È forse una delle immagini più emblematiche della Terza Repubblica francese. La copertina del Petit Journal del 13 gennaio 1895, disegnata da Henri Meyer, raffigura la cerimonia di degradazione del capitano Alfred Dreyfus, avvenuta nel cortile dell’École militaire di Parigi meno di dieci giorni prima, il 5 gennaio. Le traître, recita la didascalia a piè pagina: il traditore. Giudicato colpevole di spionaggio in favore della Germania imperiale, Dreyfus, militare alsaziano di origine ebraica, tenace fede patriottica e idee moderatamente conservatrici, sta per essere deportato nella colonia penale dell’Isola del Diavolo. È vittima di un grave errore giudiziario, ma l’antisemitismo imperante nell’esercito lo rende il capro espiatorio perfetto. Nell’illustrazione di Meyer, il capitano, ritto sull’attenti, appare smunto, grigio, le labbra piegate all’ingiù. È già stato spogliato dei gradi e delle decorazioni, che infatti giacciono sul selciato ai suoi piedi. Il centro della scena è occupato dalla figura massiccia di un ufficiale dei gendarmi con tanto di elmo piumato, intento a spezzare in due la sciabola d’ordinanza di Dreyfus. Intorno a loro sono schierati oltre quattromila soldati; sulle loro teste, dorata nel cielo monocromo, incombe la grande cupola dell’Hôtel des Invalides.
Roman Polanski si è evidentemente ispirato a questa immagine per l’incipit del suo ultimo film, L’ufficiale e la spia (ma il titolo francese è più esplicito: J’accuse, come il celeberrimo articolo scritto da Émile Zola il 13 gennaio 1898 per denunciare l’ingiustizia subita dal militare). Un progetto inseguito per quasi un decennio, sviluppato in stretta collaborazione con lo scrittore Robert Harris, ricco tanto di possibili implicazioni personali (l’antisemitismo, già affrontato ne Il pianista), quanto dei temi che hanno animato una filmografia lunga ormai più di mezzo secolo (l’ambiguità del reale, l’uomo incastrato in un sadico meccanismo kafkiano che lo sovrasta). Il risultato non ha deluso le aspettative: L’ufficiale e la spia è un film complesso e stratificato, che nasconde le proprie qualità fra le pieghe di una regia estremamente calibrata e priva di virtuosismi.
«Tutti i personaggi e i fatti descritti in questo film sono reali», recita una didascalia all’inizio del film. Alle prese con una vicenda già ingarbugliata di suo – qualcuno ha detto che l’Affaire Dreyfus è il vero feuilleton della Francia di fine Ottocento –, Harris e Polanski si servono delle fonti storiche con una certa disinvoltura, costata al film qualche critica, sfrondando episodi e personaggi e semplificando alcuni passaggi della vicenda, a cominciare dall’eccessivo protagonismo del tenente colonnello Picquart (interpretato con misura da Jean Dujardin) rispetto al grande conflitto politico che si svolse intorno all’Affaire, mobilitando su fronti opposti la società civile e inaugurando, con l’intervento di Émile Zola, l’epoca dell’impegno pubblico degli intellettuali del XX secolo.
Le critiche sono senza dubbio legittime, ma rischiano di peccare a propria volta di semplicismo. Certamente, Picquart è il vero protagonista del film: è lui che per primo si rende conto della grossolana falsificazione delle prove con cui Dreyfus è stato condannato alla deportazione; ed è lui che mette a repentaglio la propria vita, la propria carriera e persino la libertà in nome di un principio di verità. Ma Picquart non è affatto un eroe immacolato. Al di là della relazione adulterina con la lontana cugina Pauline Monnier (Emmanuelle Seigner), sposata a un importante editore parigino, Picquart dimostra di non essere immune dal pregiudizio antiebraico. Nella prima sequenza del film, mentre Dreyfus (Louis Garrel), costretto sull’attenti, protesta a gran voce la propria innocenza, l’ufficiale lo scruta commentando che ha «la faccia di un sarto ebreo che piange per l’oro che non ha più»; più avanti, quando un esponente dello Stato Maggiore gli chiede che cosa abbia provato di fronte a quello spettacolo, Picquart risponde: «Mi sono sentito come quando un corpo sano viene purificato da qualcosa di pestilenziale». «Conosciamo la sua opinione sulla razza eletta», gli ricorderà in seguito un superiore, stupito della pervicacia con cui Picquart intende vedere chiaro nella faccenda. In questo, l’ufficiale interpretato da Dujardin rimanda a una figura ricorrente dell’opera di Polanski (si vedano Jack Nicholson in Chinatown o, in parte, Harrison Ford in Frantic e Johnny Depp de La nona porta): quella di colui che tenacemente ricerca la verità malgrado le apparenze, nel tentativo, spesso vano, di rimettere in ordine un mondo in via di disgregazione. Anche Dreyfus, vittima di un ingranaggio punitivo orchestrato ai suoi danni e di cui fatica a comprendere le ragioni, può ricordare altri antieroi polanskiani, come il Trelkovsky interpretato dallo stesso regista ne L’inquilino del terzo piano o il Władysław Szpilman (Adrien Brody) de Il pianista. E neanche lui, esattamente come Picquart, viene visto con quell’empatia che viene generalmente riservata alla vittima: neppure quando nel finale, ormai riabilitato, giustamente protesta che gli vengano riconosciuti ai fini dell’avanzamento di grado gli anni trascorsi nella colonia penale.
