Fin dalle origini del cristianesimo Maria ha goduto di una particolare venerazione da parte dei credenti: un papiro del III sec. d.C. conserva una delle più antiche preghiere alla Madre di Dio. In questo appellativo è sintetizzata l’unicità di una donna resa grande da una maternità straordinaria, ma la cui figura è spesso tratteggiata in modo irrealistico, che l’allontana dall’esperienza quotidiana. A questo proposito il Concilio Vaticano II esorta «i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione» (cfr Lumen gentium 67).
Se ci si attiene ai testi biblici, Maria emerge come una donna che, nonostante il destino eccezionale, non è stata preservata dalle necessità di una comune esistenza umana, in particolare quella di sperimentare e apprendere: la Vergine ha dovuto imparare a essere la madre di Gesù e lui, a sua volta, a esserne figlio.
Per quanto irripetibile, questa relazione offre molti spunti di riflessione, soprattutto se paragonata ad altre simili descritte dalla Bibbia stessa, come quella fra Eva, Caino e Abele, la prima famiglia della storia biblica. In questo confronto si può rileggere l’esperienza di tante madri e figli il cui rapporto fondamentale, strutturante, presenta spesso dei vissuti non così semplici da rielaborare.
Una maternità compromessa
Uno dei titoli attribuiti a Maria è “la nuova Eva”. A partire da Giustino, un padre della Chiesa del II sec. d.C., il confronto fra le due donne è servito a illustrare il ruolo della prima nella storia della salvezza. Anche un discorso sulla relazione madre-figlio può giovarsene, perché la filiazione da Eva è all’origine della vita sulla terra e di uno stile di rapporti familiari da cui dipende, in parte, un certo andamento degli eventi nella storia.
Ricordiamo la vicenda: Dio aveva ordinato all’umanità di cibarsi di tutti gli alberi del giardino, tranne quello della conoscenza del bene e del male. Eva, ingannata dal serpente, ne mangia il frutto e lo dà anche ad Adamo (cfr Genesi 2-3). Con questo gesto i due progenitori trasgrediscono la legge, percepita come un impedimento da superare per realizzare in pieno il proprio essere limitato. Il senso di quel comando, invece, era di mantenere l’umanità all’interno di una relazione costitutiva con l’altro da sé in quanto elemento necessario alla pienezza, non limitante. Entra così nella storia un modo autoreferenziale di affermarsi, di “crescere e moltiplicarsi”, in cui l’altro non è un soggetto di pari dignità, ma un oggetto funzionale.
Il rapporto con il maschile, attraverso il quale si costituisce e si manifesta la femminilità di Eva, viene alterato e si riflette anche sulla sua maternità. Prima della trasgressione, infatti, Adamo riconosce la differenza di questa nuova creatura, che Dio ha tratto dal suo fianco, rispetto a sé e alle altre a cui ha appena dato il nome dicendo: «Costei si chiamerà donna (’iššâ) perché dall’uomo (’îš) è stata tratta» (Genesi 2,23). Qui la relazione è basata sull’equilibrio fra differenza e somiglianza – sottolineato dal gioco delle parole ebraiche – grazie al quale ciascuno dei due può riconoscere la propria specifica personalità.
Dopo la trasgressione, invece, la donna riceve il suo nome proprio, che, però, non fa più riferimento al rapporto originario e costitutivo con l’uomo, ma alla funzione da lei assunta nella storia in quanto madre: «Adamo chiamò la sua donna Eva, perché lei fu la madre di tutti i viventi» (Genesi 3,20). In questo modo, il nome della donna – che nella mentalità biblica ne esprime l’essere – rappresenta la sua relazione con i figli che, in un contesto esistenziale divenuto autoreferenziale, può anche essere svincolata da quella con Adamo, il quale sembra prenderne atto e avallare la situazione, escludendosi da tale rapporto.
