Il titolo del libro è ampio: economia sì, ma anche società, oltre al tema, classico e nuovo, della «vita buona». Una prima lettura del testo rende chiaro che l’A. prende in considerazione un’ampia molteplicità di realtà e problemi, senza mai restare in superficie. Nei sette capitoli del volume, infatti, si affrontano: tecnologia, finanza, globalizzazione, banche e finanziamenti, mercato, amministrazione a vari livelli (locale, regionale e centrale), giovani, questione femminile, famiglia, scuola, questione meridionale, sindacati, Africa, Cina, Europa, petrolio, etica, etica cristiana. Il terzo capitolo, più specifico degli altri, è dedicato al rapporto tra produttività di impresa e relazioni tra persone al suo interno, poiché la produzione richiama un mondo complesso e anche intensamente umano. Leggendo, si incontrano brevi affermazioni illuminanti, come ad esempio: «il mercato non soddisfa il bisogno, bensì la domanda pagante [...]. La dimensione finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia» (p. 27).
Dopo la prima rapida lettura sorge una domanda spontanea: chi mai potrà “governare” una tale eterogenea molteplicità? Sarà la politica e, in definitiva, lo Stato a cui si è sempre chiesto di correggere il mercato? Da quale altro attore sociale è possibile attendersi un intervento in grado di tenere in conto, in una prospettiva di lungo termine, una differenziata molteplicità di fattori e di situazioni e, per di più, in modo eticamente ispirato? Ciò non significa chiedere al governo politico una capacità di azione finora sconosciuta? D’altronde, il libro mostra che esso stesso è un agente sociale tra altri. Bisognerà allora fare ricorso alla società? Tradizionalmente, si oppone all’“alto” della decisione sovrana il “basso” della società civile. Il partito politico di un tempo non doveva appunto farsi mediatore tra esigenze popolari e istanze centralizzate di governo politico? Ma allora – osserva l’A. – si era in presenza di bisogni urgenti che facevano capo a una classe operaia ben caratterizzata. Oggi, in epoca post-fordista, l’esperienza di lavoro non è più necessariamente centrale e alcuni bisogni elementari sono altrimenti soddisfatti. In ogni caso, si deve abbandonare il vecchio assistenzialismo statale, le imprese non possono essere chiamate a compensare inefficienze altrui e anche il profitto va “deideologizzato”.
La socialità descritta nel libro è molteplice e disomogenea, vitale e frantumata al tempo stesso, irriducibile al binomio sfruttati/sfruttatori, anche se gli sfruttati e gli sfruttatori esistono. «Sulla scena del mondo non ci sono problemi settoriali, ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi commerciali, salute, conflitti, instabilità sono altrettante tessere di un unico mosaico» (p. 37). Come si potrà trasformare una tale socialità, dura e sfuggente? Quale tipo di iniziativa umana potrà correggere i limiti e le ingiustizie di questo mondo? La risposta dell’A. punta decisa sulle «reti di cooperazione, di solidarietà, di partecipazione» aventi vita su «scala locale» (p. 13). Ci imbattiamo quindi nella parola più illuminante di questo libro: la “rete”. Da un lato essa esprime il limite del nostro moderno convivere, poiché siamo subordinati a una rete di condizionamenti e poteri, ma dall’altro intende anche dire una possibile novità positiva.
Iniziamo presentando la comprensione del negativo. La globalizzazione, il moltiplicarsi delle tecniche, non solo di produzione ma anche di comunicazione, le banche e la finanza, tutto conduce alla «crescente mediazione tecnica dei rapporti interpersonali; […] alla organizzazione sistemico-complessa del produrre, del consumare, del vivere» (p. 19). Si è formata una rete che separa ed esclude, facendo venir meno la comunicazione reale tra gli uomini che vivono in «contesti complessi e incerti» (p. 87). Ci sono pochi individui che decidono per tutti, semi-invisibili e appartenenti a diverse gerarchie, sfuggono all’esperienza quotidiana della gente e non sono riconducibili alle «tradizionali forme di sfruttamento proprie delle società industriali» (p. 16). Usando un’immagine non presente nel libro, si può dire che sono scomparsi sia il principe antico sia il più moderno proprietario borghese, che godeva di beni reali, visibili e immediatamente comprensibili. Le molte forme di comunicazione, ma anche la paura «di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio», unificano gli uomini; è sorta una «interdipendenza a scala globale» che diventa «una categoria morale e politica di fondamentale importanza» (p. 37).
Un antico proverbio diceva che dove urge il pericolo, là appare anche una possibile salvezza, e il testo di Caselli sembra riaffermarlo. Proprio alcuni temi che illustravano il negativo del presente si convertono infatti in aperture positive e la dimensione molteplice dell’interconnessione apre a considerazioni antropologiche ed etiche. A ben vedere, proprio la tecnica e la comunicazione a rete non sono così ferree: creano spazi di manovra, anche se resta aperta la domanda «come rendere effettiva la potenzialità?» (p. 22). La «complessità dei processi in atto porta all’aumento dei centri autonomi di decisione e di responsabilità; si allargano gli spazi di iniziativa e di collaborazione» (p. 130).
