Mia madre

Nanni Moretti
01 Distribution, Italia 2015, Drammatico, Durata: 106 min.
Scheda di: 
Fascicolo: novembre 2015
Un gruppo di operai assalta l’ingresso di una fabbrica con l’intenzione di entrare; la polizia in assetto antisommossa li affronta duramente, mentre nel caos generato da idranti e fumogeni si sente gridare in lontananza «Lavoro per tutti! Lavoro per tutti!». La parola «Stop» urlata da un megafono interrompe improvvisamente la scena. In pochi istanti lo spettatore si rende conto di trovarsi di fronte a finzione cinematografica: sta vedendo un “film nel film”, non la realtà di un’occupazione operaia.

Con queste immagini concitate inizia Mia madre, la dodicesima pellicola di Nanni Moretti dedicata alla difficoltà di accettare la perdita dei propri genitori. Il film, molto apprezzato a livello critico, si distanzia in modo radicale dal tradizionale percorso del regista, affiancando due riflessioni parallele e due registri profondamente differenti. Si può dire, infatti, che Mia madre contenga due film: il primo racconta i legami familiari della regista Margherita – con la madre malata, con il fratello Giovanni, con la figlia, con il compagno – e il secondo la sua vita professionale, attraverso la lavorazione di un film politico, resa difficile dai rapporti complessi con la star americana protagonista. Alla prima riflessione, legata ai temi familiari, Moretti dedica sempre più spazio col proseguire della pellicola, usando un registro compito e stranamente caldo, dimenticando – cosa rara in un regista spesso maniacalmente legato alla costruzione tecnica dell’immagine – di ricorrere a migliorie fotografiche e accorgimenti visivi. La seconda riflessione, che appare centrale nella prima metà del film e che poi, man mano, si perde, riguarda invece il cinema e la domanda, non troppo latente, se sia sensato, oggi, fare cinema politico e se ci siano ancora spettatori a cui interessa riflettere su questi temi.

La parola chiave attorno alla quale in estrema sintesi si potrebbe racchiudere l’intera pellicola è “inadeguatezza”, ovverosia l’incapacità di Margherita di assumersi la responsabilità di diventare punto di riferimento per le altre persone, sia sul set, dirigendo gli attori e scegliendo come girare le scene, sia in ambito familiare, affrontando il passaggio dalla generazione di mezzo (i cinquantenni) a quella degli ultimi depositari di una memoria familiare.

Simbolo di questa memoria generazionale, di questo sistema di valori familiare, è il latino, insegnato dalla madre di Margherita, ma che lei non riesce a insegnare a sua figlia che frequenta il liceo classico. Attraverso piccole sequenze quotidiane, il film si interroga su che cosa viene trasmesso da una generazione all’altra. La protagonista sembra non accettare quel ruolo di formatrice ed educatrice a cui viene spinta dalla malattia e dalla morte della madre e fugge dalle proprie responsabilità immergendosi nel lavoro, sul set cinematografico, simbolo della finzione umana, racconto che agisce più come fuga dalla realtà che come suo approfondimento: lo dichiara esplicitamente il personaggio dell’attore Barry Huggins durante un ciak malriuscito, quando urla «Fatemi tornare alla realtà!». La missione di fare un film politico, che tutti possano vedere e apprezzare, sembra allontanare Margherita dalla vita vera, dai suoi problemi spesso ridicoli e dai suoi doveri di madre e figlia.

Margherita è però disorientata anche sul lavoro come nella vita e il set diventa metafora del suo smarrimento esistenziale: quali valori dovranno essere trasmessi alla figlia, quando la nonna sarà morta? Lungo tutto il film, Margherita e suo fratello Giovanni devono infatti elaborare in anticipo il lutto per la morte della madre, certi che non può essere curata, ripercorrendo la vita con lei tra sogni e ricordi, tra presente e passato, in sequenze nelle quali Moretti gioca a far vivere allo spettatore lo stesso smarrimento vissuto dalla sua protagonista. Bilancia la drammaticità dell’opera, in chiave comica, la vanità gigionesca di Barry Huggins interpretato da Turturro, che regala una prestazione di irresistibile verve, affiancando pantomima e teatro dell’assurdo. Ma anche questo personaggio, che inventa aneddoti immaginari (una fantomatica collaborazione con Kubrick), è un uomo che vive il dramma personale di essere affetto da un disturbo cognitivo, cercando, attraverso la recitazione, di allontanarsene.

