L'obiezione di coscienza. Studio sull'ammissibilità di un'eccezione dal servizio militare alla bioetica

Davide Paris
Prefazione di Valerio Onida e postfazione di Renato Balduzzi - Passigli Editori, Bagno a Ripoli (FI) 2011, pp. 332, € 28
Scheda di: 
Fascicolo: maggio 2012
Può capitare che alcuni argomenti, apparentemente destinati a finire nelle cantine del dibattito politico, giuridico o culturale, e a destare tutt’al più l’interesse di qualche storico delle idee, tornino invece prepotentemente al centro della scena, costringendo gli esperti a togliere loro la polvere di dosso e a rimettere mano a meccanismi che, nati per certi scopi, rivivono una seconda giovinezza in settori assolutamente imprevisti e in circostanze totalmente nuove. È il caso dell’obiezione di coscienza, cui è dedicato l’attentissimo studio di Davide Paris, che riproduce, ampliata e rivista, la sua tesi di dottorato, vincitrice tra gli altri dell’edizione 2010 del premio “Leopoldo Elia” bandito dalla Fondazione Astrid (http://www.astrid.eu). Il volume percorre con rigore dottrinale ma agilità espressiva il seguente itinerario: dal fondamento costituzionale dell’obiezione di coscienza (cap. I), all’indagine sui requisiti e le condizioni necessari per ammetterla (cap. II), fino all’interrogativo sul «“chi” abbia la competenza a riconoscerla» (p. 252), se il legislatore o il giudice (cap. III). Considerato dai più uno strumento giuridico nato e cresciuto all’ombra della legge sulla leva militare obbligatoria, si era certi che il venir meno di quest’ultima avrebbe trasformato l’obiezione di coscienza in un istituto giuridico ormai superato. Invece, i casi di obiezione di coscienza che si pongono oggi sono i più vari. Dai medici, quando ad esempio non intendono effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza o prescrivere la “pillola del giorno dopo”; ai farmacisti, contrari a vendere farmaci abortivi. Poi ci sono casi più rari – verificatisi ad esempio in Spagna, ma non ancora presenti in Italia –, di giudici che si rifiutano di registrare i matrimoni fra persone dello stesso sesso, oppure di genitori che non vogliono far frequentare ai figli l’ora di educazione civica, perché vi si insegnano idee non condivise in materia di identità sessuale e di diritti degli omosessuali. In tutti questi esempi, di stringente attualità, l’ordinamento dello Stato è chiamato a misurare la propria capacità di salvaguardare la libertà di coscienza dei suoi cittadini, senza venir meno al proprio dovere di garantire l’effettiva attuazione delle proprie leggi.Una via stretta, in cui sono in gioco tanto il liberalismo dello Stato, la sua rinuncia a legiferare nella sfera dei convincimenti privati, quanto la sua democraticità, che è in primo luogo la capacità di dar seguito alla volontà della maggioranza. Ecco allora che quel vecchio strumento torna a essere utile perché, come osserva acutamente Paris, la “ratio” dell’obiezione di coscienza era appunto quella di conciliare questi due principi fondamentali, nella convinzione che la disponibilità a concedere una deroga alla regola fosse una prova di forza dello Stato, che dimostra in questo modo di saper garantire il rispetto delle proprie decisioni, riducendo al minimo la violenza individuale che vi è inevitabilmente connessa. Il libro di Paris parte da una constatazione piuttosto semplice: le leggi chiedono di essere rispettate, non di essere condivise; ma è anche vero che uno Stato può dirsi pienamente democratico solo se le sue leggi, per quanto possibile, sono frutto del confronto e della cooperazione fra diverse posizioni e mirano comunque a preservarle tutte. Ora, «in presenza di un irriducibile contrasto sociale che il metodo democratico non è in grado di comporre» (p. 316), che cosa impedisce allo Stato, una volta accertata la realizzazione degli scopi che la legge si prefigge, di prevedere delle deroghe in vista della tutela delle coscienze che da quella legge si ritengono danneggiate? Non guadagnerebbe in forza e pluralismo uno Stato capace di garantire gli effetti delle sue scelte senza far violenza su quanti quelle scelte non condividono? L’obiezione di coscienza può, in molti casi, costituire la formula in grado di integrare la vis legislativa dello Stato, e quindi il suo agire anche contro il parere di alcuni, con la sua capacità di far vivere serenamente al proprio interno anche quanti si trovano in disaccordo con le decisioni dei più, senza costringerli ad azioni che ne compromettono l’integrità morale e l’identità. Ne è un esempio l’obiezione di coscienza all’aborto, prevista in Italia dalla Legge n. 194/1978. è evidente che sulla materia è tuttora presente un complesso dibattito filosofico e giuridico che porta a una inconciliabile frattura tra le diverse posizioni. In un caso come questo, il metodo democratico non può conciliare con una soluzione di compromesso queste differenti visioni, ma è costretto a fare una scelta che inevitabilmente, nonostante tutti gli accorgimenti, risulterà “violenta” verso una delle due parti. Per questo motivo il poter esercitare il diritto all’obiezione di coscienza è stato riconosciuto dal legislatore quale garanzia per coloro che ritengono l’aborto una violazione nei confronti del diritto alla vita. Infatti, per quanto la legge pretenda il mero rispetto esteriore dei suoi precetti, vi è pur sempre una soglia oltre la quale l’imposizione di un obbligo che contraddice ai propri principi morali si ripercuote sul piano della libertà di coscienza, obbligando di fatto alcuni a venir meno ai propri valori. Così, se il rispetto della legge porta a compromessi con la propria coscienza che retroagiscono sulle