Manchester by the sea

di Kenneth Lonergan
USA 2016, drammatico, durata 135 min.
Scheda di: 
Fascicolo: dicembre 2017

La quotidianità può diventare un freddo mare grigio in cui lasciarsi annegare in compagnia del proprio dolore, oppure può essere il luogo dove provare a riemergere, trovare un appiglio fuori dall’acqua e riscoprirsi uomo. Girando Manchester by the sea il regista Kenneth Lonergan decide di sedersi proprio sulle sponde di questo gelido mare invernale. Nei primissimi minuti del film la macchina da presa scruta le onde che si riflettono sulle ventose coste del Massachusetts, e posa l’obiettivo su una piccola vecchia barca. A bordo due uomini e un bambino stanno pescando. «Se dovessi portare con te su un’isola deserta una sola persona, un uomo in gamba che ti fa sentire protetto e felice, tra me e tuo padre chi sceglieresti?» chiede allegramente zio Lee al nipote Pat. «Mio padre!» grida il bimbo con sicurezza correndo verso il papà.

A partire da questo breve flashback iniziale, il film comincia a raccontare timidamente il personaggio di Lee Chandler, ruolo che è valso a Casey Affleck il premio Oscar 2017 per il miglior attore e a Lonergan quello per la miglior sceneggiatura originale. Lee è un giovane uomo, ferito dalla lacerante perdita dei suoi tre figli a causa di un incendio da lui stesso distrattamente appiccato alla propria abitazione. Dopo una notte brava trascorsa con gli amici, nell’intento di prendersi cura della sua famiglia scaldando la propria vecchia casa con l’ausilio del fuoco nel camino – la ragione già annebbiata dall’alcol – la tragedia era stata inevitabile. “Fuggito” nella vicina Boston in seguito a questo evento drammatico, torturato dal senso di colpa e dalla violenta separazione dalla moglie Randy, ora vive nel seminterrato di un condominio nel quale lavora come tuttofare e custode. Quello che ha da custodire, tuttavia, si riduce alle noiose lamentele di molti frustrati condomini, ognuno alle prese con la propria isteria quotidiana.

Nei primi minuti del film giunge da Manchester una telefonata che lo informa della morte del fratello Joe, da anni affetto da una malattia cardiaca degenerativa. Lee è quindi obbligato a precipitarsi di nuovo nel luogo del suo passato, per gestire una situazione difficile che tuttavia riuscirà a stupirlo come soltanto l’imprevedibilità delle relazioni umane è in grado di fare. Viene a sapere infatti che Joe, uomo buono e amato da tutti, non gli ha lasciato in eredità soltanto l’amministrazione dei suoi beni ma anche la custodia del proprio figlio Pat, ora adolescente, data l’ormai pluriennale assenza della madre di quest’ultimo.

L’incontro con Pat dischiude per Lee un terreno nuovo all’interno del quale ricominciare a fare i conti con se stesso, costringendolo a lottare contro le sue cicliche crisi depressive e le violente risse da pub attraverso cui ancora si manifesta l’ombra del suo insopportabile passato. Tra zio e nipote si scorge fin da subito la presenza, discreta ma palpabile, di un’affettuosa e personalissima forma di intesa, che si esprime attraverso una beffarda ironia nei confronti della società. Bersaglio del loro pungente (e talvolta esilarante) sarcasmo è, ad esempio, la compostezza imbarazzata dei medici di fronte alla morte del loro caro; o ancora la fasulla compassione di un agente di pompe funebri, intento a spiegare loro che la sepoltura di Joe potrà avvenire solamente in primavera quando il terreno sarà più morbido per poter scavare una fossa.

L’intelligenza, la vivacità e l’acume del nipote, spesso incurante del giudizio altrui, spinge Lee a identificarvisi e a guardare con simpatia e nostalgia alle molte attività di Pat, senza però riuscire mai a mandare in frantumi quella barriera di dolore e silenzio che egli indossa come un abito, e che a tratti sembra ispessirsi durante il suo soggiorno a Manchester. Lo spettatore se ne accorge grazie all’infittirsi dei flashback che con grande naturalezza contaminano il filo narrativo principale. Una parola, un gesto o un dettaglio del paesaggio sono sufficienti a far sì che Lee ripercorra i propri errori di un tempo, l’alcolismo e la trascuratezza, ma anche i bei momenti vissuti con il fratello sul mare, l’amore per l’ex moglie Randy e per i loro bambini.

Il prepotente venire a galla di questo passato irrisolto, che lo costringe in una posizione di emarginazione rispetto alla diffidente comunità della piccola cittadina di Manchester, attualizza e sottolinea il dilemma che lo attanaglia: è opportuno accogliere l’invito del fratello defunto a farsi carico della custodia di Pat? La responsabilità che egli percepisce come inaggirabile («Se non io chi?») si scontra simmetricamente con la coscienza – non del tutto ingiustificata – della propria inaffidabilità e inadeguatezza («Non posso essere io il suo tutore. Voglio dire… non posso!»).

