L’identità culturale non esiste

di François Jullien
Einaudi, Torino 2018, pp. 96, € 12
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2019

L’identità culturale non esiste: è un assunto provocatorio e sfidante quello su cui si fonda la tesi che il filosofo e sinologo francese François Jullien, professore all’Università di Parigi-VII Denis Diderot, esprime in questo breve libro. Il testo, diretto e scorrevole, si propone come una bussola filosofica per orientarsi nella confusione della contemporaneità, segnata soprattutto da due fenomeni solo apparentemente contraddittori: la globalizzazione e il ritorno del nazionalismo.

Il contesto spazio-temporale in cui la riflessione dell’A. prende corpo è quello dell’Europa di oggi. Un’Europa che, da un lato, si confronta sempre più spesso con la multiculturalità dei popoli, promuovendo gli scambi e il dialogo fra le culture e cercando di valorizzarne le ricchezze; dall’altro si sente invasa, teme di non poter gestire i cambiamenti in atto e manifesta il bisogno di difendersi dal diverso. Viviamo infatti, secondo Jullien, in un’epoca «colta improvvisamente dal dubbio riguardo all’ideale dell’Illuminismo» (p. 1), ovvero attraversata da alcune domande di fondo: un cosmopolitismo pacifico, fondato sull’universale razionalità di tutti gli uomini, è ancora possibile? Il terrorismo ne ha forse minato irrimediabilmente le basi? La globalizzazione condurrà all’assimilazione di tutte le culture in un unico insipido aggregato? È auspicabile un dialogo tra le culture? Oppure quello che chiamiamo “dialogo” non è altro che una giustapposizione forzata di elementi e tradizioni che non hanno nulla in comune?

L’A. affronta tali questioni con grande onestà intellettuale, mostrando di non potere (e non volere) prescindere dalla particolarità del proprio punto di vista sulla realtà: quello di un intellettuale segnato dalla cultura europea, ovvero portatore di quella forma mentis, mutuata dalla filosofia greca antica, che caratterizza chi è nato e cresciuto nel Vecchio continente. Per evidenziare la problematicità delle rivendicazioni nazionalistiche avanzate in nome dell’identità culturale dei popoli, pertanto, il filosofo si rifà innanzitutto al pensiero occidentale, cercando di chiarire il significato di tre sue categorie tipiche: universale, uniforme e comune.

Egli ritiene, ad esempio, che il rischio insito nell’idea che esistano identità culturali separate consista nel ridurre l’universale da concetto regolativo, capace di mantenere la ragione aperta alla tensione verso il nuovo (quale è stato, ad esempio, per Kant, p. 24), a un insieme di rigide e astratte prescrizioni. Inoltre, sostiene anche che chi percepisce la propria cultura in senso strettamente identitario, cioè come segno di appartenenza a un gruppo ben preciso, tenda a coltivare la convinzione che, al netto di alcune differenze superficiali, le altre culture siano in ultima analisi riducibili alla propria. L’identità, infatti, è un concetto che esprime l’idea di qualcosa di statico, sempre uguale a se stesso; per questo è più adatta a descrivere lo status dei singoli soggetti piuttosto che dei sistemi sociali e culturali. L’unicità del corpo è infatti garanzia, per il soggetto umano, di una certa unità e individualità di fondo, che permette (quasi sempre) alla coscienza di conservare alcuni caratteri tipici dell’identità, nonostante le mutazioni storiche e biologiche cui tutti siamo sottoposti durante la vita. Ma pretendere che esista un’identità culturale europea ben definita e permanente – nonostante l’evidente mutevolezza “interna” e le costanti interazioni con l’“esterno” che connotano qualunque realtà culturale o sociale – è un’operazione rischiosa. Significa scambiare l’originale aspirazione degli europei a una comprensione sempre più accurata della verità e del mistero del cosmo con il nostro bisogno di certezze immutabili, cui aggrapparsi di fronte alla paura dell’insicurezza.

Questo ci conduce al tema dell’uniformità. Se il motto di un’autentica aspirazione all’universalità, aperta alla possibilità di esperienze sempre nuove, è: devono esistere regole capaci di spiegare tutto ciò che accade; il motto dell’uniformità mascherata da universalità recita: tutto l’universo non può che obbedire a “queste” regole. Così il bisogno di sicurezza finisce per condurre a comunitarismi di ogni genere: ideologie che danno vita a gruppi sociali chiusi o a economie seriali, in cui la produzione ripetitiva di beni e concetti sempre identici impone a tutti le medesime dipendenze fisiche e psicologiche. Si parla di contesti all’interno dei quali il prezzo della tranquillità data dalla somiglianza reciproca delle parti che compongono un organismo sociale, politico o economico viene pagato con l’estromissione di tutto ciò che si discosta dalla “norma”.