convinzioni dell’individuo, lo Stato sta di fatto violando il principio costituzionale che garantisce il libero sentire di ciascuno, intromettendosi in una sfera che non solo non gli compete, ma la cui salvaguardia costituisce uno dei suoi vessilli. In questo senso, osserva giustamente Paris, vi sono leggi dello Stato per le quali il riconoscimento della possibilità di obiettarvi costituisce un vero e proprio obbligo per il legislatore: nessuno, pur sancendo la facoltà delle donne di interrompere la gravidanza nei modi e nelle forme previste dalla legge, può obbligare un medico a compiere un intervento che ripugna alla sua coscienza. Sta di fatto che se la coscienza va tutelata davanti all’intransigenza della legge, anche la legge ha bisogno di difendersi dalle prevaricazioni delle coscienze. Non tanto e non solo sul piano della verifica della sincerità dell’obiezione, quanto piuttosto per quel che riguarda l’effettiva realizzazione degli scopi perseguiti dal legislatore. All’obiezione di coscienza, in altre parole, non deve essere consentito di assumere forme o dimensioni che compromettano sul piano pratico gli effetti dell’intervento legislativo. La questione non è di poco conto, perché segna uno spartiacque inequivocabile tra il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e il suo uso improprio, ossia quello della lotta politica. Ferma restando l’armonia con il dettato costituzionale, il riconoscimento della possibilità di venir meno a doveri imposti per legge non deve essere inteso come una concessione da parte dello Stato nei confronti delle opinioni della minoranza. Sottolinea ancora Paris: «non sono i fini propri degli obiettori ad essere perseguiti attraverso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, bensì è la coscienza formata a quei valori che viene protetta» (p. 93). L’obiezione di coscienza, in altri termini, garantisce che la dimensione dei convincimenti privati, dei valori personali, delle opinioni e delle sensibilità dei singoli rimanga al riparo dagli interventi legislativi; ciò che non garantisce affatto è che i principi perseguiti dall’obiettore trovino applicazione. I valori di cui gli obiettori si fanno portatori, per affermarsi, hanno bisogno di trovare espressione attraverso le forme proprie della democrazia (il Parlamento, i referendum, la giustizia costituzionale, ecc.); altrimenti se ne altera il gioco. Anzi, aggiunge Paris, «l’obiezione di coscienza, se intende aspirare al riconoscimento, deve accettare di essere neutralizzata nei suoi effetti» (p. 180), presuppone cioè che chi vi ricorre rinunci a perseguire attraverso di essa quanto espresso da quei valori che sono risultati minoritari nel computo democratico. Per questo, non solo all’obiezione di coscienza deve essere impedito di trasformarsi in strumento di lotta politica, attraverso il quale contrastare sul piano pratico i beni giuridici perseguiti dalla legge, ma occorre comprendere che la possibilità stessa di sottrarsi agli obblighi legislativi presuppone il riconoscimento del loro diritto ad essere realizzati: lo Stato, infatti, può permettersi di garantire la libertà di coscienza ai propri membri, la libertà di non condividere le sue finalità, proprio perché questa libertà non impedisce allo Stato di garantire l’effettiva applicazione delle sue leggi e il raggiungimento di ciò che esse perseguono. Quindi, se da un lato alcune leggi hanno nel riconoscimento della possibilità di obiettarvi la condizione della propria legittimità costituzionale, dall’altro il ricorso all’obiezione di coscienza presuppone l’implicito riconoscimento della legittimità della legge da parte di chi se ne avvale. Questa, nota Paris, è la principale differenza fra questo istituto e la disobbedienza civile, che, proprio perché non riconosce la cogenza della legge e cerca di contrastarla sul piano pratico, è a tutti gli effetti una scelta fuori legge. In questo senso ogni strumentalizzazione politica dell’obiezione di coscienza, ogni suo impiego che non abbia di mira la semplice salvaguardia della propria coscienza, ne costituisce un uso improprio. Un rischio che si ripercuote immediatamente sugli stessi obiettori perché, trasformando l’obiezione in un ostacolo alla fruizione dei diritti, la candida a essere percepita dal legislatore come un bene che “non ci si può permettere”, un ostacolo al dovere imprescindibile di dar seguito alla volontà della maggioranza. L’istituto dell’obiezione di coscienza, infatti, rimane una soluzione per salvare a posteriori la coesione del corpus sociale, una sorta di patto di non belligeranza fra maggioranza e minoranza in cui, come conclude Paris, la prima «rinuncia a pretendere la collaborazione della minoranza a scelte che ha sostanzialmente imposto» (p. 317), mentre la seconda «rinuncia a proseguire sul piano applicativo la propria battaglia contro la legge» (ivi), intendendo così correttamente la democrazia come il tentativo di evitare tanto la tirannia della maggioranza quanto quella della minoranza. Queste, «attraverso concessioni reciproche, mantengono aperto un canale di dialogo, […] subordinando le proprie opzioni valoriali al supremo bene della convivenza pacifica» (p. 317). Si tratta di un patto dal profilo alto, che ha di mira la crescita di una società pluralista, in cui possano convivere fedi, culture e tradizioni diverse; ma, proprio per questo, un patto delicato, in cui le parti in causa devono avere piena coscienza di quanto sacrificano firmandolo, perché ciò che un suo uso improprio mette a repentaglio è lo spirito di fiducia e solidarietà fra i membri di un intero Paese.
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