La casa dei fiori selvatici

Mathangi Subramanian
TEA, Milano 2022, pp. 396, € 12
Scheda di: 
Fascicolo: maggio 2022

Il romanzo di Mathangi Subramanian è ambientato in India, in una baraccopoli di Bangalore.

Raccoglie, come piccoli e preziosi frammenti, le storie di cinque ragazze e delle loro famiglie. Il tempo è fermo, sospeso in quel giorno in cui i bulldozer decisi a distruggere le baracche si fermano, arrestati dalla tenacia delle donne decise a difendere le loro case.

Il tempo fermo si dilata nel passato e si apre alla narrazione.

 

Le origini indiane dell’A., vissuta negli Stati Uniti, la portano a desiderare di incontrare nuovamente la propria terra, riscoprire la sua gente. Così nel 2012, dal Colorado, si reca con il marito in India, a Bangalore. Trascorre sei anni con la gente del posto, in particolare con i più poveri. Impara la lingua tamil e il dialetto kannada. Percepisce, ascolta, vede. Decide di adottare una bambina. Nel 2019 rientra in Colorado. Qui riordina i materiali: pensa di scrivere un testo documentario, ma tutte quelle carte diventano invece la struttura di tante vive storie che riportano le voci ascoltate, voci soprattutto di donne.

Nei pressi delle scuole pubbliche, unico luogo in cui le donne possono riunirsi liberamente, l’A. le incontra: ragazzine con sogni di libertà, desideri per il futuro che si scontrano con la cruda realtà; giovani donne alle prese con la prima gravidanza; donne anziane che conoscono tutto della baraccopoli in cui vivono, poiché nata insieme con loro.

 

Nasce così La casa dei fiori selvatici. L’A. traccia con acuta finezza il profilo di cinque ragazze: Deepa, Banu, Joy, Rukshana e Padma. Cinque amiche, nate nello stesso anno, tra le instabili mura delle baracche; simili tra loro e allo stesso tempo così diverse. Nelle loro vite riusciamo a cogliere il profumo dei fiori selvatici, tanto delicato e fragile, il quale si nasconde negli impercettibili confini tra la povertà estrema e l’estrema ricchezza di umanità:

«Se aprite i nostri quaderni di scuola, vedrete che sono pieni. Pieni di brani copiati dai libri di testo in inglese, di cifre calcolate sulla punta delle dita, di avvenimenti che riscriveremo parola per parola al prossimo esame di geografia. Tecnicamente, anche i quaderni di Banu sono pieni. Solo che non sono fitti di scritte, avvenimenti e cifre, come dovrebbero essere. Sono pieni di persone. Di ritratti di persone. O, per meglio dire, della gente di Paradiso. L’arrotino dalle labbra sottili, che sa di punch la sera e di metallo al pomeriggio. La spazzina che abbina i grossi orecchini di plastica dorati al gilet fluorescente della divisa. [...] I disegni di Banu sono ricchi di dettagli: fossette sul mento, calli sulle mani, macchie di grasso sulle ginocchia. Cicatrici lasciate da una lotta, dalla delusione e dalla paura. I suoi schizzi fanno apparire il nostro mondo un universo complesso, significativo, prezioso. Un’opera d’arte. La povertà avrà pur reso la nostra vita orribile, ma nei disegni di Banu la nostra sopravvivenza trasuda bellezza» (pp. 42-43).

 

Le vicende toccano molteplici temi: le relazioni familiari, la maternità, il sacrificio, i limiti e l’accoglienza, la dignità della persona.

Un personaggio di rilievo è la direttrice della scuola statale, Janaki Ma’am, la quale tiene molto ai suoi allievi e si spende affinché anche le ragazze più povere possano accedere ai corsi di livello superiore per riscattarsi da una condizione tanto precaria.

Nel racconto emerge un punto di vista originale, quello della prima persona plurale. L’A. spiega questo in due modi. Esso raccoglie il sentire comune tra le ragazze che in età adolescenziale condividono l’amicizia: vincolo che unisce anche in un medesimo modo di sentire, di sognare. Ma nella genesi del libro questo “noi” include anche le tante donne della comunità che dimostrano una mirabile cura l’una per l’altra.

 

È interessante notare che il titolo originale dell’opera, scritta in inglese, è A People’s History of Heaven. La baraccopoli in cui si svolgono le vicende porta infatti questo nome paradossale: Heaven, cioè “Paradiso”. Si tratta di un caso, o più concretamente del risultato di un cartello spezzato a metà. Un nome che esprime però anche una realtà e insieme un desiderio: realtà di casa; desiderio di felicità.

 

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