La trama
Icaro, detto Zucchina, ha nove anni e vive con sua madre, una donna con problemi di alcolismo, e si rifugia nella sua stanzetta/mansarda da dove, grazie alla sua fervida immaginazione, riesce a sfuggire alla crudeltà della vita di tutti giorni. Il padre li ha abbandonati alcuni anni prima senza ragione e la madre non sembra prestargli alcuna attenzione. Dopo la morte della mamma a causa di una caduta dalle scale durante un alterco con il figlio, Zucchina si ritrova orfano. Raymond, un poliziotto dolce e malinconico, si incarica di accompagnarlo alla sua nuova casa: un orfanotrofio moderno e colorato. All’interno dell’eclettico istituto sono ospitati vari bambini, ciascuno con l’infanzia segnata da tanti drammi contemporanei: la droga, il carcere, l’espulsione dei migranti, la violenza domestica. Icaro si adatta quindi a una nuova socialità e impara a farsi nuovi amici. Quando all’interno dell’istituto appare Camille, una bambina segnata da una tragedia indicibile, la vita di Icaro ha un nuovo scopo.
La mia vita da Zucchina è un racconto di formazione dai tratti minimali e al contempo espressivi che racconta l’odissea di un bambino orfano per ricostruire un’identità familiare e riconciliarsi con il proprio passato traumatico. Alla sua opera prima, il regista e illustratore francese Claude Barras dà corpo a un mondo estremamente complesso e drammatico, per nulla distante dalla realtà in cui viviamo. L’opera fin dalle prime inquadrature infatti si confronta con l’ambizione di raccontare il mondo traumatico degli orfani senza togliere o filtrare nulla alla tragedia della loro condizione.
La figura dell’orfano è tradizionalmente al centro di alcune narrazioni fondamentali della storia dell’umanità: da Cenerentola a Oliver Twist, passando per il mito di Edipo e la figura biblica di Mosè, essa permette a un autore – scrittore o regista che sia – di presentare le tappe di crescita di un personaggio in cui non vi è stata l’influenza dei genitori. Chris Vogler – importantissimo teorico della sceneggiatura, maestro di tanti autori moderni come George Lucas o Francis Ford Coppola – nel suo Hero’s Journey ha sostenuto che i protagonisti migliori sono quelli che non hanno una famiglia in partenza, ma la trovano durante il racconto. Claude Barras fa un’operazione diametralmente opposta: non rende orfano Zucchina per raccontare “meglio” una storia o per iscriversi in un orizzonte mitico, ma perché vuol dare voce a chi ha avuto un’infanzia di privazioni.
Il punto di partenza è l’adattamento in chiave infantile di un testo per adulti dell’autore francese Gilles Paris. Barras lima alcune asperità del romanzo (Icaro, nel libro, spara per sbaglio a sua madre, mentre nel film è un incidente domestico a causarne la morte) e crea vere e proprio gag comiche, che alleggeriscono il cammino del protagonista. «Volevo che La mia vita da Zucchina fosse un film capace di intrattenere» – ha affermato il regista in un’intervista –, «che facesse ridere e piangere, ma che soprattutto fosse un film saldamente ancorato al presente, che raccontasse la forza di un gruppo di amici nel superare le difficoltà della vita, grazie all’empatia, alla solidarietà, alla condivisione e alla tolleranza. Nel cinema di ieri e oggi gli orfanotrofi sono spesso descritti come luoghi opprimenti, mentre il mondo al di fuori è sinonimo di libertà. Nel mio film accade il contrario: i problemi vengono dal mondo esterno e la casa-famiglia è un posto di riconciliazione e ricostruzione. Questo è ciò che rende questa storia insieme classica e moderna» (cfr <www.mymovies.it/filmclub/2016/04/204/mymovies.pdf>).
Questa dimensione classico-moderna del racconto è restituita in maniera estremamente fedele dalla tecnica di animazione. La mia vita da Zucchina è un film “a passo uno” (in inglese stopmotion frame by frame), una tecnica simile a quella dell’animazione tradizionale, in cui però i disegni sono sostituiti da pupazzi, filmati fotogramma per fotogramma. Tra un fotogramma e l’altro i pupazzi sono riposizionati per dare l’illusione del movimento: poiché i pupazzi in questione restano immobili quando sono filmati, la raffinatezza dei gesti, la fluidità dei movimenti, le sottigliezze espressive sono determinate dalla qualità dell’animazione e degli animatori. Proprio in virtù di questo linguaggio, quasi artigianale, il film si concentra sul mondo interiore dei personaggi e si concede il tempo per ritrarne i piccoli gesti. Le espressioni del viso, i momenti di attesa, che rendono i personaggi credibili, sono frutto di questa ricerca visiva e scultorea sulla plastilina. Ognuno dei bambini che abitano la casa-asilo ha quindi i suoi piccoli tic e la sua maniera di parlare.
