Migranti: le responsabilità dell’Europa

Rosario Sapienza
Verso la fine del 2013 la rivista Popoli pubblicava un mio intervento nel quale sostenevo la possibilità di dimostrare, anche sul piano dell’analisi giuridica, l’esistenza di precise responsabilità dell’Europa nelle stragi di migranti nel Mediterraneo.

Credo che il Consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso abbia chiaramente dimostrato che non esiste una volontà europea di affrontare seriamente la questione migrazioni nel Mediterraneo e che dunque l’Europa debba rispondere, quantomeno, delle sue omissioni. Sì, perché anche se nella Dichiarazione finale si dice che bisogna fare di tutto perché le persone non continuino a morire nel Mediterraneo, le misure che si annunciano si muovono comunque nella logica di un "efficientamento" (come si dice oggi con brutto neologismo) della strategia di contrasto alle migrazioni irregolari e di difesa della frontiera marittima dell’Europa. Insomma, le persone continuano a morire annegate e a nessuno, a Bruxelles o da qualche altra parte in Europa, sembra venire in mente che occorrerebbe prima di tutto cambiare il modo di pensare il fenomeno migratorio. Per esempio, l’Europa si vanta, e giustamente, dei suoi primati in materia di operazioni umanitarie e di sostegno allo sviluppo, ma forse tutto ciò si può fare purché questi aiuti servano a chi sta lontano dai confini europei.

Alle migliaia di migranti che affrontano un viaggio disumano e rischioso per cercare di raggiungere le coste europee si offre invece solo la difesa delle frontiere (perché a questo serve Triton, anche se potenziata). Oppure addirittura si ipotizza di bombardare i barconi in modo che i trafficanti non possano servirsene. Come se il problema non fossero i migranti, ma i trafficanti. Una straordinaria operazione umanitaria sarebbe invece un modo adeguato di affrontare il problema.

La politica di ossessiva difesa delle frontiere, poi, sembra dimenticare che molti (anche se non tutti, certo) tra coloro che raggiungono le coste europee hanno titolo a uno dei diversi regimi di protezione internazionale. Sono insomma, pur tra le pieghe di una normativa internazionale non particolarmente generosa, persone che hanno titolo al riconoscimento dello status di rifugiato o di altri status di protezione internazionale. Né mi pare, ad una prima (ma anche ad una seconda) lettura, che la Dichiarazione accenni al problema della revisione del sistema Dublino III, basato sul principio secondo il quale lo Stato competente ad esaminare la domanda di asilo è quello di primo arrivo. Con il risultato che, siccome non esiste un diritto dei rifugiati alla libera circolazione in Europa, chi approda in Italia dovrà restare in Italia (o in Grecia, se arriva in Grecia) se gli viene riconosciuto lo status di rifugiato. Cosa che in molti casi non corrisponde ai reali desideri di molti migranti, che desiderano spesso raggiungere propri congiunti in altri Paesi europei.

Con il risultato di generare masse di diseredati senza documenti o con i polpastrelli bruciati che appena sbarcati cercano di rendersi irreperibili per recuperare così uno straccio di “libera circolazione” anche se nella clandestinità. Problema distinto da quello dei flussi migratori, perché la sua vera causa risiede nelle cosiddette “politiche di accoglienza” pensate dall’Europa per consentire agli Stati di scegliere rifugiati “graditi”.
13 maggio 2015
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