Le rapide e profonde trasformazioni che negli ultimi decenni hanno segnato le relazioni familiari e le loro forme istituite pongono notevoli sfide all’evangelizzazione. Per affrontarle, papa Francesco ha avviato un “processo sinodale”, come lo ha definito lui stesso: un cammino di riflessione, confronto e preghiera finalizzato a individuare il modo migliore di annunciare al mondo contemporaneo il “Vangelo della famiglia”. Una prima tappa di questo percorso è stata la III Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi tenutasi lo scorso ottobre, in vista di quella ordinaria indetta per il prossimo ottobre.
Nella semplificazione mediatica questo momento assembleare è stato rappresentato in termini di contrapposizione fra progressisti e conservatori: i primi avrebbero un approccio pastorale e sarebbero propensi a modificare la prassi della Chiesa, in particolare nei confronti dei divorziati risposati; i secondi adotterebbero una prospettiva teologica e preferirebbero mantenere il modo di procedere adottato finora. Ma queste categorie si addicono più a un’assise politica, quale un Parlamento, che al Sinodo, le cui decisioni scaturiscono dal consenso quanto più ampio possibile dei convenuti, essendo la comunione un segno dell’azione dello Spirito. Inoltre non esiste una linea pastorale pura, slegata da considerazioni teologiche, come non esiste una teologia asettica, priva di implicazioni pratiche.
Lo scorso febbraio, nella fase preparatoria, il card. Kasper su mandato del Papa ha proposto al collegio dei cardinali riuniti in concistoro di adottare la misericordia come categoria unitaria in base alla quale rielaborare le due prospettive (cfr
KASPER W., «Il messaggio della misericordia», in
Aggiornamenti Sociali, 10 [2014] 630-636). Essa, infatti, è un attributo di Dio che,
misericordioso e
lento all’ira,
perdona la colpa (cfr
Esodo 34,6-7) e deve caratterizzare anche i discepoli di Gesù: s
iate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (
Luca 6,36). L’evangelizzazione della famiglia e per mezzo delle famiglie viene così inquadrata nel più ampio esercizio e manifestazione al mondo da parte della Chiesa di quell’amore viscerale di Dio per gli uomini nel quale consiste, per la Bibbia, la sua misericordia (cfr il cantico di Zaccaria, in particolare
Luca 1,76-78).
Ma come farlo senza svalutare la grazia, riducendola a buonismo che sacrifica le esigenze della giustizia e illude di essere nella verità? E, dall’altro estremo, come evitare il rigore legalistico che impedisce l’esercizio della misericordia? Non è possibile dare una risposta valida sempre e ovunque, ma alcuni criteri di fondo si possono desumere dal rapporto intrattenuto da Paolo, l’apostolo delle genti, con una delle Chiese da lui stesso fondate, quella di Corinto.
Il primato della carità
Quando Paolo arriva a Corinto e vi svolge il suo ministero apostolico, tra il 50 e il 52 d.C., la città è un centro commerciale e manifatturiero di circa mezzo milione di abitanti, di cui due terzi schiavi. Edificata in prossimità dell’istmo che unisce la Grecia continentale a nord con il Peloponneso a sud, aveva due porti, uno a est sull’Egeo e uno a Ovest verso l’Adriatico ed era, quindi, un crocevia ideale per la circolazione di persone e merci. Distrutta dai romani nel 146 a.C., era stata ricostruita dopo circa un secolo dai coloni inviati da Cesare e aveva riacquistato importanza. Il lusso e la licenziosità della Corinto greca erano diventati proverbiali e in parte questo continuava a essere vero per la città riedificata: molti, infatti, vi erano accorsi per la possibilità di fare fortuna in un contesto multiculturale dalle tante opportunità.
In un primo momento Paolo lavora come fabbricante di tende e rivolge la sua predicazione agli ebrei, nelle sinagoghe, ma poi, respinto dai più, dedica completamente il suo ministero ai pagani. Lo aiutano alcuni collaboratori, i quali, una volta partito l’apostolo, lo tengono informato sulla situazione (cfr
Atti 18,1-18). Tra il 55 e il 57 d.C. Paolo scrive alcune lettere ai Corinzi – di cui due sono conservate nel Nuovo Testamento, le altre non ci sono pervenute – per chiarire le varie questioni disciplinari, etiche e teologiche che gli venivano sottoposte da loro.
Un primo problema da affrontare è il comportamento immorale di un membro della comunità cristiana, rispetto al quale l’apostolo si mostra durissimo, al punto di “scomunicarlo” consegnandolo a Satana. Alcuni interpretano l’immoralità di cui parla Paolo come un caso di incesto, ma in realtà la parola usata è
porneía, ovvero “unione illecita”, come l’adulterio, o “disordine sessuale”, “dissolutezza” (cfr riquadro).
