La crisi finanziaria globale si è trasformata a partire dal 2010 in una “eurocrisi”, in cui ci stiamo ancora dibattendo. L’euro è sotto attacco da parte di movimenti e forze politiche di molti Paesi e indubbiamente, con il passare del tempo, ha perso gran parte dello smalto iniziale, deludendo le aspettative dei suoi creatori e gli entusiasmi iniziali.
Come invertire la tendenza e ricreare fiducia intorno alle istituzioni europee e alla loro moneta? L’euro può essere salvato o dobbiamo già considerarlo una valuta del passato?
Anche di questo parla l’ultimo volume, provocatorio e non scontato, pubblicato dal premio Nobel per l’economia (2001) Joseph E. Stiglitz, docente presso la Columbia University di New York: L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa. Già dal titolo si intuisce la traiettoria della riflessione proposta dall’A.: a dispetto di coloro che sanno soltanto criticare e distruggere, analizza da un punto di vista statunitense le difficoltà incontrate dall’euro senza fare sconti, cercando però di proporre alternative e soluzioni praticabili all’impasse odierna, ponendo domande scomode che hanno il pregio di aprire un dibattito.
Mentre negli Stati Uniti – anche se anemica e tardiva – la ripresa c’è stata, l’eurozona resta impantanata nella stagnazione; Stiglitz imputa queste scarse performance economiche anche alla moneta unica, accusando l’Unione Europea di non fare nulla per invertire la tendenza e di rimanere statica di fronte alle difficoltà: «Gli eventi che hanno accelerato la profonda crisi dell’euro sono il sintomo di problemi più gravi nella struttura dell’eurozona, e non la causa […]. L’euro era nato per favorire l’integrazione economica e politica e aiutare l’Europa ad affrontare le sfide a cui fosse stata chiamata […]. L’errore alla base di tutto è uno solo: la creazione di una moneta unica in assenza di un insieme di istituzioni tali da consentire a una regione diversificata come l’Europa di funzionare a dovere con una moneta unica» (pp. 6 e s.).
Stiglitz sottolinea come il funzionamento di una moneta comune richieda non soltanto buone istituzioni. Ricorda, infatti, che per rendere incisive le riforme occorre prendere decisioni che rispecchino le intese e i valori comuni: «Si deve essere tutti d’accordo su che cosa occorra per un’economia efficiente e un livello minimo di solidarietà, o coesione sociale, per far sì che i Paesi forti aiutino quelli più bisognosi. Oggi questo accordo non c’è e manca il senso concreto della solidarietà» (p. 24).
L’economista statunitense critica i fautori delle politiche di austerità anche in periodo di recessione (l’idea secondo cui tagliando la spesa pubblica o aumentando l’imposizione fiscale il Paese con deficit eccessivo possa tornare in salute) e il cosiddetto «fondamentalismo di mercato», cioè la presupposizione che i meccanismi di mercato lasciati a se stessi siano in grado di garantire l’equilibrio economico e l’efficienza; propugna invece la «necessità di un maggiore intervento dello Stato in ambito economico» (p. 27), soprattutto in periodo di crisi. Invece, l’idea alla base delle politiche adottate in questi anni è che fosse necessaria una convergenza macroeconomica tra i diversi Paesi perché l’euro potesse funzionare: per questo ad alcuni Stati, in particolare quelli dell’Europa mediterranea, è stato chiesto di comprimere il debito pubblico e ridurre il rapporto deficit/PIL. Ma questo, al contrario di quanto ci si attendeva, ha aggravato ancora di più la recessione.
A detta di Stiglitz, il fallimento dell’eurozona è stato causato dal fatto che «l’integrazione economica è progredita a maggiore velocità rispetto a quella politica» (p. 37). La speranza di recuperare terreno è stata sostituita dai dissensi e oggi la strada è sempre più in salita. La realtà ha purtroppo sconfessato i sogni circa la moneta unica: nato con grandi speranze, l’euro si sta lentamente impaludando in strade senza uscita, mentre le divisioni e le diversità di vedute incidono profondamente nei rapporti fra gli Stati. Che fine ha fatto la solidarietà che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo della UE? Si può recuperare lo spirito iniziale dei padri fondatori?
Un altro elemento critico evidenziato da Stiglitz è il deficit di democrazia che caratterizza il progetto europeo, calato dall’alto e non condiviso appieno con tutti i cittadini. A questo si aggiunge il fatto che con il passare del tempo la burocrazia e la tecnocrazia hanno preso il sopravvento. Queste contraddizioni si sono palesate con l’evoluzione dei programmi di aiuto ai Paesi in difficoltà, soprattutto la Grecia, costretta a subire dalla troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) un piano di rientro dal debito deleterio per la propria economia e per la situazione sociale.
Stiglitz non ha peli sulla lingua: non teme di accusare la classe dirigente europea di essere una delle cause principali dell’aumento della disoccupazione seguita alla crisi. Inoltre, imputa ai politici e alle istituzioni europee l’imposizione dell’abbassamento competitivo dei salari e i cambiamenti dell’assetto del mercato del lavoro (maggiore flessibilità e maggiore facilità dei licenziamenti), la cronica mancanza di politiche industriali serie (cfr in proposito l’articolo di Franco Mosconi, alle pp. 554-563 di questo numero).
C’è una soluzione? Quali sono le proposte dell’economista statunitense per invertire la rotta? La risposta di Stiglitz resta positiva: «L’euro può e deve essere salvato, ma non a qualsiasi costo. Non a prezzo delle recessioni e depressioni che hanno afflitto l’eurozona, della disoccupazione elevata, delle vite distrutte né delle aspirazioni infrante. Creare un’eurozona che funziona, che promuove la prosperità e sostiene la causa dell’integrazione europea è possibile» (p. 245). È necessario però un cambio di strategie, declinato – secondo l’economista statunitense – in sei riforme strutturali: la costruzione di una vera e propria “unione bancaria”, con sistemi comuni di garanzia dei depositi e di soluzione delle crisi bancarie; la mutualizzazione del debito – cioè la condivisione del debito pubblico tra i diversi Paesi – attraverso l’emissione da parte della BCE di titoli del debito pubblico sottoscritti dall’eurozona nel suo complesso; un quadro di riferimento comune per la stabilità, ad esempio con la realizzazione di un fondo di solidarietà e l’introduzione di stabilizzatori automatici; una vera politica di convergenza verso il riallineamento strutturale; la promozione della piena occupazione e della crescita; la realizzazione di alcune riforme relative ad aspetti particolarmente critici: sistema finanziario, corporate governance delle imprese, procedura fallimentare, promozione di investimenti per l’ambiente.
In mancanza di queste riforme, Stiglitz prospetta tre possibili esiti, tutti ugualmente negativi per la UE: continuare a barcamenarsi in qualche modo; creare un “euro flessibile”; procedere verso un “divorzio” tra i Paesi dell’eurozona, da affrontare nel modo più amichevole possibile. La meno distruttiva sembra essere la seconda, che prevede un sistema caratterizzato da una valuta forte per i Paesi del Nord Europa e una più debole per quelli mediterranei. Nella proposta di Stiglitz, l’euro flessibile è una strategia per incorporare i progressi già effettuati in materia di integrazione economica, aprendo lo spazio a riforme orientate a una maggiore cooperazione e a una rinnovata solidarietà politica.
L’analisi del Premio Nobel per l’economia può suonare sferzante, ma ha il pregio di non nascondere i problemi sotto il tappeto. Vi sono certamente anche dei limiti significativi: quello più evidente riguarda la provenienza statunitense dell’A., una realtà molto differente dalla UE per storia e cultura. Stiglitz a volte sembra dimenticare quanto la storia dell’unificazione monetaria americana sia stata travagliata: sono dovuti trascorrere 137 anni (e una sanguinosa guerra civile) dopo l’indipendenza affinché gli Stati Uniti si dotassero nel 1913 di una vera e propria banca centrale (la FED). Un altro limite riguarda la sottovalutazione da parte dell’A. di alcuni tentativi di riforma realizzati nel corso di questi anni (fra tutti, quello del Six-Pack nel 2011) e della politica monetaria espansiva ancora in corso da parte della BCE (cd. Quantitative Easing).
Il volume allora, contributo autorevole al dibattito, si aggiunge alle critiche mosse in questi anni nei confronti della UE e alle riflessioni che la stessa Commissione ha realizzato (pensiamo ad esempio al Libro bianco sul futuro dell’Europa, cfr p. 607). L’importante è che la UE non resti paralizzata, ma trovi la forza di reagire alla crisi che l’attraversa; l’augurio è che queste pagine, pur con i limiti che abbiamo abbozzato, non vengano lasciate cadere nel vuoto o consegnate nelle mani di euroscettici e sovranisti, ma trovino interlocutori preparati, capaci di contraddirle, di pensare e realizzare le riforme di cui la UE ha tanto bisogno.
A queste coscienze si rivolge il volume critico e sferzante di Stiglitz, per risvegliare bruscamente dal torpore e dall’inerzia. L’Europa ha ora il dovere e il compito di non soccombere, ma di preparare una nuova strada attraverso il dialogo tra popoli e culture, ciascuno dei quali dovrà essere custode e solidale con l’altro.