Il «simile», sostiene infatti Jullien, non equivale al «comune» (p. 69), che invece è sempre multiforme e sfaccettato, eppure condiviso, come ad esempio la molteplicità degli spazi della città o la ricchezza dei sistemi ecologici cui tutti attingiamo per sopravvivere (pp. 10-11). La pretesa di ridurre la diversità all’uniformità, quand’anche sia perseguita in nome della pace, dell’efficienza o della giustizia, non aiuta a creare comunità autentiche, ma soltanto circoli chiusi ed escludenti. Una comunità autentica sa bene infatti di non poter esaurire, da sola, la realtà, e per questo rimane sempre aperta.

Parallelamente, Jullien mostra anche che la volontà di interpretare il mondo a partire dalla categoria filosofica occidentale di “universalità” non è estendibile, né comune a tutte le lingue o a tutti i modi di pensare. «L’esigenza dell’universalità che sta all’origine della scienza europea e che è stata rivendicata dalla morale classica, oggi, a confronto con le altre culture non è affatto universale» (p. 8). Essa è piuttosto «il prodotto di una storia singolare del pensiero» che si è articolata su tre livelli: «quello filosofico (greco) del concetto; quello giuridico (romano) della cittadinanza e quello religioso (cristiano) della salvezza» (pp. 12-13).

Jullien afferma infatti che sono soprattutto gli elementi fondanti della cultura europea, come la ragione, la legge e la salvezza, a condividere l’esigenza di una validità universale e a indurci a proiettare inconsapevolmente questi stessi schemi interpretativi sulle altre culture. Ma, se le si conosce a fondo, si può notare che queste ultime spesso non si comportano come la nostra. Come è possibile, dunque, dialogare con esse, se risulta quasi impossibile individuare al loro interno somiglianze o analogie nelle quali rispecchiarsi? Sta qui l’originalità della proposta di Jullien, il quale esorta il lettore a non cercare né di colmare il divario tra le culture servendosi di approssimate e banali similitudini, né di rinunciare a un dialogo, arroccandosi su posizioni identitarie con la scusa di insormontabili differenze. Da un lato, non è possibile ridurre le culture a un comune denominatore senza appiattire le singolarità che le caratterizzano. Dall’altro, se si vuole preservare a ogni costo le differenze che le separano per paura di qualsiasi contaminazione, si finisce per soffocare qualunque terreno comune, senza il quale nessun dialogo può avere inizio.

L’A. propone quindi di non considerare le differenze tra le culture come barriere attraverso le quali non è possibile scambiare o comunicarsi nulla, ma come “scarti”, cioè come distanze o asimmetrie dalle quali possono emergere nuove, inedite risorse e impensate opportunità trasformative. In altre parole, ciò che le diverse culture hanno davvero in comune è, per Jullien, proprio il terreno ancora inesplorato che le distingue, poiché soltanto in questo spazio libero, dove l’unica regola è l’ascolto reciproco, esse possono condividere le proprie “risorse”, mettendole a disposizione di chi proviene da tradizioni differenti. Così, per l’Occidente, l’A. annovera tra le risorse la «promozione del Soggetto: non dell’individuo» e la sua libertà (p. 51). Il concetto di scarto non esaspera, perciò, l’opposizione tra identità culturali rigide, ma instaura un dialogo (dal greco: dia, “attraverso” e logos, “conoscenza”) fra entità che sono sempre in divenire, evidenziando ciò che sta nel mezzo, nello spazio del “tra”, attraversando il quale si possono comprendere meglio le molte declinazioni del pensiero umano (pp. 79-80).

La cultura è contaminazione. Perciò questi scarti tra le culture ne garantiscono anche la vivacità e la sopravvivenza. Se, secondo Eraclito, nella vita non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume, per Jullien non ci si può immergere due volte in una stessa cultura. Ogni cultura degna di questo nome può infatti considerarsi viva solo finché cambia, cioè finché è disposta a entrare in relazione con le altre, venendone influenzata almeno tanto quanto è in grado di influenzarle essa stessa. Per l’A. le culture non differiscono dunque le une dalle altre sul piano dell’identità, ma su quello delle risorse. Queste ultime, al contrario della prima, sono, sì, da difendere, come è intuibile dal sottotitolo dell’opera, e sono peculiari per ciascuna cultura. L’A. lo dimostra grazie a numerosi riferimenti al diverso modo in cui le lingue del mondo esprimono concetti analoghi ma, in fondo, mai sovrapponibili, da cui si evince ad esempio la diversità della struttura del pensiero occidentale rispetto a quella del pensiero orientale. Ciascuna cultura manifesta infatti, attraverso il proprio linguaggio, una particolare e irriducibile sfumatura del medesimo mondo.

Per chi se lo stesse chiedendo, non si tratta di una prospettiva pigramente relativistica, rassegnata di fronte a una presunta irrilevanza di qualunque differenza culturale. Quella di Jullien è, al contrario, una prospettiva radicalmente dialogica. Dalla condivisione di queste risorse culturali, affidata a un comune e inesauribile impegno di traduzione linguistica, infatti, tutti possono attingere liberamente per arricchire la propria umanità.

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