1Corinzi 5,1-51 Dovunque si sente parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. 2 E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti, in modo che si tolga di mezzo a voi chi ha compiuto una tale azione! 3 Orbene, io, assente col corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato come se fossi presente colui che ha compiuto tale azione: 4 nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati insieme voi e il mio spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, 5 questo individuo sia dato a Satana per la rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore. Il motivo di tanta durezza non è solo il peccato, già di per sé molto grave, quanto la sua giustificazione da parte della comunità. Infatti, sia il diritto romano, sia la legge ebraica vietavano l’unione con la propria matrigna (cfr
Levitico 18,8; 20,11). Se i cristiani l’avessero tollerata, avrebbero mostrato di adottare uno standard morale molto inferiore a quello di altri gruppi sociali: una tale immoralità, infatti,
non si riscontra neanche fra i pagani e, se questo è il termine di paragone più basso che Paolo possa adottare, l’adesione al cristianesimo avrebbe rappresentato una degradazione dell’essere umano agli occhi degli altri, una scelta fatta per opportunismo e non per fede.
Oggi non susciterebbe scandalo se un uomo, morto il padre, sposasse la sua matrigna, ma all’epoca un tale comportamento risultava immorale come lo è per noi la pedofilia. In casi del genere non si può essere indulgenti: la misericordia consiste piuttosto nel proteggere il più debole, intervenire sul reo perché si ravveda e destare o mantenere ferma la coscienza collettiva affinché non tolleri o giustifichi simili deviazioni.
Se i cristiani di Corinto avessero accettato quella condotta immorale avrebbero privato di efficacia ogni altro loro discorso e offerto il fianco ai loro denigratori, molto attenti alla coerenza nel rispetto delle prescrizioni della legge morale, civile o religiosa. In un contesto sociale alquanto licenzioso la credibilità dipendeva molto dalla promozione della dignità umana basata su un alto profilo morale.
La durezza di Paolo, tuttavia, è solo un mezzo estremo per scuotere la coscienza di chi è orgoglioso di ciò di cui dovrebbe, invece, vergognarsi e così aiutarlo a pentirsi. Poco più avanti, infatti, l’apostolo deve intervenire a correggere un’interpretazione eccessiva data a una direttiva simile contenuta in una precedente lettera a noi ignota, che induceva alcuni a ritenere necessario separarsi da quanti, non cristiani, avevano un comportamento immorale:
Vi ho scritto nella lettera (precedente) di non mescolarvi con gli impudichi, ma non intendevo affatto gli impudichi di questo mondo o gli avari, i ladri o gli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è impudico o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme (
1Corinzi 5,9-11).
Secondo Paolo, come il compromesso col peccato darebbe una controtestimonianza al Vangelo, così una comunità cristiana modellata sull’esempio di una setta, un circolo di puri preoccupati di mantenersi incontaminati dal mondo circostante – come apparivano, tra gli altri, anche gli ebrei agli occhi dei romani – non potrebbe comunicare la novità del suo messaggio di redenzione per tutti. La misura estrema va adottata, invece, verso l’interno e senza eccezioni per nessuno. Gli impudichi, infatti, sono solo una delle categorie di persone che si dicono fratelli, credenti in Cristo, e poi lo negano nei fatti: se nei loro confronti vengono adottate sanzioni, lo stesso trattamento va riservato a chi è
avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro.
In seguito Paolo deve tornare ancora una volta sull’argomento per evitare gli eccessi e mitigare il rigore suscitato da questa sua presa di posizione:
Se qualcuno ha rattristato, non ha rattristato me, ma in parte almeno, senza esagerare, tutti voi. Per quel tale è già sufficiente il castigo che gli è venuto dalla maggior parte di voi, cosicché ora voi dovreste piuttosto perdonarlo e confortarlo, perché egli non sia oppresso da troppa tristezza. Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità […]. A chi voi perdonate, perdono anch’io; perché quello che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi, davanti a Cristo, per non cadere in balìa di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni (
2Corinzi 2,5-11). Non è chiaro chi sia stato causa di tristezza per Paolo e la comunità: secondo alcuni è proprio la persona colpita dalla sua scomunica nella lettera precedente, per altri è uno di quei
superapostoli di cui parlerà più avanti (cfr
2Corinzi 11-12), che avversavano la sua predicazione.
A ogni modo Paolo ha dovuto rivedere la sua condotta alla luce dell’effetto suscitato: la punizione è controproducente se causa una tristezza eccessiva e opprimente in chi ne è colpito, privandolo della speranza di essere salvato come gli altri e spingendolo ad abbandonare la comunità. Ma anche lui che l’ha comminata, essendo unito, nonostante tutto, da una profonda comunione alla Chiesa di Corinto, non è esente dalle conseguenze: quel
Satana a cui ha consegnato il fratello peccatore finisce per ritorcersi contro di lui, separandolo dalla comunità di cui è pastore. Perciò l’apostolo da parte sua perdona e invita gli altri a fare altrettanto, rimettendosi al giudizio di chi è più vicino all’interessato e invitando
a far prevalere nei suoi riguardi la carità, perché un buon discernimento non è possibile se si è nella tristezza, ma quando si sperimentano i frutti dello Spirito:
amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, mitezza, fedeltà (cfr
Galati 5,22). Qui Paolo richiama e mette in pratica la comunione nella diversità dei carismi e l’inno alla carità, vertice e cuore della lettera precedente (cfr
1Corinzi 12-13), da non confondere con la beneficenza. Si tratta infatti dell’
agápe, parola greca usata per indicare l’amore come essere stesso di Dio (
1Giovanni 4,8), di cui la carità cristiana, nel modo descritto dall’inno di Paolo, è manifestazione.