Dreyfus e il suo Affaire diventano quasi un pretesto per descrivere una società profondamente malata (lo scandalo si colloca a metà strada fra il 1870 e il 1914, tra la guerra franco-prussiana e il primo conflitto mondiale), a caccia di un capro espiatorio per ritrovare vigore e compattezza. Nella Terza Repubblica messa in scena dal regista si respira un’aria mefitica. Lo Stato Maggiore dell’esercito francese è ritratto con l’acume fisiognomico di un Daumier: corpi flaccidi, abulici, minati dalla malattia; ma si pensi anche all’atmosfera equivoca e puteolente che regna nella sede stessa dei Servizi, ai ricatti a sfondo sessuale (e omosessuale), ai piccoli traffici illeciti nascosti dietro il paravento dell’intoccabile divisa.
Raggiunta da tempo la piena maturità espressiva, Polanski (classe 1933) non ha più bisogno di ostentare la padronanza del mezzo. Qualcuno ha trovato L’ufficiale e la spia un’opera monocorde, asfittica, uniforme. In realtà Polanski adotta uno stile sobrio, quasi classico. La storia procede per ampi blocchi narrativi inframmezzati da flashback; le scelte linguistiche sono generalmente poco appariscenti (dialoghi serrati in campo-controcampo, dissolvenze incrociate); la fotografia è giocata prevalentemente sui toni del grigio, del nero o del marrone scuro, proprio come nelle stampe popolari dell’epoca, con qualche tocco di colore a spiccare sul resto, come il rosso dei kepì e dei pantaloni delle divise. Certo, forse non tutto funziona a dovere: i flashback in tonalità seppia di Dreyfus al bagno penale, ispirati alle diapositive stereoscopiche assai diffuse alla fine dell’Ottocento, appaiono goffi, quasi kitsch. Ma a riscattare eventuali defaillances provvedono i momenti in cui indignazione, efficacia retorica e spettacolo si fondono in un insieme coerente e di grande potenza espressiva: si pensi soprattutto alla sequenza in cui i vari protagonisti della vicenda leggono sul giornale L’Aurore l’articolo di Zola.
Con tutto questo, non si può non ricordare che il film, fin dalla prima proiezione all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (dove ha peraltro ottenuto due importanti riconoscimenti: il Premio Speciale della Giuria e il FIPRESCI), è stato accompagnato da feroci polemiche, sfociate in attacchi e boicottaggi in occasione dell’uscita in Francia. Tutto ciò, com’è noto, è dovuto alla situazione giudiziaria di Polanski, che da quarant’anni evade la condanna emessa da un tribunale statunitense, alla quale si sono aggiunte nuove e più gravi accuse di molestie sessuali. Contro la difesa a oltranza dell’autore come figura demiurgica, il film di Polanski ci obbliga a fare i conti con il fatto che un’opera trascende sempre i propri artefici. Non sappiamo che cosa possa aver spinto Polanski a fare de L’ufficiale e la spia una sorta di summa poetica di tutta la sua carriera: il valore del film, oggi, sta anche nella sua capacità d’individuare nell’Affaire non solo un momento spartiacque, la cartina di tornasole delle contraddizioni della belle époque; ma anche, colti a uno stadio aurorale, i segnali di una modernità che è quella in cui tutt’ora viviamo. Ricordiamo che l’Affaire è coevo alla nascita del cinema (1895) e che uno dei padri del mezzo, il dreyfusardo George Méliès, ha dedicato al caso, nel 1899, un vero e proprio instant-movie.
L’intreccio fra politica e mass media, la paranoia del complotto, l’ossessione per la purezza dei valori nazionali minacciati dall’infiltrazione degli stranieri, la costruzione a tavolino del capro espiatorio (oggi parleremmo di “macchina del fango” o di fake news): sono tutti elementi che conosciamo fin troppo bene. Allo stesso modo, risuona immediatamente nel film lo sconcertante ritorno, ai nostri giorni, di un antisemitismo che pensavamo appartenesse al passato. Ecco perché L’ufficiale e la spia rimane comunque, dietro la patina della ricostruzione storica, uno dei pochi, veri film sulla nostra contemporaneità.