Infatti, la prima filiazione viene descritta così: Adamo conobbe Eva, la sua donna, la quale concepì e generò Caino e disse: «Ho acquistato un uomo con il Signore». Poi partorì ancora suo fratello Abele (Genesi 4,1-2). Pur avendo concepito il primo figlio dal suo uomo, la prima donna dice (e a chi sta parlando? A se stessa!) di aver “acquistato” un uomo “con” il Signore. Adamo è sparito, sostituito da un Dio interpretato come potere assoluto – cioè sciolto da ogni vincolo relazionale – di dare la vita.
Non si tratta di colpevolizzare Eva e tutte le donne in lei, come ha fatto una certa interpretazione misogina di questi testi, ma di smascherare le logiche deleterie secondo cui i progenitori agiscono. Del resto lei è «la donna ingannata, ingannatrice a sua volta poi negata come donna, promossa come madre e infine conosciuta come oggetto. Che può fare un essere-oggetto se non […] possedere infine come è posseduto?». Eva è prigioniera della mentalità fallica del serpente, il quale l’ha ingannata facendole credere di poter accrescere il proprio essere appropriandosi di ciò che non ha e non può possedere (cfr Balmary M., Abele o la traversata dell’Eden, EDB, Bologna 2004, 139-148 e 219-221).
La logica autoreferenziale che elimina dalla filiazione la relazione essenziale con l’altro sesso si riflette nel verbo usato da Eva, «ho acquistato», dalla cui radice ebraica, qānâ, viene anche il nome del figlio, qaîn, “Caino”. “Comperare”, “possedere” sono i possibili significati di questa parola, di cui il primogenito porta impresso nel suo essere il senso economico, la logica di mercato, frutto dell’azione di una madre onnipotente, capace di “acquistare” un figlio usando Dio come partner.
Il racconto della prima filiazione prosegue mostrandoci gli effetti di un tale modo possessivo e autoreferenziale di impostare la relazione madre-figlio: Caino presentò dei frutti del suolo come offerta al Signore; mentre Abele anche lui presentò delle primogenite del suo gregge e il loro grasso. Il Signore considerò Abele e la sua offerta, ma non considerò Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto (Genesi 4,3-5).
Il primogenito è in preda a un comprensibile narcisismo, viste le premesse, e risulta incapace di accettare un “No!” apparentemente immotivato da parte di un Dio costretto a prendere il posto di un padre annichilito di fronte al ruolo materno della donna.
Il racconto non spiega perché l’offerta di Caino venga ignorata e così tende a suscitare lo stesso risentimento e desiderio di rivalsa provato dal protagonista di fronte alla percezione di aver subito un torto. Il lettore è chiamato a distaccarsi dal riferimento narcisistico verso se stesso per capire la pedagogia di Dio, il quale, da vero padre, contrasta la preferenza accordata dalla madre al primogenito con quella donata al minore. Infatti Abele, il cui nome significa “nebbia”, “vapore” o anche “vanità” (cfr Qoelet 1,2), è stato reso insignificante da Eva, anche lui è vittima di un amore materno squilibrato. Se Caino cogliesse l’occasione offertagli di dominare l’istinto narcisistico e vendicativo potrebbe diventare fratello di Abele, superando la relazione possessiva ed esclusiva con la madre (cfr Wénin A., Da Adamo ad Abramo, o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi, EDB, Bologna 2008, 93-112).
A ben vedere, anche se Dio accoglie l’offerta del figlio minore e ignora quella del maggiore, prende più a cuore le sorti di quest’ultimo, chiamandolo ad andare oltre se stesso: Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il fallimento è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Genesi 4,6-7). Il primogenito si dibatte in una comprensibile difficoltà di cui non ha colpa e da cui non sarebbe aiutato a uscire da un atteggiamento paternalistico o giudicante. Perciò Dio dimostra la sua sollecitudine nei suoi confronti rivolgendogli un appello a dominare le emozioni negative, in cui risuona non un rimprovero castrante, ma la fiducia di poter riuscire nell’impresa.
