La misericordia sotto processo

Fascicolo: marzo 2017
Chiudendo il Giubileo straordinario lo scorso 20 novembre, papa Francesco ha ricordato che la misericordia «non può essere una parentesi nella vita della Chiesa» (lettera apostolica Misericordia et misera, n. 1). Essa è piuttosto un filo rosso che percorre tutta la storia della salvezza, un sentiero lungo il quale proseguire il cammino. Anche se può sembrare paradossale, la storia ci insegna come la misericordia non sia sempre una buona notizia. Anzi, essa può suscitare resistenze durissime, come quelle che ha incontrato Gesù da parte dell’establishment sociale e religioso del suo tempo. Proveremo in queste pagine ad analizzarle più da vicino, anche con l’intento di illuminare le opposizioni che un atteggiamento di misericordia suscita ancora oggi.
 

Gesù e i suoi critici

I racconti evangelici mostrano come Gesù, con le sue parole e con i suoi gesti, abbia in un primo tempo suscitato ammirazione ed entusiasmo, ma lasciano intendere che la sua attività sollevò anche resistenze, in particolare tra i gruppi dotati di potere e prestigio sociale, a cui si riconosceva autorità in campo religioso: scribi e farisei. Costoro contestavano atteggiamenti di Gesù che, ai loro occhi, costituivano una palese violazione di quanto, secondo l’insegnamento tradizionale, era prescritto dalla Torah (la Legge mosaica, espressione della volontà di Dio).

Ma che cosa era realmente in gioco nelle scelte operate da Gesù? I Vangeli ricordano spesso un gesto caratteristico della prassi messianica di Gesù: sedersi a tavola con gente di pessima fama. Così facendo, Egli mostra il vero volto di Dio, che prende l’iniziativa di farsi vicino ai peccatori senza porre come condizione previa il loro ravvedimento. In tal modo Gesù prende le distanze da chi, forte di convenzioni sociali inveterate, giudica e condanna senza remissione gli altri. In nome di Dio, ricco di misericordia, prende posizione contro gli steccati che dividono le persone in oneste e irrecuperabili.

Un altro motivo di forte tensione con scribi e farisei, impegnati a osservare e a far osservare scrupolosamente le prescrizioni mosaiche, era la libertà nei confronti del comandamento del sabato. I Vangeli presentano Gesù impegnato a mostrare nei fatti che il regno di Dio, da lui annunciato, mette in moto un dinamismo di riconciliazione che non conosce barriere. È questa convinzione a spingerlo a intervenire in giorno di sabato a favore di chi si trova in difficoltà (cfr, ad esempio, Marco 2,26-3,6). Così facendo, Egli mette in discussione le istituzioni, anche le più venerande: esse devono servire la crescita delle persone, non asservirle.

Attraverso gesti e parole, Gesù rende presente la misericordia del Padre e, nello stesso tempo, smaschera ciò che, imposto in nome di Dio, toglie ossigeno alle persone e ne blocca il cammino. Si trova qui la radice del conflitto con scribi e farisei, che non è dottrinale – Gesù non predica una nuova teoria su Dio – ma pratica: il punto che scatena il conflitto è il modo in cui Gesù collega la fede in Dio con i rapporti e le pratiche sociali, rileggendoli criticamente alla luce dell’annuncio della salvezza. Per Gesù non si può onorare Dio in astratto, così come a nulla serve celebrare genericamente la sua volontà di vita. A essere messa in questione è una religiosità che finisce per offuscare l’immagine autentica di Dio, deformando il suo volto di Padre che non cessa di promuovere e sostenere cammini di umanizzazione.

Scribi e farisei ne sono i rappresentanti in molte pagine evangeliche, che comunque – è bene ricordarlo – operano una tipizzazione degli avversari di Gesù (cfr  Theissen G. – Merz A., Il Gesù storico. Un Manuale, Queriniana, Brescia 1999, 282-287) che li spoglia della loro individualità e concretezza storica. Diventano figure paradigmatiche di una concezione della realtà, che può riproporsi sempre e dovunque, a cominciare dalla stessa comunità cristiana. Al tempo stesso, vista la posizione che scribi e farisei occupavano nella piramide sociale, essi sono anche figura di un modo di esercitare il potere e il controllo sulla società. Il rischio del fariseismo è presente in ogni tempo e in ogni luogo, negli atteggiamenti e nei comportamenti personali così come nei rapporti e nelle strutture sociali: quante deformazioni “farisaiche” sono operanti anche oggi? E alla difesa di quali posizioni di privilegio sono funzionali?
 

