La zona d’interesse

regia di Jonathan Glazer
Gran Bretagna e Polonia, 2023 drammatico, storico, 105 minuti
Scheda di: 
Fascicolo: aprile 2024

Jonathan Glazer, regista britannico di famiglia ebrea, nel suo ultimo film, vincitore dell’Oscar 2024 come miglior film straniero, La zona d’interesse, riesce nell’impresa di raccontare la storia di Auschwitz e del suo “creatore” in modo totalmente inedito, con un cambio di prospettiva che tuttavia non la rende meno agghiacciante. Se con Schindler’s List, di Steven Spielberg, eravamo stati trascinati dentro il campo, con Glazer rivolgiamo l’attenzione alla vita di Rudolph Höss, membro delle SS e primo comandante di Auschwitz fino al 1943. Fu lui a perfezionare il metodo di eliminazione dei prigionieri tramite il gas Zyklon B e la costruzione dei forni crematori.

Höss vive insieme alla moglie Hedwig e ai loro figli, due maschi e tre femmine, in una villetta con un bel giardino e con la piscina, il cui muro di cinta è l’altro lato del muro di Auschwitz, e il cancelletto del giardino si affaccia direttamente nel campo. La prima parte del film offre la straniante esperienza di vedere lo scorrere regolare della vita di questa tipica famigliola tedesca, senza scossoni e senza problemi, mentre al di là del muro di cinta succedono cose indicibili. Sembra di guardare quei filmini girati in super8 degli anni ‘70, dai colori un po’ freddi e quasi sbiaditi, in cui mamme e bambini felici salutano con la manina papà che va al lavoro. Ma lo spettatore sa bene che in queste scene non c’è nulla di normale. Papà esce dal giardino di casa, varca il suo bel cancelletto come un qualunque impiegato che svolge con impegno e dedizione il suo lavoro, e va a sterminare persone ebree. Mamma coltiva il giardino, descrive i fiori alle bambine, gestisce la servitù, riceve le amiche e si prova la pelliccia nuova... ma la pelliccia, noi lo sappiamo, è di qualche donna ebrea deportata. I bambini giocano spensierati in piscina e nel prato, nuotano nel ruscello, ma quando il padre li fa uscire a forza dall’acqua perché è sporca, noi lo sappiamo che cosa c’è nell’acqua, e Glazer ce lo fa anche intravedere: papà Rudolph trova un osso. E sì, lo sappiamo, noi spettatori, di chi è quell’osso. Di una persona. Ebrea. Che stava dietro il muro. Tutto il film cresce in questo surreale stridore tra quello che lo spettatore sa e quello che lo spettatore vede, con Auschwitz che getta la sua ombra macabra sulla famigliola felice che sta al di qua del muro, giocata tutta sugli effetti sonori.

Non a caso, infatti, il film si è aggiudicato anche l’Oscar per il sonoro, che riveste un ruolo essenziale nella dinamica del racconto, veicolando in modo evocativo i rumori del campo: spari, porte metalliche che si aprono e si chiudono, cani che abbaiano, treni che arrivano e partono. Glazer ci costringe ad ascoltare questi suoni, oscurando le immagini con sequenze grigie monocromatiche che durano per molti secondi, mentre il sonoro accende nella nostra mente tutto l’orrore di Auschwitz.

Ma la finzione che tutto sia normale non dura, le crepe nella narrazione iniziano a vedersi: la nonna, che viene a trovare figlia e nipoti, inizialmente si complimenta orgogliosa della loro bella sistemazione. Ma col passare delle ore tossisce per il continuo fumo. Di notte non dorme, e vede i bagliori dei camini del campo. La mattina fugge, lasciando un bigliettino di spiegazioni alla figlia. Noi lo sappiamo che ha capito che cosa succede oltre il muro. Ma la signora Höss non fa che bruciare (sì, bruciare) il biglietto, fa togliere il piatto della colazione, e procede imperterrita nella sua vita meravigliosa, addirittura negando che la madre sia stata a trovarla.

Il film procede imperterrito in questa escalation di rimozione dell’orrore, che trova l’unica possibilità di perdurare nel fingere che quello che fa Höss non sia altro che un lavoro, che non ci sia alcun coinvolgimento personale, che “gestire i carichi in arrivo” sia solo un’attività da fare, e fare bene.

E Höss si prende talmente cura del suo campo di concentramento, che lo vediamo dettare alla segretaria un ordine perentorio, in tipico stile SS, per i suoi sottoposti, che vengono invitati a non strappare i fiori in modo disordinato dai cespugli di lillà, per preservare il decoro del luogo. Anche qui, l’effetto è straniante: è “vietato calpestare le aiuole” di Auschwitz, ma dell’annichilimento della vita umana non si fa cenno. Ma noi, ancora una volta, lo sappiamo che siamo nell’assurdità più totale.

Ma disumanizzare le vittime del campo è uno strategemma che costa caro: il prezzo che porta con sé è la propria disumanizzazione. Siamo di fronte all’annullamento totale dell’umanità. Paradossalmente, sembra dire Glazer, il punto per Höss non è nemmeno più sterminare persone ebree. È solo “fare un lavoro”, dimentichi di tutto il resto.

Lo scrittore israeliano Amos Oz scrisse nel suo saggio Cari fanatici (Feltrinelli 2017), che «Non c’è nessuno al mondo che non sappia che cosa sia la sofferenza. Lo sanno tutti. [...] Non esiste una sola persona normale che quando fa del male al suo prossimo non abbia la coscienza di fare del male». Sta tutta qui la chiave di lettura del film di Glazer: fare del male fa male, a chi lo riceve e a chi lo fa. Sta qui il senso di aver girato questo film oggi, in questo mondo sconvolto dai conflitti. Se ci dimentichiamo della sofferenza dell’altro, il rischio di tornare ad Auschwitz è altissimo. Il problema è non dimenticarci che cosa c’era al di là del muro.

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