo Dio in cui è in gioco un'affermazione di potenza: il popolo «vuole» e Dio deve dare. Chi è al servizio di chi? Chi è «il padrone»? Chi ha più diritto all'ira?
Ecco allora emergere la figura di Mosè, presentato sempre come «in mezzo», come mediatore che prende le parti di Dio con il popolo e le parti del popolo con Dio. Varie volte nei testi biblici si assiste al gioco dei litiganti che vorrebbero attirare dalla propria parte un tale mediatore. Il popolo vuole «fare suo» Mosè; ma lo stesso fa anche Dio. Di fronte, infatti, all'infedeltà del popolo in occasione del vitello d'oro, Dio gli aveva proposto di abbandonare il popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione (Esodo 32, 9-10). In quella occasione Mosè non aveva accettato di abbandonare il popolo e aveva implorato misericordia per lui.
In Numeri 11-12 accade tuttavia qualche cosa di inatteso: una sorta di resa di Mosè. L'ira del Signore si accese e la cosa dispiacque agli occhi di Mosè (11, 10). È come se Mosè mostrasse tutta la sua stanchezza di fronte a questo gioco continuo di violenza e potere. Propone allora a Dio di farsi come da parte, nel desiderio di condividere la propria leadership con altri. Dio accetta. Toglierò dello spirito che è su di te e lo porrò sui settanta uomini che porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo (Numeri 11, 17). Mosè perde parte del suo potere perché questo venga condiviso con altri saggi che possano, insieme, guidare il popolo. Di fronte alla continua gara di potenza il nostro racconto veicola una precisa visione di leadership, capace di rinunciare al potere assoluto per una sua distribuzione che tuteli il bene di tutti.
La mitezza come valore di governo
Numeri 12, 1-3
1 Maria e Aronne parlarono contro Mosè, a causa della donna etiope che aveva preso. Infatti aveva sposato una donna etiope. 2 Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?». Il Signore udì. 3 Ora Mosè era un uomo assai umile [mite], più di qualunque altro sulla faccia della terra.
Questo passaggio pare molto positivo ai nostri occhi occidentali abituati alle dinamiche partecipative, alle democrazie elettive e agli equilibri civili che nascono dalla divisione dei poteri a garanzia del loro reciproco controllo. Non lo stesso si può dire di altri momenti storici in cui il governo autocratico e totalitario (seppure «illuminato») non solo era tollerato, ma, anzi, teorizzato e voluto. A maggior ragione, situando i racconti biblici che stiamo leggendo nella loro epoca di composizione e di prima lettura, un tale gesto poteva apparire come segno di debolezza estrema, di rinuncia a un mandato divino, di una viltà che fa provocare vergogna. Così appare a Giosuè che in qualche modo reagisce e a cui Mosè risponde: Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito! (Numeri 11, 29). Le prime battute del capitolo 12 presentano ulteriori esponenti della lista degli scontenti nei confronti di questo leader indebolito. Aronne e Maria, fratello e sorella di Mosè, non comparivano nella lista dei settanta uomini alla guida del popolo e si ribellano esplicitamente invocando per sé gli stessi poteri: Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro? (Numeri 12, 2). E non è fatta solo una questione di potere, ma anche di purità. La presenza in questo punto del racconto di questa ulteriore polemica è quanto mai significativa. Questo fratello che ha deciso di abbandonare la leadership assoluta è ora criticato anche per aver sposato una donna «non pura», straniera. Da qui i contrasti - si noti bene - mai prima espressi, sebbene il racconto biblico citi il matrimonio di Mosè con una donna straniera ben prima della sua chiamata al roveto ardente (cfr Esodo 2, 16-22). L'attuale indebolimento del potere di Mosè fa sì che la sua vita passata, le sue scelte (comprese quelle matrimoniali) siano ora sotto osservazione critica. Il fratello e la sorella mettono in discussione addirittura la scelta originaria di Dio. Se il condottiero non è più «forte e puro», perché deve ora essere migliore, più autorevole di Aronne, il sommo sacerdote, e di Maria, la profetessa (Esodo 15, 20)?
Il commento del testo a questa lamentela è lapidario: Mosè era un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra (Numeri 12, 3). Il termine umile che appare nella versione della CEI che qui normalmente utilizziamo, vuole tradurre il termine ebraico (onî che di per sé significa povero, bisognoso, mite. Solitamente, tutta la tradizione ha collegato Mosè con la categoria della mitezza (così anche la versione greca), ricordata anche nel suo elogio contenuto nel libro del Siracide: lo santificò nella fedeltà e nella mitezza (45, 4).
È fuori di dubbio che tale mitezza rappresenti una chiara proposta all'interno della riflessione sulle modalità di esercizio della leadership politica nella storia successiva sia del popolo di Israele sia delle chiese cristiane. Proprio perché alla guida del popolo, Mosè deve essere mite per poterne promuovere il bene. La proposta che Dio aveva fatto a Mosè in occasione dell'episodio del vitello d'oro, lo «sfidava» ad assumere un diverso orientamento: privilegiare i propri interessi individuali rispetto a quelli del popolo, seppur peccatore. Invece Mosè condividerà fino in fondo la sorte del popolo: neppure Mosè entrerà nella Terra promessa insieme a tutti coloro che nel deserto avevano peccato. Vengono in mente le parole di Norberto Bobbio: «la mitezza non può essere scambiata con la modestia. La modestia è caratterizzata da una sottovalutazione di se stessi, la mitezza non è una disposizione verso se stessi, ma è sempre un atteggiamento verso gli altri e si giustifica soltanto nell'"essere verso l'altro". Siamo miti di fronte al nostro prossimo» (Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d'ombra, Milano 1994, 27).