L’oggetto del contendere: la volontà di Dio

La differenza sostanziale tra Gesù e scribi e farisei va individuata nel modo di comprendere la volontà di Dio. Ne è un emblema questa affermazione di Gesù: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli (Matteo 11,25). Non senza una punta di ironia, Gesù definisce qui sapienti e dotti gli specialisti della Scrittura, che possiamo identificare con scribi e farisei (cfr Dupont J., Le Beatitudini, I, Paoline, Roma 1973, 783-840) e nota come essi, a dispetto della loro scienza, non hanno compreso il punto nevralgico del suo messaggio. I piccoli invece – considerati da quelli degli sprovveduti, bisognosi di essere istruiti sulla Legge e sulle sue prescrizioni (cfr Romani 2,17-20; Giovanni 7,49) – l’hanno accolta con gioia, avendo sperimentato l’abbraccio vitale della misericordia e riconosciuto che essa è incessantemente all’opera nella storia, affinché «nessuno possa pensare di essere estraneo alla vicinanza di Dio e alla potenza della sua tenerezza» (Misericordia et misera, n. 21).

La differente concezione della volontà di Dio affonda le radici nella diversa maniera di accostare la Scrittura e di interpretare ciò che la Legge domanda. Lo mostrano due passi di Matteo, in cui Gesù viene criticato dai farisei per la scelta di farsi commensale dei pubblicani e dei peccatori (Matteo 9,10-13, cfr riquadro a p. precedente) e perché i suoi discepoli raccolgono delle spighe in giorno di sabato (Matteo 12,1-8). Sono i comportamenti di cui abbiamo già messo in luce la carica di novità liberante e, contemporaneamente, la valenza provocatoria.


Matteo 9,10-13

10 Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11 Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12 Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13 Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

 

Il ricorso alla Scrittura e il conflitto delle interpretazioni

Gesù smonta le critiche dei suoi avversari facendo ricorso alla Scrittura, in particolare a un brano di Osea in cui riconosce la chiave di volta del messaggio del profeta: Misericordia io voglio e non sacrifici.


Osea
6,1-6

1 «Venite, ritorniamo al Signore: / egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. / Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà.
2 Dopo due giorni ci ridarà la vita / e il terzo ci farà rialzare, / e noi vivremo alla sua presenza.
3 Affrettiamoci a conoscere il Signore, / la sua venuta è sicura come l’aurora. / Verrà a noi come la pioggia d’autunno, / come la pioggia di primavera che feconda la terra».
4 Che dovrò fare per te, Èfraim, / che dovrò fare per te, Giuda? / Il vostro amore è come una nube del mattino, / come la rugiada che all’alba svanisce.
5 Per questo li ho abbattuti per mezzo dei profeti, / li ho uccisi con le parole della mia bocca / e il mio giudizio sorge come la luce:
6 poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.


Osea fu il primo a utilizzare la metafora sponsale per parlare dei rapporti tra Dio e Israele: per questo rivolge al popolo ripetuti appelli a ritornare al Signore, visto come lo sposo della giovinezza poi abbandonato per correre dietro agli amanti, cioè gli idoli, capaci di sedurre perché promettono prosperità e sicurezza per il domani. Preoccupato di esplicitare che cosa comporti un ritorno autentico al Signore, Osea mette in guardia dal rischio di ridurre la pratica religiosa a cerimonie, riti e osservanze esteriori, che offrono solo l’apparenza della fedeltà a Dio, senza produrre alcun cambiamento di vita. È il tema del brano che stiamo analizzando. I primi versetti danno l’impressione che gli israeliti abbiano accolto l’invito a tornare al Signore, ma quelli successivi svelano come tutto si riduca a una celebrazione penitenziale che resta superficiale: manca la ricerca di autentico cambiamento.

Dio stesso, allora, indica la strada da percorrere: voglio l’amore e non il sacrificio (v. 6). Da chi dice di volerlo onorare Dio non si aspetta sacrifici cruenti – il termine ebraico che ricorre nel testo indica il sacrificio di animali – né vittime che sostituiscano l’adesione cordiale e fattiva alla sua volontà. Dio non vuole altro che la pratica della misericordia, espressa in ebraico con un termine (chesed) che appartiene alla teologia dell’alleanza. Qualifica le relazioni che intercorrono tra due partner legati da un vincolo duraturo e abbraccia una gamma di significati quali amore, bontà, tenerezza, fedeltà. Questa ricchezza semantica esprime l’intensità e la molteplicità di dimensioni che le relazioni interpersonali e i rapporti sociali sono chiamati ad assumere, in particolare nei confronti di chi versa in maggiori difficoltà. La misericordia come disponibilità a farsi vicino e a prendersi cura dell’altro è tutto quanto Dio domanda, come insegna anche Isaia in un testo dai toni forti e appassionati (cfr Isaia 1,10-17).

