Little Sister
Hirokazu Koreeda
Bim Distribuzione, Giappone 2015, Drammatico, Durata: 128 min.
Il dibattito sulla famiglia e sul suo ruolo nella società arriva di rado a dar voce ai figli, benché qualunque discorso sulla genitorialità non possa prescindere da una riflessione su cosa sia preferibile per loro. È più semplice presumere di conoscere il loro punto di vista e usarlo per portare avanti le proprie battaglie, che soffermarsi ad analizzarlo e a comprenderlo. In questo senso, se i figli sono di certo la parte in causa più debole e indifesa quando sono bambini, anche quando divengono adulti sono chiamati al compito di rileggere e talora ricostruire i legami familiari nel confronto non sempre facile con i propri genitori. Un film come Little Sister del regista giapponese Hirokazu Koreeda può allenare il nostro sguardo a porsi all’altezza dei figli, assumendo come punto di vista quello di quattro giovani sorelle che devono superare la rabbia per essere state abbandonate da entrambi i genitori e trovare una strada per andare avanti insieme, nella consapevolezza di non poter mutare le condizioni che la realtà ha consegnato loro.
Il film precedente di Koreeda, Father and Son del 2013, vincitore del Premio della giuria al Festival di Cannes, si concentrava sulla famiglia e sul maschile, attraverso la storia di un padre severo ed esigente che scopriva all’improvviso che il figlio non era suo discendente biologico a causa di uno scambio di neonati in ospedale. Da qui, per il protagonista iniziavano un percorso di messa in discussione del proprio modo di concepire l’affetto e una riscoperta del valore profondo della paternità. In contrasto con questo film, Little Sister si apre invece con la morte di un padre per proseguire con un racconto tutto al femminile.
Little Sister è un ritratto ad acquerello che richiama le tinte verdeggianti dei film di animazione (anime) di Hayao Miyazaki, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione di un Giappone di provincia, lontano dai grattacieli metropolitani con cui il Paese viene rappresentato di solito sul grande schermo. Siamo a Kamakura, cittadina affacciata sul mare: qui tre sorelle partecipano ai funerali del padre, un uomo infedele sia alla moglie sia alle figlie, abbandonate più di un decennio prima. La sorella maggiore, Sachi, ha 29 anni ed è infermiera nell’ospedale cittadino, dove le viene chiesto di assistere i malati terminali; Yoshino, di 25 anni, lavora in banca e nel corso del film ottiene una promozione a manager; la ventunenne Chika, dal carattere estroso, è invece commessa in un negozio di attrezzature sportive. Se Sachi è innamorata di un uomo sposato e Yoshino intrattiene solo relazioni a breve termine, Chika è felicemente legata a uno strambo fidanzato. Anche la madre, distrutta dall’umiliazione per l’abbandono e il tradimento del defunto marito, aveva lasciato le ragazze e si era trasferita in un’altra città. Al funerale, le tre giovani incontrano la sorellastra Suzu, una timida quindicenne frutto della prima relazione extraconiugale del padre. Impulsivamente, la invitano ad andare a vivere con loro nella grande casa di famiglia vicino al mare. Suzu decide di seguirle per crescere al loro fianco, portando con la sua presenza progressivi cambiamenti nella prospettiva delle giovani, che si troveranno a riflettere sulle loro vite passate e future.
La casa, in questa storia, ricopre il ruolo di coprotagonista, ospitando due importanti elementi interni all’universo narrativo: il santuario davanti a cui il gruppo prega per i defunti e l’albero di prugne dalle quali si ricava un prezioso liquore. Al tempo stesso rifugio e relitto di una famiglia che non c’è più, la dimora protegge le ragazze dal mondo esterno e insieme le sprona a goderne, assaporandone la bellezza. Di frequente viene suggerito che questo porto sicuro, come l’infanzia, avrà una fine. La cittadina sul mare è in questo senso una sorta di Arcadia, una terra originaria incontaminata, in cui la misura del tempo è data da eventi annuali che hanno a che vedere con i ritmi della natura e della tradizione: la fioritura dei ciliegi, la pesca dei bianchetti, i fuochi d’artificio in estate, la distillazione del liquore di prugna fatto secondo la ricetta della nonna. È la madre, incapace di comprendere il senso di abbandono delle figlie, a stupirsi della fedeltà delle ragazze a quest’ultimo rito, ripetuto incessantemente ogni anno. Sachi e le sorelle si aggrappano infatti alle pratiche quotidiane apprese dagli adulti con cui hanno vissuto per mantenerne vivo non solo il ricordo, ma anche la presenza, essendo pienamente consapevoli che le figure parentali nelle loro vite non sono sostituibili.
