L’ora più buia

Joe Wright
Working Titles Films, Regno Unito 2017, drammatico 114 minuti
Scheda di: 
Fascicolo: giugno-luglio 2018

La trama del film

Maggio 1940. Il buio scende sul Regno Unito nel giorno in cui Hitler invade la Francia. La Camera dei Comuni si accorge dell’inutilità della strategia politica dell’anziano primo ministro conservatore Chamberlain, che cerca di patteggiare con una Germania nazista del tutto indisposta a rinunciare alle proprie pretese espansionistiche sull’Europa. Nel tentativo di evitare che la disfatta francese si trasformi in una catastrofe anche per i sudditi di re Giorgio VI, mentre l’intero esercito britannico batte in ritirata sulla spiaggia di Dunkerque sotto il tiro dell’aviazione tedesca, Londra affida il governo a un burbero e controverso esponente del partito conservatore, Winston Churchill.

L’ombra della Seconda guerra mondiale cala come una cortina di angoscia e paura sull’Europa. Ambientato nel 1940, anno in cui la potenza della Germania di Hitler si trovava al suo apice, L’ora più buia ben rappresenta uno dei momenti più cupi e drammatici che il Regno Unito abbia mai dovuto affrontare nel corso della sua storia. Il personaggio schivo, severo e pragmatico di Winston Churchill, interpretato da un quasi irriconoscibile Gary Oldman (vincitore, per questo ruolo, di un premio Oscar), ne è il perfetto protagonista. Dalla sua camera da letto alle aule del Parlamento londinese, dai corridoi di Buckingham Palace alle stanze del consiglio di guerra, egli si muove infatti – complice anche una studiatissima direzione della fotografia – in una quasi costante penombra.

Girato in buona parte all’interno di spazi chiusi, il film di Joe Wright si pone in posizione complementare rispetto all’aereo e suggestivo affresco cinematografico dei fatti di Dunkerque realizzato pochi mesi fa da Christopher Nolan (Dunkirk, 2017). All’accostamento dissimmetrico di diversi piani temporali e di narrazioni che procedono con ritmi e velocità diverse, mediante cui Nolan costringe lo spettatore a immedesimarsi nei soldati in fuga, Wright contrappone una serrata cronologia scandita da numeri e date che scorrono impietosi sullo schermo e divorano il tempo a disposizione di Churchill, che gestisce la difficile crisi militare da “dietro le quinte”.

Terzo ritratto che il cinema britannico dedica al celebre politico inglese in appena più di un anno – dopo quello di John Lithgow nella serie The Crown (2016) di Peter Morgan, e quello di Brian Cox in Churchill (2017) di Jonathan Teplitzky –, questo film non racconta probabilmente nulla di nuovo sulla vita o sulla personalità del noto uomo politico. Il tentativo di Wright sembra piuttosto quello di servirsi della figura di Churchill per ridare spessore a un fervido (e talvolta ostinato) patriottismo, che fu decisivo, a suo tempo, per superare il dramma emotivo da cui i britannici furono investiti in seguito alla battaglia di Dunkerque.

È innegabile che l’orgoglio nazionale di questo popolo e la sua perseveranza nel difendere la propria autonomia si siano rivelati, più volte nella storia, qualità determinanti nel fare la differenza tra la salvezza e la rovina del Regno Unito. Tuttavia davanti ai titoli di coda de L’ora più buia non si può fare a meno di interrogarsi sul perché, oggi, una retorica politica di questo tipo possa risultare così apprezzata. Sebbene i suoi contenuti fuoriescano direttamente dagli archivi della storia e siano ben contestualizzati e interpretati dal punto di vista drammaturgico, sotto l’aspetto narrativo il film insiste intenzionalmente sull’identificazione tra la “libertà” e la “vittoria” ottenuta per mezzo della resistenza a oltranza.

La pellicola ritrae Churchill nell’atto di farsi interprete della volontà del popolo inglese, cui attribuisce una fede incondizionata nella resistenza “costi quel che costi” allo scopo di difendere la patria. Il messaggio è chiaro: una politica che non ascolta la voce del popolo è condannata a diventare la caricatura di se stessa. Questa valorizzazione dell’opinione dei commoners vuole di certo rappresentare un incoraggiamento per le sfiduciate e affaticate democrazie europee. Tuttavia, come non scorgere nei toni patriottici delle orazioni di Churchill una lieve assonanza con quelli aspri e precipitosi della campagna in favore della Brexit?

Il rischio di confondere la democrazia con la soddisfazione della “pancia” del popolo rimane sullo sfondo, tanto che il film sembra talora accondiscendervi. La scena ambientata nel vagone della metropolitana, ad esempio, il cui scopo sarebbe quello di raccontare un confronto sincero e onesto tra un leader e il suo popolo, si rivela eccessivamente ammiccante. I personaggi presentati sono “troppo” simpatici, e mirano a ottenere la veloce approvazione del pubblico riguardo a una decisione tutt’altro che scontata, da cui dipendeva la vita di trecentomila giovani militari inglesi. Questa scena, eco cinematografica di un episodio neppure storicamente confermato, è forse l’unica caduta di stile di una sceneggiatura che per il resto non delude.