Il primato della coscienza
Un’altra questione sollevata dai Corinzi è quella degli idolotiti, le carni sacrificate agli idoli, che venivano consumate nei banchetti durante le feste o vendute al mercato. Si possono mangiare? O consumarle significa associarsi al culto degli dèi e peccare di idolatria?
Paolo risponde che per i cristiani
c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui, mentre gli dèi non esistono (cfr
1Corinzi 8,4-6). Chi mangia gli idolotiti con questa consapevolezza non pecca, ma non tutti hanno ancora raggiunto questa libertà di spirito: alcuni sono abituati a consumare quelle carni come se fossero davvero immolate agli idoli e
così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata (
1Corinzi 8,7). Questi
deboli possono scandalizzarsi nel vedere “i forti” mangiare senza scrupoli gli idolotiti, mentre i più liberi potrebbero insuperbire e cercare di forzare gli altri ad assumere la loro stessa condotta. Cosa fare, dunque? Paolo non ha dubbi: bisogna tutelare il più debole e far prevalere, anche in questo caso, la carità sulla libertà e sulla conoscenza, perché
la scienza gonfia d’orgoglio, mentre la carità edifica (
1Corinzi 8,1). In pratica significa rispettare la coscienza personale e non pretendere che uno conformi il suo comportamento a quello di un altro, anche se migliore, senza convinzione interiore (cfr riquadro).
1Corinzi 8,9-139 Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10 Se uno infatti vede te, che hai la scienza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli idoli? 11 Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12 Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 13 Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello. Anche in questo caso il criterio pastorale di Paolo ha una profonda radice teologica: Cristo ha dato la vita per tutti e grazie al suo sacrificio tutti siamo stati liberati dal peccato, ma l’accesso personale a questa grazia può essere reso difficoltoso dallo
skándalon, parola greca indicante un ostacolo, un elemento di inciampo o una trappola. Nel caso particolare in esame, nella comunità cristiana chi esercita la scienza senza la carità diventa motivo di scandalo e pecca non solo contro il fratello dalla coscienza debole, ma contro Cristo stesso, perché lo separa da chi ha dato la vita anche per lui.
L’apostolo, però, non intende ricondurre la questione alla sola dimensione soggettiva, lasciando che ognuno si regoli come ritiene più opportuno: sarebbe altrettanto disgregante per la comunità. Paolo dice chiaramente che chi non ha scrupoli nel mangiare gli idolotiti, perché ha abbandonato la credenza negli idoli, ha tratto un frutto più maturo dal dono della fede e gode di un grado maggiore di libertà interiore, condizione a cui tutti dovrebbero tendere. Lui stesso, infatti, era stato un persecutore convinto dei primi cristiani e sa per esperienza quali possono essere gli effetti trasformanti della grazia e quale pedagogia dispieghi Dio per far passare gli uomini dalla schiavitù del peccato – dalla quale il rispetto scrupoloso e formale della legge non può liberare – alla libertà dei figli donata per la fede nel Cristo crocifisso e risorto:
non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità (
Galati 5,6).
Pertanto, senza rinunciare a indicare un cammino di crescita nella fede, Paolo invita a rispettarne le tappe per non compromettere il
debole, nella consapevolezza che la dignità della persona, basata sul primato della sua coscienza morale, non viene meno neanche quando, per ignoranza invincibile, non arriva a conformarsi alle norme oggettive della moralità (cfr
Gaudium et spes n. 16 e
RIGGIO G., «Coscienza morale», in
Aggiornamenti Sociali, 2 [2014] 160-163).
Il Sinodo, una “via insieme”
Intervenendo su questioni quali l’immoralità e gli idolotiti, Paolo fa progredire la comunità da lui stesso fondata, aiutandola ad affrontare le esigenze pratiche della vita cristiana. Nel farlo, cresce anche lui nel ministero apostolico, imparando a esercitare il carisma ricevuto nella carità e a coniugare gli aspetti teologici con quelli pastorali.
A partire dai testi esaminati si possono evincere due criteri a cui Paolo si attiene: al rigore che rattrista preferisce il perdono che consola, facendo prevalere la comunione e l’amore, perché la realtà ultima è Dio-
agápe; indica l’atteggiamento più conforme alla fede cristiana, ma non lo impone alle coscienze, rispettandone la libertà, per non ostacolare il cammino di appropriazione personale della grazia offerta a tutti da Gesù con la sua morte e resurrezione.
Questi criteri, opportunamente adattati, possono indicare un modo concreto di esercitare la carità nelle diverse circostanze in cui la Chiesa è chiamata a evangelizzare e aiutarla a rielaborare la pastorale alla luce della teologia della misericordia, applicandola poi all’ambito più specifico della famiglia.