Questo dunque è il significato profondo del versetto a cui Gesù si richiama nelle dispute con scribi e farisei che abbiamo citato. Nel primo caso (Matteo 9,13) fa precedere le parole del profeta da una precisa indicazione: Andate a imparare. L’espressione «va’ e impara» è una formula tecnica, abituale per i rabbini, per indicare lo studio della Scrittura (cfr Pirqe ‘Avôt 2,9; cfr anche Greisch J., Entendre d’une autre oreille, Bayard, Paris 2006, 128). Gesù, dunque, sollecita scribi e farisei, che presumevano di conoscere la Torah, a tornare a studiare la Scrittura, per imparare davvero ciò che Dio vuole. Nel secondo caso (la disputa sulle spighe raccolte di sabato), Gesù rivolge ai suoi oppositori per due volte la stessa, incalzante domanda: Non avete letto...? (Matteo 12,3.5). Poi introduce la citazione di Osea con le parole: Se aveste compreso (Matteo 12,7). Anche in questo caso, e in modo ancora più insistito, il Maestro chiama in causa il modo di leggere e la comprensione della Scrittura dei suoi avversari.

Alla loro esegesi contrappone un approccio alla Scrittura che assume la misericordia come principio ermeneutico: solo in questo modo essa è davvero parola di vita, buona notizia e lieto annuncio di liberazione (cfr Luca 4,18). Qualunque altra lettura trasforma il testo biblico in uno strumento di oppressione, che chi occupa posizioni di potere utilizza per legittimarsi, condannando le persone e imponendo loro pesanti fardelli (cfr Matteo 23,4).
 

Oggi come ieri

La sfida di una ermeneutica della misericordia, lanciata da Gesù a scribi e farisei, resta attuale anche oggi. Come duemila anni fa implica una conversione teologale, prima che morale: «Conversione in rapporto all’idea che ci si fa di Dio e del suo inviato messianico; conversione in rapporto all’idea che ci si fa dell’atteggiamento di Dio verso i peccatori; infine conversione in rapporto al cammino che conduce a Dio» (Lamarche P., Évangile de Marc, Gabalda, Paris 1996, 63). Oggi come allora l’idea che sia possibile fondare le relazioni interpersonali e quelle sociali sulla misericordia incontra resistenze, perché mette in questione certezze considerate indiscutibili, tradizioni e istituzioni ritenute intoccabili, posizioni di potere e di prestigio difese con tenacia. Non stupisce, allora, che l’annuncio della misericordia provochi la reazione dei paladini dell’ortodossia, per i quali, di fatto, i principi e le norme – e i poteri costituiti che vi si trincerano dietro – finiscono per contare più delle persone concrete.

Non sono pochi gli ambiti in cui anche oggi la misericordia genera conflitto e opposizione. All’interno della comunità ecclesiale lo documenta la fatica di molti a “digerire” il messaggio dell’esortazione apostolica Amoris laetitia, che propone proprio la misericordia come criterio fondamentale della pastorale familiare.

Ma anche a livello sociale non mancano i casi di deficit di misericordia. Ne menzioniamo due, di particolare evidenza. Il primo è l’ambito del carcere e di una cultura della detenzione come unica risposta alla devianza sociale. Difficile suscitare reazioni più indignate di quelle scatenate dalle proposte di amnistia o indulto, mentre sospetto e sfiducia avvolgono il concetto di giustizia riparativa, così come tutte le misure alternative al carcere. Il secondo è l’accoglienza a migranti, profughi e rifugiati: mentre si innalzano muri e si inaspriscono le procedure per l’ottenimento dell’asilo, i barconi continuano a naufragare. E le parole con cui il papa denuncia questa «vergogna» diventano oggetto di polemica o di scherno. Beni pur importanti, come la sicurezza, non interpretati in base al principio della misericordia, si trasformano in assoluti che generano schiavitù e morte. Dunque, la diatriba sulla misericordia è ancora in corso e chiede a ciascuno di noi e alla società nel suo insieme di prendere posizione ogni giorno.  




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