Articolo

La medicina deve aiutare, non “crocifiggere”

Un commento al modulo DAT proposto dal Gruppo di studio sulla bioetica di Aggiornamenti Sociali
Annamaria Marzi
Direttore infermieristico, Hospice Casa Madonna dell’Uliveto, Albinea (RE)


Come spesso ci ricorda papa Francesco quando parla di individualismo e cultura dello scarto, la nostra società ha paura della malattia grave e della morte, le esorcizza e di conseguenza isola i malati e i morenti. È la situazione che viviamo da vicino anche nell’hospice Casa Madonna dell’Uliveto. Nella nostra esperienza registriamo che il problema della negazione della morte determina moltissima sofferenza inutile nelle persone in fase avanzata di malattia, sia in ospedale sia fuori.

A mio avviso, nella nostra società il problema dell’eutanasia rischia di essere la reazione all’accanimento da un lato, e all’abbandono dall’altro. Nell’affrontare la morte, la malattia e la sofferenza, la nostra cultura mutua risorse e strumenti dall’ideale tecnico della medicina contemporanea, che si è accreditata come unico sapere. Viene promosso l’attivismo terapeutico del medico che spesso sfocia in accanimento clinico anche da parte del paziente e dei parenti. Il paziente andrebbe difeso dai messaggi dei media, dagli opinion leader, dai “superspecialisti”, dai parenti… e da se stesso con una comunicazione-relazione competente.

Pensare da vivi alla propria morte è un segno di maturità interiore: questo comporta anche potersi prefigurare i possibili scenari, segnati dagli effetti dell’impatto delle cure mediche nello stato finale della vita. Questa maturità interiore va alimentata da processi educativi, di carattere personale, relazionale, culturale e spirituale e va sostenuta da un impianto di tipo giuridico che regola le responsabilità differenziate del morente, di chi lo rappresenta e di chi lo cura. Proprio a tale processo di maturazione concorrono le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) che da decenni vanno emergendo in diversi contesti culturali e sistemi giuridico-normativi, anche a opera di istituzioni religiose, professionali, assistenziali.

La responsabilità della persona può essere promossa attraverso la possibilità di pensarsi in condizioni avanzate di malattia in un momento in cui ancora sta bene: per questo le DAT sono un’opportunità di riflessione e consapevolezza che va incentivata soprattutto nel credente, che per fede sa che la morte non è la fine di tutto. In questa direzione come infermiera dirigente cristiana, accolgo con grande soddisfazione il modulo DAT proposto dal Gruppo di Aggiornamenti Sociali!

Sono anni che cerco di comunicare in ogni occasione a quanti si interrogano sul fine vita – terrena per me! – la tragedia dell’accanimento clinico, oggi così diffuso. “Accanimento” significa trattamento inappropriato per eccesso, o, con le parole del bioeticista Paolo Cattorini, «ostinata rincorsa verso risultati parziali a scapito del bene complessivo del malato»” (Bioetica. Metodo ed elementi di base per affrontare problemi clinici, Masson, Milano 1997, 53). Anche Giovanni Paolo II nel 1995 aveva parlato di «interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia» (Evangelium vitae, n. 65).

Ho salutato con favore la L. n. 219/2017 su consenso informato, DAT e pianificazione condivisa delle cure per chi è affetto da malattie gravi, perché è la soggettività dell’ammalato che attribuisce il significato autenticamente morale a un’ipotesi terapeutica. La medicina deve aiutare, non “crocifiggere”. Il progresso tecnologico consente di vicariare artificialmente le funzioni fisiologiche compromesse, consentendo sopravvivenze fisiche in situazioni molto gravi e precarie, anche per anni, a costi umani esorbitanti per il malato, la famiglia, la società. Da credente, temo si sia imboccata una strada pericolosa che insinua nella gente il delirio di onnipotenza della medicina.

La gravità e l’inguaribilità della malattia richiede competenze in cure palliative (dal latino pallium: mantello che protegge e scalda), per prendersi cura della persona malata e della sua famiglia: aiutare a vivere pienamente ogni momento, alleviare la sofferenza, riconoscere i bisogni e le aspettative del paziente, proporzionare le cure, decodificare i messaggi dei pazienti e dei familiari, ecc. Corpo, psiche e spirito sono le dimensioni da considerare sempre per ogni ammalato insieme al suo contesto socio-relazionale.

Il modulo DAT proposto, che opportunamente illustra anche il metodo da seguire nella compilazione, consente di esprimere le proprie preferenze anche in termini spirituali e religiosi, oggi molto trascurati e invece così importanti nel fine vita.

La fede cristiana è poco vissuta oggi nella sua autenticità, come fede nella risurrezione. Nel Vangelo più volte è ripetuto un invito a «tenersi pronti» allo splendore dell’incontro, non con un Dio giudice, ladro di vita, che è la proiezione delle nostre paure e dei nostri moralismi, ma con l’impensabile di Dio! Un Dio che si fa servo dei suoi servi, «li farà mettere a tavola e passerà a servirli»(Luca12,37).
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