Tutti i personaggi del film, in qualche modo, sembrano essere posti di fronte alla stessa scelta: l’accettazione dei propri limiti oppure la fuga in un mondo fittizio. Dando una lettura simbolicamente negativa si potrebbe dire che Margherita sia fuggita sul set, al contrario del fratello che ha deciso di prendere un periodo di aspettativa dal lavoro per vivere a fianco della madre; tra la realtà quotidiana (fatta di bollette smarrite, visite in ospedale e impegni con la badante) e la finzione cinematografica, lei sembra aver scelto quest’ultima. Verrebbe da azzardare che il cinema in Mia madre sia immagine delle tante finzioni che ogni persona frappone tra sé e la tragedia della morte: racconti, fantasticherie e sogni che aiutano ad allontanare la “tragedia ultima”.

Allargando l’orizzonte di riflessione oltre Mia madre, la senilità pare diventata il centro della riflessione cinematografica italiana, come dimostrano Youth di Paolo Sorrentino e anche il terzo film italiano a Cannes 2015, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, che in forma di fiaba racconta delle fughe dalla vecchiaia. Se il dato sociologico di una società ormai invecchiata non può che restituirsi in interpreti dai corpi segnati dal tempo, la contemplazione del “vecchio morente” diventa specchio di una generazione (in maniera più marcata nel caso di Sorrentino) che transita dall’essere “nuovo cinema italiano” all’essere una “vecchia guardia”.

Non a caso la galassia dei film d’autore si è incarnata, negli ultimi anni, nei volti dei non più giovani Toni Servillo, Renato Scarpa, Roberto Herlitzka, che dalle Sette opere di misericordia dei fratelli De Serio, passando per Habemus Papam dello stesso Moretti sino alla Grande bellezza di Sorrentino diventano protagonisti (o co-protagonisti) di un discorso sulla fine. Quasi a dire che se c’è un’immagine di questi anni nel nostro Paese è quella di un uomo incanutito con più passato che futuro.

Moretti in Mia madre sembra sottolineare la necessità di accettare la morte. Le due sequenze oniriche che mostrano l’anziana donna fuggire dall’ospedale e poi vestirsi con i propri abiti funebri cercano di rappresentare, in forma poetica, la finitezza della vita umana. La bravura del regista romano sta però anche nel differenziarsi da un’altra opera che in maniera molto chiara affrontava il tema della morte e dell’anzianità, Amour di Michael Haneke. Moretti decide sì di raccontare un tabù della società contemporanea come l’invecchiamento e, soprattutto, la malattia, ma al contrario del regista austriaco opta per uno stile più compito, rispettoso del dolore dei propri personaggi. La morte non viene rappresentata sulla scena ma viene dapprima fatta presagire e poi raccontata a parole.

Se nel cinema di Moretti non sono una novità le digressioni metacinematografiche – da Sogni d’oro ad Aprile –, è molto più raro trovare una marcata traccia autobiografica, come quella che si palesa invece in Mia madre. A differenza di opere come Caro diario o Aprile, in cui si metteva direttamente sulla scena – caratteristica che lo accomuna a Woody Allen e che per entrambi i registi ha fatto più volte ricorrere al termine inglese autofiction –, in questo caso Moretti proietta le proprie nevrosi e le proprie fobie su Margherita, regista disorientata che ripete senza sosta ai suoi attori il motto brechtiano di recitare al lato del proprio personaggio, mentre nella figura della madre morente, professoressa di latino in pensione, e nelle ambientazioni del film si possono trovare molti aspetti del passato del regista romano. Per parlare di un tema così importante sembra quasi che il cineasta voglia mettersi da parte, allontanandosi dal centro della scena, per offrire un racconto autobiografico più mediato.

Il tentativo, in Mia madre, di trovare una strada rispettosa per parlare della morte, punta sulla quotidianità anziché sulla tragedia, allontanandosi radicalmente dal narcisismo comico che aveva caratterizzato il percorso di Moretti fino a quest’opera. Se gli ultimi suoi film, Il caimano e Habemus Papam, avevano l’aspetto di film profetici – e in fondo lo sono stati –, Mia madre sembra più un diario personale, che punta a raccontare una storia universale partendo da piccoli dettagli personali; una via cinematografica certamente più azzardata (per molti aspetti tecnici anche meno riuscita) ma infinitamente più viva e personale.


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