Settant’anni di industria animata Disney – il cui valore artistico non è assolutamente in discussione – hanno abituato il pubblico, in particolare quello più giovane, a un racconto cinematografico in cui il linguaggio animato è principalmente finalizzato alla rappresentazione di un mondo fantastico. Da La bella addormentata a The Brave, l’animazione deve restituire qualcosa che non è presente nella realtà. Claude Barras decide invece di andare nella direzione opposta: usa tutti gli strumenti “immaginari” del linguaggio animato – i capelli blu di Zucchina, le case sproporzionate, i cieli di colori cangianti – non per raccontare un mondo popolato da draghi o fate, bensì per esplicitare l’universo interiore dei propri personaggi. Così i paesaggi, i colori dei personaggi, le proporzioni tra gli oggetti rispecchiano gli stati d’animo dei protagonisti, in un continuo gioco di rimandi che lascia allo spettatore il compito di decodificarli.
Centro del film è il percorso compiuto da Zucchina tanto per ricostruirsi una nuova famiglia – arrivando all’adozione da parte del poliziotto Raymond – quanto per riscoprire una propria identità. Non è quindi casuale che nell’ultima sequenza del film Zucchina torni a chiamarsi Icaro, e simbolicamente passi da un nome che indica un vegetale attaccato al suolo a un personaggio mitologico diventato l’icona del volo. In questo percorso, tra la solitudine dell’abbandono e la nuova unità familiare, è ritratta la struttura delle case-famiglia. Gestita da Paul e Rosy, una giovane coppia così da assicurare l’esperienza dei ruoli genitoriali, e da una direttrice apparentemente dura e autoritaria ma in realtà protettiva, la casa-famiglia non è mai un orfanotrofio nel senso tradizionale, bensì un luogo in cui i bambini possono e riescono a entrare in un cammino di recupero e di vera e propria cura.
Ed è la casa-famiglia a diventare lo spazio in cui prendono corpo i diversi sentimenti d’affetto che sono il cuore del film. In questa unità di spazio sono raccontate, tra luci e ombre, le varie sfumature dell’amore. Zucchina e Beatrice, un’altra bimba che vive con lui, provano per esempio un sentimento profondo e sincero verso le loro madri, ma allo stesso tempo adombrato dalla paura suscitata da queste figure violente. Viene poi raccontato l’innamoramento, totalmente preadolescenziale, di Zucchina per Camille attraverso i sogni e i corteggiamenti dell’infanzia. Nella molteplice galleria di famiglie disfunzionali si incontra la felice storia d’amore degli insegnanti-tutori Paul e Rosy. Infine, è presentato l’amore paterno di Raymond per Zucchina. Nessuno di questi sentimenti è però raffigurato in maniera banale. I tanti rimandi tra le storie dei personaggi – Raymond lasciato solo da un figlio scappato di casa e Zucchina senza una famiglia, la zia di Camille che intende adottarla per l’eredità e i genitori di Simon che lo hanno abbandonato perché non possono mantenerlo – fanno della piccola casa-famiglia un vero e proprio campionario dei sentimenti umani più profondi.
La mia vita da Zucchina è senza dubbio uno dei film più complessi che siano mai stati realizzati per il pubblico infantile. Attraverso gli strumenti dell’animazione, il racconto non si riferisce a un mondo fittizio, mediato o metaforico che sia, bensì alla realtà che circonda ogni spettatore. Non a caso, per rendere il racconto più profondo il regista si è avvalso della sceneggiatura di Celine Sciamma, regista pluripremiata che ha dedicato tutta la propria carriera cinematografica a raccontare le difficoltà del passaggio all’età adulta. L’azzardo del film è di raccontare la cruda realtà dei bambini in attesa di adozione senza nascondere nulla allo spettatore (adulto o bambino che sia): ognuno dei piccoli ospiti della casa-famiglia è stato vittima di tragedie mostruose (pedofilia, violenza, abbandono, tossicodipendenza) e i loro traumi non sono celati. La delicatezza dei volti dei personaggi e la bellezza delle scenografie assolvono il compito di rendere meno dura la realtà raccontata, senza costringere a distogliere lo sguardo da ciò che accade. Il fatto che in alcuni Paesi la pellicola sia stata vietata ai minori di 14 anni è emblematico dell’azzardo compiuto dal regista, ma il messaggio a essa affidato la rende uno dei film più interessanti degli ultimi anni. Come ha affermato Claude Barras: «Zucchina, il nostro eroe, ha attraversato molte difficoltà e, dopo aver perso la madre, crede di essere solo al mondo. Ma non ha tenuto conto delle persone che incontrerà nella casa-famiglia e di quello che gli riserva il futuro: un gruppo di amici su cui fare affidamento, la possibilità di innamorarsi e magari un giorno essere felice. Egli ha ancora molte cose da imparare dalla vita. È questo il messaggio, al tempo stesso semplice e profondo, che mi sembrava vitale da trasmettere ai nostri bambini»