Diversi ambiti sono declinati facendo ricorso al concetto di rete. Le nuove tecnologie di comunicazione diventano tecnologie produttive e rendono possibile un lavoro che sia flessibile nei luoghi e nei tempi. In tal modo è valorizzato il lavoro femminile, riuscendo a superare l’antica rigida divisione tra ruoli di lavoro maschili e femminili. Anche le famiglie si collegano in reti. Rapporti umani significativi «possono essere vissuti anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo» (p. 89). Oggi si parla di un quarto e quinto capitalismo: «una miscela di tecnologia, ricerca pubblica e privata, formazione superiore, imprese innovative. Il tutto concentrato in specifiche aree territoriali» (p. 134). Anche per l’Africa bisogna abbandonare l’assistenzialismo e «promuovere reti radicate nel territorio» (p. 58). In forma molto esplicita: «la crescente interdipendenza, congiuntamente al moltiplicarsi delle articolazioni e differenziazioni, richiede un’altra organizzazione del potere. Gli elementi unificanti non stanno più nel “principe” né in modelli gerarchici. Il riferimento è alla rete, ai collegamenti orizzontali, alla condivisione di valori e di obiettivi, alla sussidiarietà e solidarietà nell’ambito della sostanziale poliarchia dei moderni pluralismi» (p. 199).
In Italia tutto ciò è reso difficile dalla «politica inconcludente» (p. 199) e dalla burocrazia. L’Italia appare come l’ultimo Paese europeo in statistiche assai differenziate per oggetto: si va dagli scarsi investimenti in formazione alla poca innovazione, dalle rendite parassitarie alla poca «efficienza ed efficacia del settore pubblico» (p. 122). Ancora, i dati mostrano che per creare un’impresa in Italia si devono affrontare costi assai alti a motivo dell’ambiente sociale sfavorevole: «comunicazioni, assicurazioni, credito, servizi professionali, distribuzione commerciale, fiscalità, rapporti con la pubblica amministrazione ecc.» (p. 132). Interessanti anche le osservazioni dell’A. sulla scuola: essa non è cattiva, vi si nota «una voglia di fare non indifferente»; purtroppo «tutto ciò è quasi sempre un fatto casuale, contingente. Non c’è rete, non c’è sistema, non ci sono investimenti adeguati sulle persone e sul futuro» (p. 218). In sintesi, «il Paese non compete […] soltanto con le sue imprese, ma anche con le sue strutture formative, con i suoi assetti urbani, la sua pubblica amministrazione, e così via» (p. 226). Se ne può concludere che l’azione dello Stato sia uno dei molti fattori che contribuiscono a creare la «vita buona» di un Paese, certamente necessario ma non determinante, neppure “in ultima istanza”.
Soprattutto nella parte propositiva, Caselli fa luce su un’antropologia e un’etica ad essa immanente, che sembrano proposte più come possibilità ancora da esplorare che come realtà già pienamente operative. In altri termini, la via che si prospetta non è percorribile in modo immediato e deciso. Sembra che la ricca interdipendenza di realtà economiche e figure sociali lasci l’uomo nell’indeterminatezza. Nel tempo della rete, questo tipo d’uomo di cui si sta parlando appare come una possibilità desiderabile e degna più che come una realtà. Quanto meno nella nostra ambigua Italia.
Anche l’immaginario collettivo sul sistema economico e produttivo – e di conseguenza sociale – richiede di essere aggiornato, allontanandosi dall’universo di ruoli, funzioni e rapporti di potere a cui la rivoluzione industriale ci aveva abituato. La “forza lavoro” quasi fisica incorporata nei beni di consumo, la macchina che elabora la materia, la classe operaia posta in relazione a “proprietari” visibili sono sparite, insieme al principe sovrano e allo Stato giusto e provvidente. Non solo: non esiste più un “centro” socialmente designabile che consenta di pensare la società, mentre la dimensione verticale (alto/basso, sopra/sotto) non è più dominante. È scomparso il “capo” che permette di pensare la società come un grande “corpo”, secondo una nota immagine del mondo classico giunta fino a noi. Esiste invece la “rete”, e noi in essa. La rete ci è davvero vicina, più dello Stato tradizionale, del quale è talora più ferrea. In altri casi, invece, ha dei vuoti che sono inviti a una nuova sorta di coraggio. Il coraggio volonteroso del farsi avanti dai mille volti: coraggio nel produrre, nell’insegnare, nell’essere burocrati o madri di famiglia, volontari internazionali o scienziati, o in uno dei tanti ruoli che costituiscono la rete. L’A. stesso esprime l’apertura al possibile, al tempo stesso sociale ed etica, che guida le sue pagine: «occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali» (p. 40).
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