«Dal punto di vista figurativo», scriveva Federico Fellini durante la lunga e travagliata gestazione del suo Casanova, «il Settecento è il secolo più esaurito, esausto e svenato da tutte le parti. Restituire originalità, una nuova seduzione, una visione nuova di questo secolo è un’impresa disperata». Davanti a tali considerazioni (e a cotanto scrivente), non si può certo dire che il regista greco Yorgos Lanthimos manchi di coraggio. Tanto più che questo suo ultimo La favorita è una scommessa sotto diversi punti di vista. Non solo si tratta del suo primo film in costume (settecentesco, appunto), ma è anche il primo in cui fa a meno del proprio co-sceneggiatore abituale, Efthymis Filippou, e accetta di dirigere “su commissione” la sceneggiatura di Deborah Davis e Tony McNamara. La favorita è soprattutto una sfida che Lanthimos lancia al proprio cinema, ormai giunto a una tale autoconsapevolezza (tematica e stilistica) da mostrare qualche inevitabile segno di cedimento. Basti ricordare il recente Il sacrificio del cervo sacro (presentato a Cannes nel 2017 e distribuito in Italia un anno più tardi), nel quale la riscrittura dell’Ifigenia euripidea, condotta con impassibile e chirurgica freddezza, finiva per tradursi spesso in un cinismo facile e compiaciuto, per quanto servito da una regia assolutamente impeccabile.
Con La favorita, invece, si ha l’impressione che Lanthimos abbia davvero voluto compiere lo “scatto di reni” necessario per uscire dal suo cul de sac, ritrovando inaspettato vigore in una satira alla Jonathan Swift, feroce e sopra le righe: il riferimento all’autore de I viaggi di Gulliver e della Favola della botte non è casuale, e non soltanto perché viene citato esplicitamente in un dialogo del film. Sia pure con qualche semplificazione e qualche aggiustamento cronologico, l’ambientazione de La favorita è la corte britannica di inizio Settecento, dal 1702 al 1714, sotto il regno di Anna Stuart (interpretata da Olivia Colman, già diretta da Lanthimos nel fortunatissimo The Lobster); più precisamente, gli anni intorno al 1709-1710, che videro acuirsi la contrapposizione fra il Lord Gran Tesoriere Sidney Godolphin (James Smith) e il Cancelliere dello Scacchiere, il più giovane e ambizioso Robert Harley (Nicholas Hoult), sullo sfondo della Guerra di successione spagnola (1701-1715). Un microcosmo di corruttele e ricatti che Swift, giornalista e uomo di corte, conosceva molto da vicino, e che, sotto il velo dell’iperbole, metterà alla berlina di lì a qualche anno nel suo capolavoro satirico.
La “favorita” del titolo è la duchessa di Marlborough (Rachel Weisz, anche lei già interprete di The Lobster). Una donna spigolosa, pragmatica e spregiudicata, che sfrutta la propria intimità con la sovrana per favorire sia la carriera militare del marito John Churchill (Mark Gatiss), impegnato nella guerra sul continente, sia il suo alleato Godolphin. La sua influenza comincia a incrinarsi con l’arrivo a corte di una cugina di rango inferiore, Abigail Hill (Emma Stone), che la duchessa è costretta ad accogliere presso di sé in nome delle convenienze sociali, ma nei confronti della quale nutre un neanche troppo velato disprezzo. Sulle prime maldestra e completamente all’oscuro delle manovre di palazzo, Abigail si rivela in breve tempo tutt’altro che ingenua: stretta alleanza con Harley, desideroso di prendere il posto di Godolphin, la ragazza si serve della propria affabilità naturale per entrare gradualmente nelle grazie della regina, finendo per esautorare Lady Marlborough e per allontanarla definitivamente da corte.