Proprio in questo sta il nodo problematico messo in rilievo da Little Sister: le sorelle devono ricostituirsi come famiglia a partire dalla fragilità – nel caso della madre – e dalla reale assenza – nel caso del padre e della nonna – delle figure adulte che avrebbero dovuto accompagnarle nella loro crescita. È possibile, domanda Koreeda, continuare a vivere come una famiglia, senza che questo si traduca nell’assunzione di ruoli troppo onerosi da sostenere quando ci si è affacciati da poco all’età adulta o si è ancora giovani come Suzu? E, traslando l’interrogativo in senso universale, qual è il futuro della famiglia in un’epoca storica in cui la solidità delle figure dei genitori è in crisi?
Sachi vive in prima persona questo dubbio, sospinta da un genuino istinto materno verso la sorellina, ma al tempo stesso consapevole di non poter supplire all’assenza di una madre e di un padre nell’educazione e nella sfera affettiva di Suzu. D’altra parte la stessa Suzu deve costruire una propria identità all’interno di un contesto con cui sino a quel momento ha condiviso un legame solo biologico, senza contare il senso di colpa per essere nata fuori dal matrimonio del padre. La soluzione, ci dice il regista, non risiede nella sostituzione degli assenti, bensì nella misericordia nei loro confronti. Secondo la lezione del maestro del cinema nipponico Yasujirō Ozu (Viaggio a Tokyo [1953], Tarda primavera [1949], Il gusto del sakè [1962]), di cui Koreeda è il principale erede artistico, i valori della tradizione e della famiglia possono rimanere saldi solo grazie alla forza della comprensione umana verso l’altro. Grazie alla conoscenza di Suzu e al carico di speranza che lei porta in casa, le ragazze rileggono gli errori degli adulti da una nuova angolazione e arrivano a perdonarli.
Tanto l’espressione delle proprie opinioni è oggi destinata ad assumere la forma breve del post o del tweet a rapida scadenza, tanto Little Sister sfida le nostre abitudini di consumo mediale attraverso una narrazione lunga e continua, 128 minuti di estrema eleganza e delicatezza durante i quali i profondi conflitti raccontati vengono espressi evitando la spettacolarizzazione o i toni accesi. Un cinema molto distante dalle tendenze aggressive e accattivanti della contemporaneità, che proprio nella sua apparente ingenuità trova la cifra espressiva più convincente. Il pubblico è chiamato a farsi abbracciare dal calore della cittadina rappresentata e a sospendere il cinismo, grazie all’assenza di eccessi melodrammatici e alla bellezza discreta della fotografia di Mikiya Takimoto. In scene come la corsa in bicicletta attraverso un tunnel di ciliegi in fiore, così come in quella in cui le sorelle chiacchierano in veranda, si percepisce l’attento lavoro di costruzione visiva delle immagini.
Più che una trama, Little Sister si compone di una serie di piccoli episodi, riflettendo la propria origine di trasposizione del graphic novel per ragazze Umimachi Diary (Diario di una città di mare), capolavoro dell’autrice Akimi Yoshida. Pubblicato a puntate, il manga racconta il legame di quattro sorelle con gli abitanti di Kamakura. Già la fonte originaria presenta delle peculiarità rispetto ai modelli drammaturgici occidentali, dal momento che non sono previsti climax narrativi, ma viene costantemente mantenuta l’impressione di una pace e di un’armonia che nascono da piccole cose concrete, e che per questo non risultano mai artefatte o forzate. Ad esempio, vengono disattese tutte le nostre aspettative in merito all’accoglienza di Suzu, che non passa per momenti di prepotenza da parte delle sorelle, o alla scelta di Sachi, che pur amando il suo compagno non gli chiederà mai di rinunciare al lavoro all’estero.
Come il liquore che le ragazze gustano in veranda, il film emana dolcezza e acidità, celebrando la famiglia e il senso di comunità senza nasconderne i limiti e le problematiche. Inoltre la scelta di assegnare alle donne il centro della scena, affidando ai maschi un ruolo da comprimari, va intesa come espressione sintomatica di un sensibile mutamento della mentalità giapponese: una svolta che si accompagna a quella di altre produzioni nipponiche recenti come Happy Hour (Ryusuke Hamaguchi, 2015), che pongono al centro dell’obiettivo il femminile, provando a sondare il nuovo ruolo della donna nella società. In Little Sister le sorelle maggiori hanno un ruolo ben definito a livello lavorativo, mentre paradossalmente è proprio quello all’interno delle mura domestiche a dover essere ripensato. Il contrasto tra la contemporaneità e i retaggi di una società rigidamente gerarchica e maschilista si avverte ancor di più approfondendo il punto di vista femminile e misurando così il mutamento radicale in corso.
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