La mitezza nella leadership, a differenza della forza violenta che deve mostrare e dimostrare la propria autosufficienza, il proprio potere, richiede per natura sua la consapevolezza di avere bisogno dell'altro. In effetti, nessuno come Mosè è presentato come un condottiero «bisognoso»: di Aronne per parlare al popolo (Esodo 4, 10-16); di Dio per sconfiggere il faraone (ad esempio: Esodo 6, 1-13); del consiglio del suocero per poter essere giudice del popolo (Esodo 18); di Aronne e Cur per poter tenere le mani alzate in favore del popolo nella sua battaglia contro gli amaleciti (Esodo 17, 8-13).
Il re mite e la ricerca della pace
Zaccaria 9, 9-10
9 Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile [mite], cavalca un asino,
un puledro figlio d'asina.
10 Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l'arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra.
Nel corso dei secoli il popolo di Israele resterà insensibile a questo modello di esercizio del potere: sempre ricercherà sicurezza e appoggio nella violenza e nella forza, e, quando esse verranno a mancare al suo interno, si orienterà ad alleanze con i popoli vicini, più forti e violenti, a costo di asservirsi ad essi. Rimarrà solo la voce dei profeti, per lo più inascoltata, a ribadire la necessità della mitezza come virtù politica per governare rettamente il popolo di Dio, in un percorso che culmina con la descrizione che il profeta Zaccaria dà del nuovo Davide, chiamato a conquistare di nuovo il potere per regnare su Israele e su tutta la terra.
Questo testo va probabilmente collocato alla fine del IV secolo a.C. (tra il 330 e il 300 a.C.), epoca in cui Alessandro Magno stava conquistando tutto il bacino del Mediterraneo. Il ritorno del popolo di Israele dall'esilio babilonese, due secoli prima, si era rivelato una delusione: il Tempio non era stato ricostruito secondo gli antichi fasti, né si era recuperato un reale controllo sui territori degli antichi regni di Israele e Giuda. Ora nuovi conquistatori stranieri si stavano impadronendo di tutta la regione. Zaccaria profetizza un compimento gioioso della realizzazione del regno attorno a Gerusalemme attraverso la presenza di un giusto vittorioso, di un mite (si usa lo stesso termine ebraico (onî usato per Mosè) che cavalca un asino: il nuovo Davide che rientra in patria. L'immagine è ben diversa da quella delle parate dell'imperatore macedone (e simili poi quelle romane). Certamente il nuovo Davide arriverà e tutta Sion esulterà. Ma egli entrerà a dorso di un asinello. Solo un condottiero mite potrà farsi carico della pace, facendo sparire i carri e i cavalli (cfr l'ironico uso degli stessi termini usati per la distruzione degli egiziani in Esodo 15, 1-7) e spezzerà l'arco di guerra. La pace sarà la sua parola detta nell'annuncio e il suo dominio si estenderà ovunque.
La sfida è credere che la mitezza possa avere queste conseguenze enormi. Gli evangelisti vedranno in Gesù che entra in Gerusalemme a dorso d'asino il punto di realizzazione più alto della profezia di Zaccaria. Eppure, negli stessi vangeli si legge anche: beati i miti, perché avranno in eredità la terra (Matteo 5, 5). Questa è l'unica beatitudine evangelica che rimanda esplicitamente al potere, al possesso della terra (le altre rimandano al regno dei cieli, alla consolazione e sazietà, alla misericordia, al vedere Dio o all'essere chiamati figli di Dio), che è esattamente il grande sogno di ogni dittatore di tutti i tempi. Satana lo aveva proposto a Gesù. Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» (Matteo 4, 8-9).
Utopia o possibilità politica?
La beatitudine non collega la violenza (demoniaca?) al possesso della terra: questa sarà solo conseguenza della mitezza. Eppure la tentazione è quella di pensare, come ancora suggerisce Bobbio, che la mitezza sia per natura segno antitetico alla politica, drammaticamente nobile, ma perdente sullo scenario del mondo: «Nella lotta politica, anche quella democratica, e qui intendo per lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli uomini miti non hanno alcuna parte. I due animali simbolo dell'uomo politico sono - si ricordi il capitolo XVIII del Principe di Machiavelli - il leone e la volpe. L'agnello, il mite agnello, non è un animale politico. Semmai è la vittima predestinata, il cui sacrificio serve al potente per placare i demoni della storia». (Elogio della mitezza, cit., 24).
La Bibbia propone un altro orizzonte e la storia offre esempi di uomini che, attraverso la mitezza, hanno effettivamente ottenuto risultati politici orientati alla pace. Tra i vari nomi possibili emerge la splendida figura di Dag Hammarskjöld, Segretario Generale dell'onu dal 1953 al 1961. Dovendo affrontare la stagione conflittuale dei blocchi contrapposti, egli teorizzò e praticò la politica della mitezza per aiutare a preservare la pace. Si mise al servizio del bene comune mondiale e il solo modo per farlo era ai suoi occhi quello che nasceva da una radicale mitezza. Nel suo diario, ritrovato dopo la morte si legge: «La "faccia" dell'altro è più importante della tua; se cerchi qualche cosa per te, non potrai far conto di avere successo nel difendere gli altri; puoi sperare in soluzioni durature solo attraverso una relazione in cui vedi l'altro dall'esterno, ma ne vivi le difficoltà dall'interno» (HAMMARSKJÖLD D., Tracce di cammino, Qiqajon, Magnano [BI] 20052, 153). Tali parole non sono solo un'utopia spirituale di buon governo, ma hanno costituito la motivazione più profonda di interventi efficaci per il mantenimento effettivo della pace tra grandi potenze. In questi 50 anni non hanno certo perso efficacia se si prova a prenderle sul serio.