Il Settecento di Lanthimos è regolato da leggi rigorosissime, al pari dei mondi più o meno distopici dei suoi film precedenti (la cattività familiare di Kynodontas, il “gioco di ruolo” di Alps, la metamorfosi animale di The Lobster). Ne La favorita il principio regolatore oppone il basso all’alto: da una parte lo sporco (Abigail che sprofonda nel fango al proprio arrivo) e la violenza incontrollata di tutti i tipi (Lady Marlborough minacciata di stupro in un casale di contadini); dall’altro il decoro e la crudeltà raffinata degli intrighi politici. I due mondi, insomma, sono speculari, diversi nella forma ma non nella sostanza. Così, anche se la sontuosità visiva de La favorita deve qualcosa a certo cinema in costume britannico – si pensi al Greenaway de I misteri del giardino di Compton House (1982), oppure all’Orlando (1992) di Sally Potter (con cui peraltro condivide la costumista, Sandy Powell) – Lanthimos si smarca senza troppa difficoltà dai modelli, riuscendo a dar vita a un secolo dei Lumi a suo modo inedito sul grande schermo, nel quale l’ostentata raffinatezza convive con crudeltà inaudite. In questo senso, sono particolarmente esemplari due momenti: la corsa delle anatre, dalla forte carica metaforica, durante la quale la macchina da presa del regista si sofferma al rallentatore sui volti dei Lord, sottolineandone le espressioni grottesche e belluine; e l’accostamento, attraverso alcuni rapidi stacchi di montaggio, fra il ballo di corte e il tiro al piccione, nel quale le due cugine-rivali sembrano sublimare il reciproco desiderio di annientamento.
«Far torto o subirlo», scriveva Manzoni; manovrare per non essere manovrati, suggerisce Lanthimos. Il quale, tuttavia – altro aspetto innovativo rispetto ai suoi film del passato – apre squarci di sofferenza e autentica umanità. La regina Anna di Olivia Colman, non a caso premiata all’ultimo festival di Venezia con una Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, da questo punto di vista è il personaggio cardine del film, e non solo perché è il perno necessario su cui poggiano le altre due protagoniste. Presentata, soprattutto nella prima parte, come una figura caricaturale – lei sì, davvero degna di Swift – capricciosa, golosa, un poco ottusa e tormentata da malattie più o meno immaginarie, lascia trasparire man mano una sua tormentata sensibilità di persona fragile e bisognosa di amore, costantemente frustrata nel suo desiderio di maternità: una delle scene più toccanti del film la vede invitare Abigail a giocare coi suoi tredici conigli nani, uno per ognuno dei figli abortiti o nati morti. Nella realtà, la regina rimase incinta almeno diciotto volte, ma, a causa di una malattia autoimmune, non riuscì a portare a termine quasi nessuna gravidanza: l’unico figlio che superò i due anni d’età, Guglielmo di Gloucester, morì undicenne nell’anno 1700.
Come si vede, sono parecchi i fili che Lanthimos intreccia in questo film. Tuttavia, se La favorita si limitasse a una diligente illustrazione del Settecento o del rapporto fra ragione (di Stato) e sentimento, non si andrebbe oltre a un buon esempio di cinema “d’autore”, che coniuga l’intrattenimento con la riflessione: insomma, una sorta di Eva contro Eva in vesti di broccato. L’elemento davvero innovativo, che eleva la vicenda del film a parabola sull’oggi, riguarda la messa in scena dell’azione politica. Per quanto il cinema di Lanthimos sia sempre stato politico, anche quando ambientava i suoi film in un mondo futuribile e vagamente astratto, ne La favorita lo è in modo più esplicito del solito, per come raffigura, alle spalle delle protagoniste, la nascita dei regimi parlamentari moderni (Godolphin e Harley rimandano, nel film, rispettivamente ai Tory, espressione dell’aristocrazia terriera, e ai Whig, rappresentanti della borghesia mercantile). Si tratta, come si può intuire, di una messa in scena disincantata e impietosa, nella quale l’efficace amministrazione del regno passa in secondo piano rispetto alla più elementare lotta per la conservazione del potere: una strategia priva di una qualsiasi prospettiva per il futuro e concentrata unicamente sull’hic et nunc. Parlando dell’Europa di ieri, insomma, Lanthimos e i suoi sceneggiatori sembrano alludere più o meno scopertamente all’Europa di oggi, in cui le istituzioni parlamentari – nate appunto nel Settecento “contro” l’assolutismo monarchico – appaiono stritolate fra le proprie contraddizioni e le spinte antidemocratiche e autoritarie di più o meno vasti settori della popolazione.
Lanthimos, come di consueto, non fornisce soluzioni né intende impartire lezioni morali. Tuttavia, poiché nell’ultima Mostra veneziana i film in concorso ambientati nel passato erano una schiacciante maggioranza (quindici su ventuno), la sensazione è che anche lui, come altri registi presenti al Lido (da László Nemes a Mike Leigh, da Alfonso Cuarón a Mario Martone) stia cercando, attraverso uno sguardo rivolto al passato, di far luce sul nostro oscuro presente, per scongiurare i timori riguardo un futuro persino più preoccupante.