Purtroppo Caino resta chiuso in se stesso, non riesce a venir fuori dalla gabbia dorata dell’amore materno e infatti non risponde al monito del Dio-padre che lo affida alla sua libertà responsabile verso il fratello. Se la parola aveva contraddistinto in origine la possibilità degli umani di entrare in un rapporto privilegiato col potere creatore di Dio (cfr Genesi 1,26-30), è proprio di questa possibilità di interlocuzione che la maternità compromessa di Eva priva il primogenito e il minore. Abele, però, non ha bisogno di esprimersi verbalmente, gli bastano i gesti, perché, in quanto escluso, ultimo, è favorito agli occhi di quel potere che è amore e giustizia insieme.
La nuova Eva e il nuovo Adamo
In Caino si ripete la vicenda dei genitori, anche lui è costretto ad allontanarsi da Dio, il quale, però, lo protegge: Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato (Genesi 4,15).
Più tardi nella storia di Israele la Legge imporrà l’obbligo di consacrare ogni primogenito e il segno di protezione e appartenenza diventerà la circoncisione: Il Signore disse a Mosè: «Consacrami ogni primogenito, quello che apre il grembo tra i figli di Israele, di uomini o di animali: esso appartiene a me» (Esodo 13,1-2). Il rituale avveniva a Gerusalemme, nel tempio, e vi si può scorgere anche la funzione simbolica di esorcizzare ogni possibile possessività dei genitori verso il figlio. Anche su Gesù viene compiuto questo rito (cfr Luca 2,21-24) e così la sua relazione filiale viene da subito collocata, almeno simbolicamente, nel giusto equilibrio fra unità e alterità, in particolare nei confronti della madre. Maria, infatti, potrebbe a ben diritto pensare di aver “acquistato un figlio con il Signore”, perché il suo rapporto con Gesù si svolge in un certo senso in assenza del padre. E invece proprio in questo si manifesta la qualità della sua maternità verginale.
Impostato correttamente nel suo inizio, come si è poi incarnato e sviluppato nel concreto il rapporto madre-figlio? Può aiutarci un testo inedito di Paola Bassani, psicologa, animatrice del Centro Giovani Coppie San Fedele di Milano, scomparsa di recente, rielaborato qui di seguito.
Il primo episodio in cui avviene quel distacco nella relazione da cui Gesù emerge nella sua autonomia di figlio e Maria come madre più consapevole è proprio nel tempio a Gerusalemme, dopo il tradizionale pellegrinaggio annuale. Durante il ritorno a Nazareth, accortisi dell’assenza del figlio nella carovana, Giuseppe e Maria tornano indietro e lo trovano nel tempio a discutere con i dottori della legge. La domanda-rimprovero della madre è carica di tutta l’ansia accumulata nei tre giorni di ricerca: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», ma deve fare i conti con la risposta di un Gesù ormai dodicenne, età in cui il giovane israelita diventa responsabile in prima persona dell’osservanza della legge: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (cfr Luca 2,41-52).
Per la prima volta Maria affronta la lenta fatica di separarsi dal proprio figlio, la pazienza di esserci ma non troppo, di lasciare che trovi la sua strada senza pretendere di conoscerla per lui. Gesù, invece, impara a fare i conti con i limiti, le ansie, le aspettative dei genitori: sentire il conflitto tra il loro bene e i propri progetti gli consente di crescere, di fare delle scelte profondamente personali.
Maria rimprovera Gesù, ma poi sta con i suoi tormenti e le sue gioie, le conserva nel cuore. Cosa significa? Innanzitutto non si lamenta, non si arrabbia: sente lacerarsi le viscere, ma nel profondo sa che il figlio ha ragione. Perciò non si mette a congetturare, a cercare di capire con la testa, ma accoglie i dolori e le ansie nel luogo dell’amore, dove aveva fatto esperienza di fiducia e libertà.
La capacità di Maria di stare con i suoi vissuti, di custodirli ed elaborarli, in psicologia viene definita “capacità negativa”. La funzione della madre in questo senso è fondamentale: deve essere in grado di stare con le emozioni negative, l’ansia, la rabbia, la paura, senza scappare, agirle o sentirsi minacciata da esse, soprattutto senza sentire minacciato il bene che prova nei confronti del figlio. In questo modo gli insegna a non temere il mondo emotivo, ad ascoltarlo, a riconoscere e dare un nome alle emozioni che lui stesso prova e quindi a governarle.
