Dinnanzi a una crisi non solo economica, ma culturale, anche Mauro Magatti, professore di Sociologia all’Università Cattolica di Milano, prende posizione nel suo ultimo libro. La parola “contrazione” che appare nel titolo richiama facilmente il rallentamento della crescita delle opportunità e il ridimensionamento degli stili di vita a cui siamo abituati, ma evoca anche il travaglio del parto che annuncia la nascita di qualcosa di nuovo; nel nostro caso, un altro modello di sviluppo e un pensiero innovativo sul vivere insieme, in cui la crescita proceda non più ritmata dall’espansione quantitativa, tipica dell’ultimo trentennio (1980-2008), ma sulla base di una eccedenza qualitativa che fa leva sulla ricchezza umana e spirituale che un mondo di persone libere può sprigionare. Ed è proprio sulla libertà – ovvero sulla decisione, in condizioni di libertà, di usare responsabilmente questo bene prezioso – e sui suoi fallimenti (cap. I) che l’Autore insiste sia per rileggere ciò che è accaduto, sia per immaginare il passo in avanti. Quale idea di libertà abbiamo in mente, come singoli e come società? Il libro di Magatti si apre ripercorrendo i tratti salienti dell’ascesa e dell’affermarsi del capitalismo definito “tecno-nichilista”, ampiamente discussi in un suo precedente testo (Libertà immaginaria, 2009). Liberalizzazione dei mercati, flessibilizzazione del lavoro e delle relazioni e finanziarizzazione sono processi innescati dalla richiesta di autonomia del mondo economico dai vincoli istituzionali, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. La loro combinazione con la protesta soggettiva verso ogni forma di gerarchia sociale, in nome dell’affermazione illimitata della libertà individuale, costituisce il principale fattore di ristrutturazione del capitalismo occidentale. La tecnica ne diviene un forte alleato: essa risponde appieno alle medesime esigenze soggettive e sistemiche, offrendo i binari entro cui l’infinita varietà delle azioni può aver luogo, potenziando enormemente gli scopi perseguibili. Ma altrettanto formidabile è il contributo offerto da una particolare visione filosofica del mondo che fa leva sul nichilismo: sostrato culturale adatto a manipolare ogni significato, così da non impedire la libertà identificata con la continua crescita delle opportunità. Anziché investire nello sviluppo di lungo pe</p><p>riodo, la ricetta prevede l’espansione senza limiti della platea dei liberi consumatori, stimolandone il desiderio e l’illusione della sua soddisfazione. Come per incanto, la potenza (sistemica) e la volontà di potenza (individuale) vanno a nozze, rafforzando l’illusione della liberazione da ogni vincolo e alimentando la ricerca ossessiva del nuovo, qui ed ora. Anzi, è la stessa volontà di potenza dei soggetti a divenire l’energia interna al sistema, la spinta sull’acceleratore dell’espansione economica che procede divorando energie e risorse. Il capitalismo tecno-nichilista è, per Magatti, anche un immaginario che sostiene logiche di strutturazione dei rapporti e delle rappresentazioni sociali. Cruciale è lo sganciamento tra funzioni e significati, al di là del fatto che vi sia un senso in ciò che accade. Questo immaginario costituisce, ribadisce l’Autore, il substrato della crisi nelle sue molteplici articolazioni (cap. II), sulle quali egli si sofferma ampiamente scandagliandone aspetti noti e meno evidenti. Ad essere colpito dalla crisi è, non a caso, il cuore pulsante del capitalismo globale: nel 2008, nel giro di poche settimane molte delle principali istituzioni finanziarie rischiano il crollo, subiscono un infarto (cfr p. 84), che, in quanto tale, spinge a ripensare lo stile di vita. Tuttavia, chiedere un simile cambiamento dopo decenni in cui si è proclamata la libertà ab-soluta risulta improponibile. Ma la crisi, oltre che finanziaria, è anche energetica e sociale. Basti guardare all’eccesivo sfruttamento dell’ambiente, alla frammentazione della solidarietà e delle relazioni sociali, alla crescita esponenziale delle disuguaglianze globali