Il titolo è volutamente provocatorio, di quelli che non passano inosservati sugli scaffali delle librerie e sulle pagine social. Quasi “esagerato” verrebbe da dire. Ma dopo aver letto il libro, si capisce che quel titolo è esattamente il “suo”. Chi è un maledetto? È colui del quale, secondo l’etimologia latina, si parla male, che viene insultato, ed è esattamente il destino a cui nel dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina vanno incontro i pacifisti, bollati come collaborazionisti di Putin, inseriti in elenchi che assomigliano tanto alle liste di proscrizione, nemici della patria, quando osano dire che per risolvere un conflitto si può provare a parlare di pace, di negoziato, di accordi, di dialogo… che ricordano come in ogni guerra alla fine le vittime vere, numerose e costanti siano sempre e solo i civili.
Eppure, come scrive l’autore Nico Piro, inviato di guerra per il TG3, uno dei maggiori esperti del conflitto afghano, vincitore di premi giornalistici per il suo lavoro sui teatri bellici mondiali, uno che la guerra l’ha vista davvero e non solo dal divano di casa sua, sembra che in Italia l’unico pensiero ammesso, nel dramma dell’Ucraina, sia esclusivamente quello a favore della guerra, quello che lui definisce “Pensiero unico bellicista”: «Dal 24 febbraio in poi […] nel nostro Paese viene abolito il dubbio (sulla guerra come strumento di risoluzione delle controversie) e vengono cancellate le voci a favore della pace» (p. 68). Basta però riflettere su quanto sta accadendo, per capire che in questa narrazione qualcosa non va: l’esaltazione della guerra, della vittoria, abilmente giocata come una strategia di marketing, fomentata dai talk show e dai social, non fa altro che «evitare un vero momento di riflessione nella politica e nell’imprenditoria italiana sull’etica delle relazioni internazionali, spostando l’attenzione su quei “maledetti pacifisti”» (p. 152).
Dopo l’11 settembre, vent’anni di conflitti non sono evidentemente bastati a risolvere i problemi del mondo, li hanno solo aggravati (Afghanistan docet), tuttavia «davanti alla tragedia dell’Ucraina, non abbiamo fatto altro che sposare le ragioni di un altro conflitto, che a sua volta inizia a cronicizzarsi, dal quale diventa sempre più difficile tirarsi fuori, una barbarie dalla durata indefinita candidata all’oblio mediatico» (p. 156). Non si può parlare di guerra senza averla conosciuta davvero per quello che è: «merda, sangue, morte e dolore» (p. 12). Vanno ritrovate le ragioni della pace, intesa come qualcosa che esiste in sé e che non è solo il prodotto della non-guerra. La violenza non è una medicina per risolvere i conflitti, non fa altro che uccidere il paziente. Pensiamoci: vogliamo davvero che i nostri figli, i figli di tutto il mondo, finiscano schiacciati tra le due alternative di puntare un fucile addosso a qualcuno o di esserne minacciati? È esattamente quanto accade in Ucraina. Da questo tragico dilemma però non si può trovare una via di uscita senza riuscire a smontare la narrazione della guerra come male necessario dall’alto valore morale.