«Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo». Questa frase icastica di George Santayana, poeta e saggista di origine spagnola, incisa in diverse lingue all’ingresso del campo di concentramento di Dachau, evidenzia l’importanza di fare i conti con la propria storia, anche nei suoi aspetti più oscuri e inquietanti. L’affermazione rimanda, indirettamente, alle resistenze che il fare memoria incontra in ognuno di noi. C’è, infatti, una tendenza irriflessa a dimenticare esperienze dolorose, subìte o inflitte: «È così spontaneo, dopo aver attraversato tempi difficili, il voler rimuovere a ogni costo il ricordo spiacevole della sofferenza, come se fosse non solo umiliante, ma anche non conforme alla verità personale. Si deve far finta che niente sia stato, così da dare a se stessi l’immagine dell’eterno vincente» (Bovati P., Il libro del Deuteronomio [1-11], Città Nuova, Roma 1994, 121). Una constatazione che vale non solo per i singoli individui, ma anche per interi popoli che possono scivolare – talora in modo inconsapevole – nell’oblio del proprio passato, anche recente.
Contrariamente a tale tendenza, è necessario ricordare la storia, facendola oggetto di uno sguardo critico, che porti a sanare le ferite della memoria personale e collettiva. «Che cosa accadrebbe se gli uomini un giorno si difendessero contro le disgrazie del mondo soltanto con l’arma della dimenticanza, se costruissero la loro felicità soltanto sulla dimenticanza, su una cultura dell’amnesia, in cui soltanto il tempo può guarire le ferite? Di che cosa si alimenterebbe ancora la rivolta contro la insensatezza della sofferenza innocente e ingiusta nel mondo, che cosa ispirerebbe ancora l’attenzione per il dolore altrui e per la visione di una nuova e più grande giustizia?» (Metz J.-B., Dove era Dio?, Queriniana, Brescia 2007, 59-60).
Da quanto detto emerge il lato negativo dell’oblio, quasi una capitolazione di fronte alle varie ingiustizie in nome di una tranquillità effimera e posticcia. Si deve, tuttavia, aggiungere che non sempre il ricordo del passato è positivo, anzi in taluni casi l’oblio svolge una funzione liberatrice. Infatti, il ritornare con la memoria al passato può risolversi in un deleterio rimuginare sui lati oscuri di quanto vissuto, che finisce per avvitare in una spirale di sensi di colpa, che servono solo a ripiegarsi su se stessi, oppure per alimentare rancori, risentimenti e desideri di rivalsa. È necessario superare ciò che impedisce la riconciliazione con il proprio passato, con se stessi e con gli altri. Si tratta di prendere le distanze da quella forma di «ricordo negativo che pretende di legare irreparabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l’animo al ricordo bruciante di tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non ne hanno colpa alcuna, perpetuando così la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie» (Magris C., La storia non è finita, Garzanti, Milano 2006, 153). Dalle brevi considerazioni svolte risulta che memoria e oblio sono tra loro inscindibilmente intrecciati. È dunque richiesto un lavoro articolato tra questi due poli, per assicurare una giusta distanza rispetto al passato.
Memoria e racconto
Il filosofo francese Paul Ricœur (1913-2005) ha dedicato un’ampia e articolata riflessione alla problematica richiamata sopra. Il suo contributo consiste nell’aver messo a fuoco la fondamentale relazione intercorrente tra memoria e racconto (La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003). Dietro a quelle che chiama le “malattie” della memoria, egli riconosce l’azione paralizzante esercitata dalla “ossessione del proprio passato”. Da una parte, ci sono coloro che rimangono bloccati dal ricordo delle ferite patite in un tempo più o meno lontano. Diventano prigionieri di una sorta di fissazione paralizzante su ciò che è stato. Dall’altra parte, c’è chi, per fuggire davanti al ricordo angosciante del passato, cerca rifugio nell’oblio. Per fronteggiare una simile deriva – cadere in un eccesso o in un difetto di memoria – è indispensabile pervenire a una sufficiente unità interiore tra quello che siamo stati e la nostra condizione attuale. Ciò comporta la capacità di attuare una elaborazione critica dei ricordi.
Ricœur fa intervenire qui la nozione di “identità narrativa”. Gli avvenimenti del passato, per essere padroneggiati, necessitano di convertirsi in parola. Ora, è nel racconto che la memoria si trasferisce nel linguaggio. È nel raccontare che possiamo giungere a una sana considerazione della nostra identità. Ma, che cos’è un racconto? È interpretazione, è costruzione di una storia. Da una parte, è fondato sulla memoria delle circostanze vissute; dall’altra, opera una loro inserzione in una “trama” (o “intreccio”), cioè le dispone all’interno di una struttura unificante, che collega le diverse fasi del racconto e le organizza in una storia continua. È nel raccontare, così inteso, che si esercita la rielaborazione della memoria. Questo lavoro interpretativo – precisa Ricœur – comporta il “raccontare diversamente” le vicende del passato, il raccontarle anche dal punto di vista dell’altro. È necessario, per così dire, confrontare le memorie, per giungere a una presa di distanza critica da ciò che è stato, così da ridire il vissuto da una prospettiva più ampia e pervenire a una sua più profonda intelligenza.
La memoria in Israele
La tematica del ricordo – affrontata fin qui da un’angolatura antropologica – occupa un posto di rilievo nelle tradizioni religiose di Israele. Una menzione particolare merita il libro del Deuteronomio, in cui ricorrono con insistenza i verbi “ricordare” e “(non) dimenticare”. Il libro si presenta come una serie di “discorsi” tenuti da Mosè alle soglie della terra promessa. Dopo il lungo cammino nel deserto, egli esorta gli israeliti a rinnovare l’adesione al Signore facendo memoria degli eventi passati. In tal modo, li spinge a riappropriarsi del senso della storia che hanno vissuto, nella convinzione che non potranno conservare la libertà e la vita ricevute senza il ricordo vivo dell’azione salvifica di Dio.
Mosè rimanda ripetutamente all’evento che è a fondamento dell’esistenza di Israele: la liberazione dalla schiavitù egiziana (Deuteronomio 4,9.20.23; 5,15; 6,12; 8,11.14.18-19; 15,15; 16,3; 24,18). Il ricordo dell’intervento mirabile di Dio, che ha sottratto i suoi dall’oppressione del faraone, deve essere continuamente alimentato, quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai (Deuteronomio 6,7). Un aiuto fondamentale a non dimenticare è dato dal comando del sabato. Astenendosi in quel giorno da ogni opera, Israele proclama che la salvezza non è prodotta dal lavoro delle proprie mani, ma solo da ciò che il Signore ha gratuitamente operato. In tal modo, il sabato si caratterizza come il giorno della memoria. L’israelita, celebrando il ricordo di ciò che fonda la sua identità, afferma di essere libero perché è stato liberato. Riconosce che al “fare”, proprio dei sei giorni, deve accompagnarsi il ricordo del “ricevere”, che caratterizza il settimo giorno.
Sostiamo su due testi del Deuteronomio, che documentano lo stretto legame intercorrente tra memoria e racconto, di cui ha parlato Ricœur. Il primo testo è Deuteronomio 6,20-25 .
Deuteronomio 6,20-25
20Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore, nostro Dio, vi ha dato?»,21tu risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente.22Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa.23Ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci.24Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore, nostro Dio, così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi.25La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore, nostro Dio, come ci ha ordinato».
Di fronte al figlio che domanda il “perché” di norme di cui non conosce il significato, il padre risponde raccontando la storia dei “padri”, al centro della quale spicca il ricordo dell’esodo. Parla così della propria origine e di quella di ogni israelita, narrando il passaggio dalla schiavitù alla libertà e alla vita, ricevute come dono di cui ognuno è reso responsabile. L’altro testo da considerare è
Deuteronomio 26,5-11 di cui ci siamo già occupati in un precedente intervento (cfr Teani M., «Disarmarsi», in
Aggiornamenti Sociali, 8-9 [2018] 602-605). Esso riporta le parole che l’israelita pronuncia nell’atto di offrire al Signore le primizie del raccolto. Anche in questa circostanza, mentre i primi frutti vengono deposti ai piedi dell’altare, egli narra la sua storia, riconoscendo di appartenere a un popolo nomade, che non aveva un territorio proprio dove risiedere. Riconosce che la terra in cui abita e da cui trae il proprio sostentamento non è un possesso dovuto, ma è il risultato di un intervento gratuito del Signore, che
ci ha fatto uscire dall’Egitto, con mano potente e braccio teso (v. 8). I due testi richiamati sono un chiaro esempio di come Israele abbia elaborato la propria identità attraverso il racconto della propria storia (cfr anche
Giosuè 24,1-13 e
Neemia 9,7-25).
La memoria del peccato
Nella rievocazione degli eventi del passato, è riservato uno spazio rilevante alla memoria del peccato. È ancora una volta Mosè ad ammonire gli israeliti a non dimenticare di essere stati ribelli al Signore da quando usciste dalla terra d’Egitto fino al vostro arrivo in questo luogo (Deuteronomio 9,7). Il peccato è qui presentato non come un incidente di percorso, bensì come una condizione strutturale, nella quale tutti si trovano invischiati. Se gli israeliti sono sollecitati a rileggere la loro storia riconoscendo che è stata segnata fin dall’inizio dall’infedeltà, sono condotti, al contempo, a riconoscere come essa sia incessantemente rimessa in moto dal perdono del Signore, che non guarda alla caparbietà di questo popolo e alla sua malvagità e al suo peccato (Deuteronomio 9,27). È così tracciato un itinerario di lettura del proprio passato, in cui la misericordia di Dio è riconosciuta presente e operante all’interno di una storia di peccato. Gli israeliti imparano a raccontare le vicende trascorse, rielaborando la loro memoria a confronto con la lettura proposta da Mosè (a confronto con la prospettiva dell’“altro”, per dirla con Ricœur), nella cui voce risuona la parola del Signore. In questo modo, sono aiutati a interpretare in chiave di speranza il loro passato di indurimento e infedeltà.
Quanto detto trova un’illustrazione pregnante nel Salmo 106. L’orante confessa la comune solidarietà con la colpa dei padri (v. 6), i quali dimenticarono le meraviglie operate dal Signore in Egitto (vv. 7.13.21). Contemporaneamente, riconosce l’amore incondizionato di Dio, che, a differenza del suo popolo, sempre si ricorda della sua alleanza (v. 45). «Il Salmista nel Salmo 106 racconta. La narrazione è per definizione resoconto del passato; tuttavia nel momento stesso in cui si rievocano gli eventi avviene un processo incessante nell’anima del narratore, che è per così dire guarito dalle sue stesse parole. Perché narrare è terapia di verità, e la verità è la rivelazione di un amore eterno nella trama del peccato. La storia è sacra perché consacrata dalla misericordia, e l’orante ne accoglie tutte le componenti, così che nulla dell’amore divino venga dimenticato, così che tutta la benevolenza sia non solo celebrata, ma venga pure assimilata» (Bovati P., «“Abbiamo peccato come i nostri padri” [Sal 106,6]», in Ficco F. – Mazzinghi L. – Papola G. [edd.], La vita benedetta, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2018, 281-305, qui 292-293).
Fare memoria si caratterizza come un processo dinamico, che genera una nuova comprensione del proprio vissuto. «La memoria guarda avanti, si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro» (Magris C., La storia non è finita, 155). Ricordare non significa rimanere ancorati a un passato lontano, ma fare tesoro di ciò che è stato per orientarsi verso un avvenire inedito. Un simile lavoro interpretativo chiama in causa l’interiorità personale, perché può svolgersi appieno se si è unificati e riconciliati. Se l’intimo dello stolto è come un vaso rotto che non tiene nulla (Siracide 21,14), quello del sapiente è recettivo, aperto nei confronti di prospettive “altre”. In gioco è sempre il “cuore” (ri-cord-are significa conservare nel cuore), il luogo nascosto in cui avviene il discernimento. Nel modo in cui nel cuore si fa memoria del proprio passato, ne va del proprio presente e futuro.