La grande scommessa

Adam McKay
Universal Pictures, USA 2015, Drammatico, Durata: 130 min.
Scheda di: 
Fascicolo: aprile 2016

Il cinema americano, tradizionalmente, è stato il mezzo attraverso il quale la società statunitense intera ha riflettuto sull’attualità: dalla guerra del Vietnam raccontata in presa diretta dalla generazione di cineasti che ha costituito il movimento della Nuova Hollywood (Francis Ford Coppola, Stanley Kubrick, Michael Cimmino), agli eventi dei primi anni Duemila riguardanti l’attentato alle Torri Gemelle e la cattura di Osama Bin Laden.

Lo stesso sta accadendo per la crisi economica del 2008. A distanza di pochi anni dai primi film sul tema, Too Big to Fail e Margin Call, un altro regista, Adam McKay, noto principalmente per alcune commedie per adolescenti, torna a riflettere su quanto accaduto con l’esplosione della bolla immobiliare che ha coinvolto gli Stati Uniti e in seguito anche diverse nazioni europee. Una scelta che fa emergere alcune domande di fondo: il cinema è in grado di raccontare il mondo invisibile della finanza globale? Può la settima arte, più della letteratura, più delle arti plastiche, rendere conto di movimenti, numeri e operazioni che sfuggono a qualsiasi materialità?

Il film affronta il racconto della crisi attraverso gli occhi di più personaggi. Il primo a entrare in scena è Michael Burry, eccentrico manager di fondi di San José, che prima di tutti, già nel 2005, aveva previsto l’implosione del mercato immobiliare, e che usa, mentre i banchieri di Wall Street e le agenzie di regolamentazione governative ignorano l’entità del fenomeno, uno strumento finanziario chiamato credit default swap (derivato di copertura), che si fonda proprio sull’eventualità dell’esplosione di tale bolla. In un continuo susseguirsi di nomi di fondi di investimento e agenzie di rating fa la sua comparsa la voce narrante del film: Jared Vennet, operatore bancario per Deutsche Bank, che comprendendo la redditività degli swap elaborati da Burry, decide di venderli a un gruppo di investitori specializzati in operazioni ad alto rischio. È con la comparsa di Mark Baum e del suo gruppo di lavoro – a cui Vennet vende gli swap – che per lo spettatore iniziano a chiarirsi le idee sulla bolla immobiliare. Baum, non convinto dell’offerta dell’operatore bancario, inizia un’indagine sul campo scoprendo come a un numero crescente di famiglie venisse data l’opportunità di accedere a un mutuo, in maniera quasi indiscriminata. Le banche avevano avviato una massiccia pratica di prestito chiamata subprime: a persone poco solventi – a cui normalmente non sarebbe mai stato accordato un mutuo per comprare casa – veniva concesso un tasso d’interesse molto basso per i primi anni, seguito da un brusco aumento in quelli successivi. I debitori – che nell’investigazione di Baum sono persone di tutti i tipi, dalle spogliarelliste ai migranti irregolari, passando per avvocati e impiegati – accettano le condizioni delle banche, con la prospettiva di poter rifinanziare il mutuo negli anni a venire per mantenere il tasso di interesse ai livelli iniziali.

Tutti sembrano guadagnarne: le imprese edilizie, gli agenti immobiliari, gli istituti bancari e i produttori di materiali edili. Chi acquista, spesso persone con mezzi modesti che diventano per la prima volta nella vita proprietari di una casa, tendono a non farsi troppe domande e la deregolamentazione costante di operazioni di questo tipo a opera del partito repubblicano – memorabile la scena in cui Baum cena con uno dei rappresentanti governativi – fa sì che la bolla immobiliare cresca oltre ogni aspettativa.