La serietà e l’urgenza della crisi politica, seppure onnipresenti, sono abilmente intrecciate con l’esplorazione delle personalità dei protagonisti: emerge così il pungente umorismo che il Primo ministro non esita a rifilare nemmeno a re Giorgio VI; le preoccupazioni e la severa indulgenza di quest’ultimo; la tenera e dolceamara ironia della moglie di Churchill, Clementine, di cui il regista mette spesso in evidenza la presenza di spirito e la forza d’animo. Wright non rifugge, infatti, dal riconoscere alle donne il ruolo che spetta loro, sebbene all’interno di un contesto sociale e politico ancora massicciamente dominato dagli uomini. Un’attenzione particolare viene riservata anche alla segretaria personale di Churchill, nelle cui lacrime, versate per un fidanzato che rischia la vita al fronte, lo spettatore potrà notare il riflesso del terrore e dell’angoscia dei giovani protagonisti del Dunkirk di Nolan. La cura maniacale riservata alla gestione dei tempi e degli spazi scenici permette, infatti, di assaporare a fondo i dialoghi e l’espressività dei personaggi, che rappresentano, insieme al trucco (per cui la pellicola ha vinto un secondo Oscar), la vera qualità di questo film.

Dal punto di vista storico, fiducioso che lo spettatore sappia che la crisi di Dunkerque si risolse con il recupero dell’esercito britannico (grazie all’aiuto di una flotta di imbarcazioni civili che fu impiegata nella cosiddetta “Operazione Dynamo”), il regista decide di soffermarsi maggiormente sul rapporto tra Churchill e i suoi avversari politici, i lord Chamberlain e Halifax, anch’essi membri del partito conservatore. Di fronte alla loro meschinità, che li impegna in una cospirazione finalizzata a screditare Churchill, servendosi dei risvolti drammatici della crisi che essi stessi lo hanno chiamato a risolvere, Winston incarna la figura del leader politico “tutto d’un pezzo”. Integro sul piano morale e su quello dei propri ideali, franco nel parlare, cosciente dei propri mezzi e devoto a un re con cui impara a dialogare e a confrontarsi, pur sapendo di essere (almeno inizialmente) da lui disprezzato, si può davvero credere che, nel maggio del 1940, egli andasse a letto la sera «convinto che il compito giusto avesse trovato l’uomo giusto» (cfr Jonas H., Il principio responsabilità, cap. IV, par II).

Ma anche i più virtuosi, determinati e cocciuti servitori del proprio Paese devono fare i conti con le responsabilità che il potere comporta. Le scelte presenti risuonano sempre, infatti, dei fardelli del passato e dei timori che l’incertezza del futuro porta con sé. Quando la situazione è disperata nemmeno Winston Churchill risulta immune dal dolore delle lacerazioni che il freddo calcolo politico, per quanto giustificabile sulla base di oggettivi pro e contro, arreca alla coscienza. Così, i movimenti verticali della macchina da presa, che si alza e si abbassa più volte sulla testa del protagonista e dei suoi sottoposti, esprimono visivamente la spietatezza di un potere che, quando è calato sulle spalle dell’uomo, lo costringe a percepirsi sempre come piccolo e insignificante. Sia quando riceve degli ordini, che possono piombare inattesi e crudeli come bombe che sacrificano i pochi a vantaggio del bene dei molti; sia quando li impartisce, laddove essi hanno ripercussioni imprevedibili e funeste per chi, innocente, si trova casualmente “dalla parte sbagliata” delle barricate della storia.

Alla fine, di fronte al modo ingiusto e arbitrario di dispensare la morte che la guerra sempre impone, l’unica differenza tra Hitler – il cui successo e la cui malvagità erano per Churchill una vera e propria ossessione – e quest’ultimo consiste nel fine per cui tale potere viene esercitato: la liberazione o la sottomissione totalitaria di un popolo. In situazioni estreme, quando la posta in gioco è la libertà da un male infinito e assoluto, la resistenza a oltranza pare perciò l’unica strategia plausibile. L’ora più buia ci mette, infatti, davanti a questa domanda: che cosa fare quando è troppo tardi per stipulare patti che siano rispettosi della dignità delle parti? Nel contesto drammatico della Seconda guerra mondiale la scelta di “non arrendersi mai” promossa da Churchill si rivelò certamente fondamentale per la vittoria degli alleati, se non addirittura provvidenziale. Ma ciò significa forse che essa sia stata anche portatrice di un’autentica libertà per tutti coloro che ne subirono gli effetti? O che potrebbe essere considerata ugualmente valida anche in circostanze diverse? Queste domande restano molto più aperte di quanto non lascino intendere gli ultimi trionfali fotogrammi del film e ci suggeriscono che ogni rilettura della storia passata, anche se attuata soltanto nella sala di un cinema, dovrebbe indurci a riflettere sul modo in cui ci rapportiamo al nostro presente.

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