«Ho il diritto di cantare. Ho il diritto di andare al mercato. Ho il diritto di parlare. Avrò la mia educazione – che sia a casa, a scuola, o altrove. Non possono fermarmi». Questa frase rappresenta la personalità di Malala Yousafzai, la giovanissima ragazza pakistana ferita quasi fatalmente dai talebani nell’ottobre del 2012. Malala era divenuta una persona “scomoda” per aver curato un blog-diario per la BBC – in cui denunciava il regime oppressivo dei talebani nella valle dello Swat – e aver rilasciato alcune interviste in cui discuteva la mancanza di diritti delle donne pakistane e ribadiva il suo sostegno nei confronti dell’istruzione femminile.
Il titolo originale del documentario (che racconta la vita di Malala dai quindici ai diciassette anni) è, significativamente, He named me Malala, “Mi ha chiamata Malala”. Come spiegato all’inizio del film, suo padre Ziauddin Yousafzai, insegnante e diplomatico, ha scelto per lei questo nome in riferimento a una leggenda locale, la cui protagonista è una coraggiosa bambina di nome Malalai, che avrebbe ispirato i propri connazionali a mantenere la resistenza durante un conflitto con l’Inghilterra, morendo in battaglia. Il nome e la leggenda sono elementi ricorrenti nel corso del documentario, che segue la vita di Malala in Inghilterra, a Birmingham, dove ha dovuto rifugiarsi dopo l’intervento che le ha salvato la vita, poiché è impossibile, per lei e per la sua famiglia, tornare in Pakistan sotto il regime talebano, che continua a minacciare la sua incolumità.
Del documentario colpiscono il coraggio con cui questa ragazza ha affrontato avvenimenti tanto terribili e la grazia con cui concilia la sua vita di studentessa e le sue responsabilità di attivista e “influencer” a livello internazionale. Ma si è anche colpiti dal fatto che non è stato l’attentato, che ha reso insensibile metà del suo viso e le è costato buona parte delle sue facoltà intellettive, a renderla la personalità straordinaria e influente che è adesso. Malala infatti era già “Malala”; nata in una famiglia “moderna” da un raro matrimonio d’amore, è sempre stata intelligente e matura, appassionata di cultura e educazione, devota alla difesa dei diritti, come il padre, anche lui attivista. E, a chi le chiede se suo padre le abbia imposto una vita “diversa” (e pericolosa) con la scelta del nome e con i propri insegnamenti, risponde orgogliosamente: «[Mio padre] Mi ha chiamata Malala, ma non mi ha resa Malala».
Malala ha raccontato la sua storia nel libro Io sono Malala, nel 2013, anno in cui ha fondato il Malala Fund, un’organizzazione benefica che lavora per garantire il diritto all’istruzione femminile e che dal gennaio 2018 estenderà i programmi di finanziamento anche all’India e all’America latina. Nel 2014, Malala è stata insignita del premio Nobel per la pace, la più giovane vincitrice di sempre.