Come si può intuire, la trama di La grande scommessa, vincitore dell’Oscar 2016 per la miglior sceneggiatura non originale, è estremamente complessa: il film non solo decide di seguire più personaggi, ma anche di rimanere aderente alla realtà giornalistica, senza concedersi alcuna libertà sui fatti (al punto da proporre più versioni dello stesso avvenimento) e approfondendo ogni singolo aspetto della questione finanziaria. La pellicola, anche per la sua dimensione forzatamente corale, affronta però in maniera disomogenea le vicende dei vari protagonisti e i diversi temi trattati, tanto che il personaggio di Burry, ad esempio, scompare dalla scena per oltre un’ora. Il meccanismo su cui si poggia l’intera narrazione deve gran parte della propria efficacia a un genere fondamentalmente distante dal cinema di denuncia: i suoi protagonisti, infatti, si muovono come in una delle numerose pellicole che raccontano il gioco d’azzardo. Come i professionisti del tavolo verde si trovano ad affrontare un croupier, i protagonisti de La grande scommessa (The Big Short, il titolo originale inglese, fa riferimento alla vendita allo scoperto di un’obbligazione o di uno strumento finanziario) affrontano le grandi banche con un portafoglio di titoli al posto di una mano di carte. La moralità delle operazioni in corso non viene quindi mai giudicata. Il montaggio, come già nel molto celebrato The Wolf of Wall Street, è spesso sincopato e sottolinea la frenesia e la spregiudicatezza di tale gioco.

Con questo ritmo, a tratti stordente, il film si propone di raccontare in maniera estremamente semplice, attraverso l’uso di inserti di natura satirica, i meccanismi della finanza globale. A piccoli siparietti interpretati da attori e personaggi famosi vengono infatti demandate le funzioni esplicative che la pellicola si propone: si possono così vedere delle gag in cui Selena Gomez o Margot Robbie spiegano, con esempi comuni, prodotti finanziari complessi come swap o subprime. Se da un lato questi inserti permettono anche a un adolescente digiuno di finanza (il ricorso a icone giovanili rivela la volontà del regista di parlare a un pubblico molto amplio) di comprendere cosa stia accadendo, dall’altro l’eccesso di astrazione e l’interruzione del racconto portano alla perdita di aderenza realistica e ostacolano la ricerca di un giudizio più etico. Con questi brevi episodi lo spettatore viene sì istruito rispetto a un mondo distante e inesplicabile, ma viene anche posto in una condizione di totale irrealtà. Il paradosso del film è per certi versi estetico: per rendere comprensibile allo spettatore medio ciò che sta accadendo è necessario allontanarsi dalla vicenda, aprirsi a momenti di carattere didattico, perdendo così di vista la progressione drammatica.

Riuscito è invece il tentativo di Adam McKay di rappresentare il mondo degli operatori di borsa in forma di macchiette da opera buffa. Nevrotici, ruffiani, guasconi, i protagonisti di La grande scommessa sembrano usciti da uno spettacolo della commedia dell’arte, incarnando più i tic e le manie della contemporaneità che non i loro corrispettivi in carne ed ossa. Non è quindi un caso che molte volte venga rotta la “quarta parete”, e che, come in uno spettacolo teatrale, i personaggi interloquiscano liberamente con gli stessi spettatori.

La grande scommessa è però un film che si arrischia su strade nuove e permette, seppur confusamente, di comprendere molti aspetti di un mondo altrimenti precluso al pubblico generalista. Un lavoro filmico, quello di Adam McKay, che non soddisfa tutte le richieste di chiarezza e soprattutto l’intento di critica più volte enunciato nel film stesso, ma che al contempo sottrae la finanza al cerchio ristretto degli addetti ai lavori per renderla comprensibile a chi, delle scelte di Wall Street, spesso subisce solo le conseguenze. Un piccolo risultato, che vista la scarsa filmografia dedicata al grande pubblico su temi economici, rende La grande scommessa già un piccolo successo cinematografico meritevole di una visione attenta e di uno sguardo clemente.



Ultimo numero

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza