L'idolo
Teoria di una tentazione. Dalla Bibbia a Lacan
L’idolatria è una pratica essenziale che, trovando fondamento nello stesso modo d’essere del soggetto, coinvolge costantemente ogni aspetto dell’esperienza umana» (p. 60). Queste parole restituiscono, per chi scrive, la cifra fondamentale del contributo che il testo di Petrosino offre al dibattito antropologico contemporaneo. Secondo l’A., la tentazione idolatrica si qualifica come tratto costitutivo dell’esperienza umana. La sua costante condanna va di pari passo con un altrettanto ineludibile dato: l’uomo potrà, forse, non passare la sua vita idolatrando questo o quello, ma non potrà mai sottrarsi definitivamente a tale tentazione.
Muovendo da questa constatazione, a partire da alcuni brani a lui cari, che a vario titolo e secondo diverse prospettive riguardano il tema trattato, l’A. riflette – sin dalla prima sezione del libro, intitolata «Letture» – sul modo d’essere dell’unico vivente in grado di fabbricare idoli. Nella sezione successiva, «Accessi», confrontandosi con la filosofia, la psicanalisi e la Bibbia, l’A. si domanda: «Perché l’uomo si consegna con stupefacente regolarità agli idoli sicuro di trovare in essi quella risposta di cui in ogni istante va alla ricerca?» (p. 10). Della riflessione di Martin Heidegger l’A. valorizza la critica mossa alla metafisica occidentale, che ha ridotto l’uomo a un semplice “oggetto tra gli oggetti”, non considerando il posto speciale che occupa nella scena del mondo. L’uomo è finito e mortale, “gettato” nell’esistenza senza conoscere la propria origine e la propria destinazione, e per questo egli sarà sempre un “problema a se stesso”. Col filosofo Ernest Cassirer, l’A. prosegue nel precisare la singolarità umana nel confronto col mondo animale. L’uomo, al contrario del cane, non è dominato dalla reattività istintiva; egli esce dal cerchio incosciente della vita. Nel passaggio dall’universo fisico al mondo simbolico si realizza un nuovo rapporto con le cose, che non rappresentano solo oggetti funzionali al soddisfacimento d’esigenze vitali e bisogni. Per l’uomo non esiste solo il cibo, ma anche il quadro di Van Gogh. Il Sapiens non si caratterizza solo per i bisogni, ma è abitato anche dal desiderio. Egli può fare esperienza dell’altro in quanto altro.
L’indagine prosegue con lo psicanalista Jacques Lacan, riconosciuto dall’A. come il più grande pensatore del soggetto di tutto il Novecento, avendo colto, al di là della lettura freudiana, l’essenziale della rivoluzione del maestro: la radicale contestazione dell’io come centro. Per Lacan il soggetto è ex-centrico, inquietato, mai padrone in casa propria: egli è dove non pensa, e non è affatto ciò che pensa. Dove la filosofia ha immaginato la presenza di un pieno autonomo, troviamo un sé eccentrico, frammentato, dipendente da altro e rinviato a un altrove che il soggetto non controlla né domina. Questa mancanza svela il desiderio, che non è definibile con i tratti del bisogno. La mira di quest’ultimo può sempre andare a segno, riferendosi a un quid nominabile, che trova riscontro entro il cosmos noto. Non così il desiderio. Celebre l’espressione di Lacan, per cui quest’ultimo sarebbe, in fondo, desiderio di niente: in esso si realizza un rapporto da essere a mancanza. L’impossibilità dell’oggetto ricercato di soddisfare il desiderio apre la scena al “fantasma”: l’oggetto, che non è mai all’altezza del desiderio, perderebbe subito d’interesse, se non fosse rivestito e investito di un significato che lo trascende. È così che l’uomo cerca laddove non potrà mai trovare: quella “parte” non sarà mai il “tutto”.
Venendo infine alle Scritture, secondo l’A. all’interno del logos biblico il discorso su Dio e di Dio non è mai separabile dal riferimento all’uomo: “Dio parla” significa “Dio parla all’uomo”. E quando gli si rivolge, dice fondamentalmente: «Non perderti: sii uomo». La costante condanna dell’idolatria strutturante il discorso biblico non mira a un’“auto-difesa” di Dio, ma alla salvaguardia dell’integrità dell’umano. Il divieto di consegnarsi agli idoli, questo no perentorio, deve essere letto in parallelo al suo conseguente sviluppo: il no all’idolatria apre a un sì alla giustizia. Ogni culto a Dio che nell’ansia per la verticalità trascura l’orizzontalità ricade nella tentazione idolatrica. I profeti non cessano di ricordarlo. Dio non è interessato a incensi e assemblee sacre, ma rilancia verso il povero, la vedova, l’affamato. Vi è un’altra differenza. L’idolo, al contrario di Dio, è sempre visibile, pronto a soddisfare l’impazienza dell’uomo, che “sta” e si protende, che tende ma anche pretende. L’attesa, trasformata in pretesa, predispone il soggetto a consegnarsi all’idolo. Il “qui e ora” dell’idolo abolisce il “già e non ancora” di Dio che non cerca, nella creatura, un adoratore quanto un interlocutore. Stabile e solido, l’idolo si contrappone alla dolorosa mobilità del logos biblico. L’idolo cura la ferita del desiderio arrestandone la dinamica e immettendola in un circolo totalitario. Nel farsi possedere dall’idolo, ciò che si perde è la tensione tra il mondo e l’oltre, si abolisce la dialettica tra “qui” e “altrove”. Al contrario, l’esercizio della giustizia promosso da Dio cura il desiderio dilatando la misura dell’amore, attira verso l’al di là del mondo, incarnato nel volto del fratello.
Nella parte terza, «Teoria», s’imposta «[…] la sola questione fondamentale che la pratica idolatrica pone alla riflessione: perché il soggetto decide di costruire l’idolo e di consegnarsi ad esso?» (p. 59). Riprendendo la lezione di Lévinas, Petrosino ritiene che l’uomo inizia a esperire la propria consistenza nel godimento. Qui s’insinua l’idolo. Rispetto allo sconcerto provocato dal desiderio, la sicurezza garantita dal godimento permette una semplificazione dell’esperienza. Inconsapevolmente il soggetto «[…] tende con insistenza a riconvertire la logica del desiderio […] in quella del bisogno […] arrivando così ad individuare […] un punto di appoggio e di riposo nel possesso stesso dell’oggetto. […] Quiete, sostegno, sicurezza, riposo: eccoci finalmente di fronte all’idolo» (p. 78). L’idolo è costruito dall’uomo, esito di una decisione, per fermare il suo sguardo e riposare. A questo punto scatta il processo di “fantasmizzazione” dell’oggetto, che diventa così sostegno del desiderio. L’uomo possiede per godere, individua in una parte il tutto che gli manca, e qui riposa. L’idolo è così rimedio temporaneo, sebbene destinato a fallire. E l’oggetto, puntualmente, fallirà. Il fallimento di un idolo non è però il fallimento degli idoli: nulla vieta di fabbricarne un numero virtualmente infinito.
È allora evidente: solo un soggetto abitato dal desiderio può idolatrare, consegnarsi senza riserve a una parte vissuta come totalità. Il passaggio dal possedere al farsi possedere rappresenta, per l’A., la vera essenza dell’idolatria. Il soggetto reclama d’essere guardato dall’idolo con uno sguardo che abolisce la distanza e placa l’angoscia. Così l’esito ultimo dell’atto idolatrico tramuta il soggetto supposto padrone in uno schiavo volontario, che trova la sua soddisfazione perversa nella risposta all’invocazione volentieri accolta dall’idolo: «Possiedimi!».
La lettura proposta è verificata riflettendo sulla società dei consumi nella quarta sezione, «Esempio». Si distingue il consumo, atto proprio dell’uomo, in sé un bene, dal consumismo, sua degenerazione. Nella logica consumistica è in gioco più il desiderio che il bisogno. Anche qui: «Il soggetto cerca di rispondere con il godimento all’appello del desiderio […], ma poiché rispetto a tale mancanza egli […] non ha alcun vero sapere […] ecco che allora finisce per pensare di non avere altra strada di fronte a sé se non quella di incrementare i consumi» (p. 95). Così nasce la pulsione a consumare, intercettata dal sistema, che alimenta tale delirio con la pubblicità, la cui mira consiste nel coagulare intorno all’oggetto-merce il fantasma. Il consumo poi retroagisce, rendendo l’uomo “malvagio”; pervertendo, cioè, la sua vocazione a coltivare e custodire in una pulsione a possedere e distruggere. Ricercare caparbiamente, laddove non si potrà mai trovare, produce come effetto inevitabile una violenta prassi distruttrice. In tale circolo la costruzione, fruizione e conseguente distruzione dell’oggetto veicola una cattiva infinità, un copione destinato a riprodursi senza tregua, un compulsivo vagabondare da un fantasma all’altro.
L’unica e fragile alternativa possibile al delirio idolatrico è presentata nella sezione conclusiva, «Uscite». Una resistenza, un arresto, uno spazio di riflessione, entro cui l’uomo può decidere di orientare il proprio agire non più secondo l’ordine dell’erezione-distruzione-nuova erezione di un idolo, ma secondo quello dell’accoglienza. L’uomo infatti, pur a prezzo d’un certo sforzo, si scopre capace di dire io senza fermarsi al livello del mio, del godimento illimitato e caparbiamente perseguito: è possibile abitare la Terra senza conquistarla.
Il testo, breve ed essenziale, ben argomentato e corredato da un’ottima bibliografia, è a nostro avviso un apporto prezioso e originale, ove la riflessione sull’idolatria non è condotta in astratto, ma in costante riferimento a colui che la pratica. Questa “piccola antropologia dell’idolatria” si pone come piccola antropologia tout court; poiché alla perversione dello sguardo idolatrico corrisponde sempre, grazie a Dio, una possibilità nuova. L’avervi posto l’accento è il maggior merito dell’A. Un lavoro sull’idolo ben fatto non poteva che condurre al di là dell’idolo stesso. Ed ecco la bella notizia suggerita da Petrosino: l’eccellenza dello sguardo simbolico umano, che riflette e riconosce nello spazio mancante, aperto dal desiderio, non solo una condanna ma anche una risorsa, è un “pre” antropologico, dato e non prodotto, per cui la tentazione dell’idolo rimarrà sempre tentazione, mai destino. L’uomo idolatra perché desidera, non viceversa. Tale ordine di priorità, ontologica diremmo, ci autorizza a sperare. L’apertura insidiata dall’idolo può diventare luogo dell’incontro con il Dio che passa oltre, in un transitare essenziale che chiama l’uomo a mettersi sulle sue tracce.
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