Secondo alcuni studi psicoanalitici recenti l’integrazione fra emotività e corporeità è necessaria per uno sviluppo umano equilibrato, ma non è un evento naturale. L’insediarsi dello psichico nel corporeo è un fenomeno legato al tempo, ai ritmi, al divenire del corpo, di cui il femminile fa esperienza soprattutto nella gravidanza. Pertanto il silenzio di Maria non indica un atteggiamento passivo o rinunciatario di una madre dolce, ma debole, bensì il coraggio di farsi carico del proprio vissuto emotivo di mamma, senza farne oggetto il figlio, come Eva, ma lasciandogli tempo e spazio.
Un altro episodio significativo manifesta il passaggio verso lo stadio adulto della relazione: le nozze di Cana (cfr il riquadro qui sotto).
Giovanni 2,1-5
1 Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2 Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3 Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 E Gesù rispose: «Cosa c’è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». 5 La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà».
La secca risposta di Gesù alla richiesta più o meno esplicita di Maria sembra segnare un’ulteriore incomprensione (tra l’altro è la stessa espressione rivolta a Gesù da un indemoniato! Cfr Marco 5,7). Ma lei non si ferma davanti al suo «No!» e invita comunque i servi a seguirne le istruzioni. Cosa sta facendo? Disobbedisce al Figlio di Dio? Non lo ascolta?
Maria si rivela una donna attenta e tenace: emerge in lei un femminile intuitivo e sempre più sicuro di sé, come se il processo di separazione dal figlio avesse conferito alla madre una maggiore fiducia anche in se stessa, in ciò che è bene fare. Caino, nel suo narcisismo, aveva interpretato il rifiuto di Dio come un’offesa personale. Lei, invece, non fa una piega e dimostra un atteggiamento di grande confidenza verso Gesù, andando oltre le sue parole grazie alla profonda empatia materna con cui ne intuisce i sentimenti più intimi, al punto da poterli anche dolcemente forzare.
Da parte sua, in questo comportamento il figlio non vede più in lei tanto una mamma petulante, quanto una donna che “seduttivamente” lo invita ad agire. Perciò la sua risposta è da uomo, ironica, ha il sapore complice di chi riconosce una sensibilità “altra” da sé, da accogliere e rispettare, alla quale ci si può liberamente adeguare, senza per questo lasciarsene possedere abdicando alla propria. Qui Gesù e Maria non sono più solo madre e figlio, ma una donna e un uomo che portano avanti un proprio progetto con dignità e collaborazione. In quest’ottica, il femminile di Maria non è lo stereotipo della donna, ma un archetipo indispensabile per la realizzazione di ogni essere umano, per la sua reale incarnazione. Da questa femminilità autentica, vergine, deriva una maternità realmente feconda ed efficace.
Per questo, in punto di morte, dalla croce Gesù affida Maria al discepolo amato, anonimo, dicendo alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!», e a lui: «Ecco tua madre!» (cfr Giovanni 19,25-27). Ancora una volta egli fa appello alla femminilità di Maria, a quella dimensione viscerale, profonda, forte e sensibile, capace anche di andare oltre i legami di parentela. Lei, con la sua maternità, ha generato lui come uomo e figlio; adesso lui dona lei al mondo come donna e madre.
Inoltre, offre al discepolo la possibilità di fare la sua stessa esperienza. Infatti, in chiave psicoanalitica, Gesù, uomo e figlio compiuto, presentando Maria al discepolo perché la prenda con sé nella sua casa come madre, lo invita a familiarizzarsi con quel femminile e a integrarlo nel suo maschile, come ha fatto lui, il “nuovo Adamo”.
A partire da questa offerta del figlio, Maria resta per tutti – uomini e donne – l’esempio di una femminilità e di una maternità integra e feconda, di un’umanità pienamente realizzata nella sua capacità di generare nuova vita.