e locali. Il limite del capitalismo tecno-nichilista viene così identificato nella dinamica che gli è propria: quanto più si afferma in modo autoreferenziale, tanto più rivela le sue contraddizioni, perché erode le risorse che ne alimentano il circuito. Abbiamo perso il senso della realtà (emblematico il lievitare del debito che “mangia” il futuro), il rapporto di reciprocità con la natura (ignorando i limiti), e con l’altro (come mostra la crisi dei legami sociali). L’impressionante energia che si è sprigionata nel trentennio di espansione economica, sia a livello sistemico (basti pensare allo sviluppo della tecnica o alla finanza) sia in termini di opportunità individuali, ha mostrato il potere della libertà: il potere, appunto, di perdersi. Giustamente nel testo si mettono in evidenza i rischi che stiamo correndo, tuttavia, nessuna nostalgia viene ammessa: infatti, non si tratta di tornare indietro, di ipotizzare una limitazione della libertà. Il punto non è riavvolgere il nastro della storia ripristinando delle fissità (normative, istituzionali, ideologiche) che pretendono di manipolare la realtà. Si tratta – suggerisce l’A. – di stare dentro la storia, apprendendo da essa, assecondando i percorsi positivi che la fase storica alle nostre spalle ha prodotto e provando a cambiare rotta. Lungo questa direzione, la seconda parte del testo (capp. III-IV) si apre attorno a una domanda: che cos’è la crescita nelle società avanzate e attraverso quali modalità è possibile (ri)generarla? Detto altrimenti: il nostro benessere può diventare meno frustrante e la nostra crescita può produrre significato, o è destinata solo a distruggerlo? L’analisi procede tracciando, da un lato, un nuovo immaginario della libertà che, dal punto di vista culturale, costituisce l’indispensabile precondizione per un discorso sulla crescita e, dall’altro, provando a indicare percorsi di innovazione istituzionale che dal punto di vista strutturale possano segnare un cambiamento nella direzione di un miglioramento del mondo. Si delinea così una libertà qualificata come “generativa” – termine mutuato dallo psicologo sociale tedesco Erik Erikson (1902-1994) –, cioè una libertà che riammette responsabilmente la realtà. Essa si concepisce come risposta alle interpellazioni provenienti dall’altro, dal mondo, dalla storia, dall’ambiente, dalle generazioni future; una libertà che riconosce la propria natura intimamente relazionale e, quindi, intersoggettivamente consapevole. Si tratta di una libertà che fa esistere qualcosa di valore per sé e per gli altri, dotandolo di significato, attingendo a quei bacini dentro la vita sociale plurale in cui i significati vengono elaborati e custoditi. In tal senso, l’A. accenna alla crucialità di ambiti quali la sfera religiosa (capace di salvaguardare l’apertura dell’uomo allo spazio sacro dell’infinito e alle domande di senso), l’educazione e la formazione (che, appositamente ripensate, sono preziose per la libera discussione), l’esperienza della natura (nella sua apertura sul mistero). L’immaginario della libertà generativa non è un movimento soggettivo: esso forgia una cultura della generatività, informando un pensiero dell’economia, delle società, delle istituzioni. A partire da questo quadro interpretativo di riferimento, Magatti insiste sul fatto che non si tratta di cercare la soluzione nella decrescita; anzi, questa può addirittura essere fuorviante. La crescita va infatti iscritta dentro la capacità umana di desiderare; altrimenti detto, essa potrebbe essere compresa come la traccia secolarizzata dell’attitudine trascendente propria dell’uomo, cioè di quella sua apertura che lo spinge a oltrepassare il dato contingente, nella continua tensione verso qualcosa di altro e di oltre. Ritorna, anche a questo livello, il riferimento – imprescindibile per l’A. – alle premesse antropologiche che sottendono al modello di sviluppo e di organizzazione della vita sociale. Il punto è considerare oggi tale questione in maniera meno univoca, imparando a riconoscere che la