Di fronte alla complicata trama di una realtà che sembra senza punti di riferimento, la prima reazione di Lee è quella di sistemare le cose mediante un approccio funzionale e distaccato, che minimizzi le perdite e massimizzi il profitto. Nell’impossibilità di sopportare l’idea di trasferirsi di nuovo a Manchester, ma non trovando nessun altro parente sufficientemente vicino cui affidare il nipote, Lee sembra risolversi ad accettare il suo ruolo di tutore a condizione che Pat si trasferisca a Boston con lui (contrariamente alle indicazioni di Joe, il quale aveva immaginato il futuro di Pat a Manchester). Lo scontro con il ragazzo, già preparato da diversi attriti, diviene a questo punto inevitabile: «Tutti i miei amici sono qui! Sono nella squadra di hockey e in quella di basket. Ora devo mantenere la nostra barca; lavoro sulla barca di George due giorni a settimana, ho due ragazze e sono in una band. Tu fai il custode: che diamine ti importa dove vivi?!» sbotta Pat all’ennesimo tentativo di Lee di ignorare l’importanza del suo progetto di vita.

Tutta la pellicola ruota intorno a questo tormentato scontro tra il dovere della responsabilità e il senso di colpa, una frattura interiore di cui Lee diviene progressivamente più consapevole. Lo spettatore si rende ben conto, da un lato, dello sconfinato affetto che lo zio prova per il nipote: indimenticabile è quello sguardo afflitto ma tenero e preoccupato con cui veglia su di lui, tanto da arrivare a prendere a calci una porta sbarrata per accertarsi che il ragazzo non si faccia prendere dal panico dopo la morte del padre («Stai avendo un esaurimento? Devo portarti all’ospedale?» «No, no!… Sto solo... impazzendo.» «Ok, bene. Solo… non posso lasciarti impazzire con la porta chiusa!»). Dall’altro, però, incombe il fardello del protagonista, un dolore che nessuna ingenua buona intenzione può arginare o giustificare. L’esperienza del male gratuito e fuori controllo, scaturito dall’azione del singolo ma al contempo irriducibile alla mera colpa personale, pare incatenare l’uomo all’abisso dell’insensatezza della propria esistenza.

Un abisso ai margini del quale Lonergan dimostra di saper indugiare con delicatezza, per provare a tracciare un sottile orizzonte di speranza. L’essenziale quanto dettagliata e realistica scrittura è accompagnata da una colonna sonora riflessiva, che avvolge lo spettatore con liturgiche melodie intonate a cappella e dolci adagi per archi e organo, sfondo di questa specie di lungo atto penitenziale cui si sottopone il protagonista. Fa capolino così la possibilità del perdono come unica via di uscita dalla prigionia di quelle stesse circostanze marchiate dalla vergogna dell’imperdonabile. L’avvento inatteso della ex moglie, Randy, interpretata da una struggente Michelle Williams, dà spazio a un dialogo lacerante che lascia lo spettatore letteralmente senza fiato. Il penoso rammarico di entrambi si incarna in un corpo a corpo fatto di parole balbettate, nel tentativo di scambiarsi un perdono che i due sanno che non potrà mai coincidere con la rinuncia al desiderio di vendetta o con il semplice colpo di spugna con cui talvolta l’amore, pur nella sua infinita compassione, rischia di voler frettolosamente curare le ferite di un «cuore spezzato».

Ma se per lei la nascita di un altro figlio all’interno di una nuova relazione si configura, per usare le parole di Hannah Arendt, come «il miracolo che preserva il mondo […] dalla sua “naturale” rovina» (cfr Vita Activa, cap. V. par. 33, 1964) restituendole la facoltà di agire in modo, seppur sofferto, finalmente inatteso e libero dalla reiterazione della vendetta, per lui il cammino è ancora lungo. Laddove nello spazio intimo di un amore sopravvissuto Randy può perdonare in quanto detentrice dell’incontestabile diritto di punire (anche solo emotivamente) Lee, quest’ultimo resta incapace di accogliere una proposta di riparazione che non rispetti i propri ritmi interiori. Ritmi che forse si riattivano in parte al tempo del rockeggiante e spensierato sound della band di Pat e della freschezza del suo sguardo giovane ma esigente. Si tratta di una rinascita di altro tipo, del tentativo dagli effetti velati di mistero e – fino all’ultimo fotogramma del film – imprevedibili di ricercare uno stile proprio, creativo e personale attraverso cui rispondere alla vocazione di farsi nuovamente custode, cui lo ha chiamato il fratello Joe. Un piccolo passo verso l’accoglienza di un imprevisto atto di misericordia, esterno a ogni autocentrata recriminazione e impresso come sigillo indelebile sulle pagine di un testamento. Misericordia già dispensata e gratuitamente portatrice di un’identità da ricostruire, fosse anche soltanto aprendo alla novità una piccola stanza, nella propria casa e nel proprio cuore.


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