volontà di potenza non esaurisce l’intera realtà umana. Noi siamo anche debito, desiderio di legame con altri, giudizio, empatia, cura, fragilità. La crescita di cui abbiamo bisogno è quindi sociale, culturale e istituzionale, oltre che economica: una crescita che valorizzi dimensioni diverse dell’esistenza umana, considerandole in correlazione, e che sia capace di produrre valore. Questo termine può indurre a fraintendimenti, a motivo del riposizionamento che esso subisce nel momento in cui il nichilismo diviene una logica di organizzazione della vita sociale. L’identificazione del concetto di valore in termini di “preferenza individuale” e/o di successo di mercato viene ampiamente ridiscussa dall’Autore che, non a caso, definisce la crisi propriamente come “crisi di valore”. Affinché l’economia torni a radicarsi nei mondi sociali, si profila la necessità di una nuova teoria (da cui una nuova prassi) del valore, che ne consideri sia la dimensione relazionale (il valore può essere solo “condiviso”, prodotto insieme) sia quella legata al senso (il valore non è riconducibile alla mera dimensione economica e tanto meno finanziaria). Nel momento in cui la crisi esplode, non sono solo i territori e le comunità, ma anche le imprese – e persino alcuni autorevoli sostenitori del precedente modello economico – a comprendere che non è più possibile produrre con successo valore economico se si prescinde dalla relazione con gli attori, nonché tra questi e l’ambiente circostante. Una relazione che si qualifica in termini di “alleanza”, intesa come ristabilimento di legami, di condivisione di significati tra apparati politico-istituzionali e soggettività sociali (imprese, associazioni, terzo settore, famiglie), e anche tra singoli cittadini, diventando espressione della libertà generativa. A partire dalla preziosità del pluralismo dei soggetti e dei mondi sociali organizzati, le forme di alleanza immaginate sono multiple e multilivello, hanno luogo tra diversi e con i lontani, data la possibilità di costruire reti che poggiano su una infrastruttura globale, e si pongono come obiettivo la creazione di valore di comune interesse; altrimenti detto, di bene/i comune/i: in tale direzione, viene tracciata la fisionomia di una “economia della contribuzione” (in cui si producono beni ad alto contenuto relazionale, contestuale e cognitivo), di nuove forme di sussidiarietà, di un welfare più socializzante, di una impresa che innova non solo tecnicamente, a partire dai molti sforzi già visibili in diverse realtà, orientati a spostare la transizione individuo- collettività dal piano del diritto al godimento a quello della responsabilità che stimola la cittadinanza attiva. Se dentro la grande contrazione che stiamo attraversando non ci si adegua a riparare i danni sistemici e non ci si appiattisce a ricercare solo vantaggi marginali lungo la direttrice dell’espansione della volontà di potenza, allora la crisi può segnare un balzo in avanti. «Non si riuscirà a dare una soluzione positiva alle gravi difficoltà nelle quali ci dibattiamo semplicemente rinviando le questioni di fondo, in nome di un realismo che finisce per essere mera accettazione dello status quo. Ci sono momenti in cui la discontinuità storica chiede innovazione di pensiero» (p. 234), così scrive l’A. Chinarsi, anche intellettualmente, sulle ferite della nostra libertà per raccoglierne i fallimenti e aprire strade percorribili per il suo riscatto esprime un profondo rispetto verso la realtà, che non è semplicemente un problema da manipolare, ma una domanda aperta. La sezione del testo in cui vengono delineate le piste per una “crescita di nuova generazione” è la parte probabilmente meno definita, ma è anche la pagina che rimane significativamente da scrivere insieme: il futuro è davanti a noi. La nuova traiettoria è impegnativa – conclude Magatti – quanto straordinaria, dal momento che è la nostra libertà a essere messa in gioco: di questo «non possiamo davvero lamentarci» (p. 333).
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