L’economia dei poveri
Abhijit V. Banerjee – Esther Duflo
Feltrinelli, Milano 2012, pp. 318, € 35
Perché i poveri richiedono cure sanitarie
costose invece di partecipare ai
programmi di prevenzione, più economici
ed efficaci? Le persone sono poco produttive
perché non mangiano abbastanza?
Che cosa impedisce di adottare semplici
pratiche come l’allattamento al seno, che
avrebbero enormi benefici per la salute e
il reddito di una famiglia a fronte di costi
irrisori? In quali situazioni si è a tal punto
intrappolati nella povertà che realmente
occorre un intervento esterno per innescare
un processo di sviluppo?
Queste e altre sono le domande a cui
cercano di rispondere Esther Duflo e
Abhijit Vinayak Banerjee, economisti del
Massachusetts Institute of Technology
di Boston, dove dirigono l’Abdul Latif
Jameel Poverty Action Lab, da loro fondato
nel 2003 (). L’obiettivo del laboratorio è di contribuire
alla definizione delle politiche di
lotta alla povertà, offrendo rigorose analisi
scientifiche che ne misurino l’efficacia,
basate sul metodo degli studi controllati
randomizzati. Questa metodologia, originariamente
utilizzata in campo clinico
per testare l’efficacia di nuovi farmaci,
somministrandoli a un gruppo campione
e confrontando i risultati con quelli di
un analogo gruppo “di controllo”, è stata
introdotta nelle scienze sociali attorno al
1960. La sua applicazione alla valutazione
dell’impatto delle politiche di sviluppo si
traduce nell’organizzazione di “laboratori
a cielo aperto”, in cui si confrontano i risultati
di gruppi comparabili, selezionati
casualmente, che sono stati coinvolti in
programmi di lotta alla povertà, con quelli
di campioni analoghi che non ne hanno
beneficiato o che sono stati sottoposti a
un intervento differente.
Il volume presenta i risultati di questi
studi, condotti prevalentemente in Asia
(India, Indonesia, Bangladesh, ecc.) e
nell’Africa subsahariana, organizzandoli
in due sezioni. Nella prima sono affrontate
le scelte che “i più poveri al mondo” –
individuati in quel 13% della popolazione
mondiale, pari a 865 milioni di persone,
che vive con meno di 1 dollaro al giorno
– compiono in merito alle questioni relative
alla vita personale: alimentazione, salute,
istruzione, pianificazione famigliare.
Nella seconda parte si analizza il rapporto
dei poveri con i mercati e le istituzioni: strumenti per il risparmio e l’assicurazione
sui rischi, accesso al credito, sostegno
all’imprenditorialità, partecipazione alle
politiche pubbliche.
Da queste ricerche emerge innanzitutto
come le problematiche della povertà
siano più complesse rispetto ai tratti con
cui vengono solitamente presentate nel
discorso pubblico. Ad esempio costruire
aule, stampare libri di testo e assumere insegnanti
non è sufficiente per convincere
i genitori a mandare a scuola i propri figli.
I dati presentati da Banerjee e Duflo indicano
come questa scelta dipenda anche
dalle aspettative dei genitori: generalmente
convinti che i risultati dell’istruzione in
termini di miglioramento della vita e del
reddito si materializzano solo nel lungo
periodo, scelgono di puntare su un unico
figlio, quello considerato più intelligente.
Le stime disponibili dimostrano tuttavia
che ogni anno di istruzione in più per i
bambini comporta un potenziale aumento
del loro reddito futuro. La prima lezione
da trarre è dunque che i poveri non hanno
accesso a informazioni cruciali e, sulla
scorta di credenze erronee o infondate,
finiscono per prendere decisioni sbagliate.
La seconda conclusione cui giungono
gli AA. è che i poveri si assumono in prima
persona una serie di responsabilità in
aspetti cruciali della loro vita, dalle vaccinazioni
all’istruzione. In questi ambiti, le
fasce benestanti della popolazione vengono
di fatto esonerate dal compiere delle
scelte: beneficiano della regolazione delle
autorità pubbliche e di servizi sociali che
decidono al loro posto in merito a quando
iscrivere i figli a scuola, contro cosa vaccinarli,
quante risorse accantonare per la
pensione… Si tratta di decisioni difficili,
poiché non presentano risultati e vantaggi
immediati e, in assenza di incentivi da
parte dello Stato, si tende a procrastinarle.
In terzo luogo, si evidenzia come i servizi
offerti da alcuni mercati finanziari,
come credito, assicurazioni o previdenza
sociale, trascurino i poveri, o si rivolgano
a loro soltanto a prezzi estremamente
sfavorevoli. Ciò può avere ragioni economicamente
fondate: ad esempio, i poveri
pagano tassi esorbitanti sui prestiti perché
la gestione di somme anche minime
comporta comunque un costo fisso. In
numerosi contesti mancano poi i presupposti
per la nascita spontanea di un
mercato, per cui si rende indispensabile
l’intervento delle autorità pubbliche per
offrire incentivi o fornire direttamente e
gratuitamente beni e servizi.
La quarta lezione che gli AA. traggono
dai loro studi è la confutazione delle
teorie della political economy, secondo cui
nessun Paese può svilupparsi se prima non
modifica in modo corretto le sue istituzioni
politiche ed economiche. Misure puntuali
per tenere sotto controllo corruzione
e inefficienza hanno ricadute positive pur
senza modificare le strutture politiche e
sociali esistenti. Si tratta di processi marginali
ma significativi, che garantiscono
risultati anche nei contesti più ostili, a
sostegno della convinzione per cui «i progressi
graduali e l’accumulazione di piccoli
cambiamenti possano talvolta sfociare
in una rivoluzione silenziosa» (p. 255).
Infine, Banerjee e Duflo sottolineano
come le aspettative sulle capacità dei
singoli spesso si traducono in profezie
autorealizzantisi. Ad esempio, il successo
e l’insuccesso scolastici dipendono anche
dall’interiorizzazione di stereotipi di classe,
genere ed etnia da parte di insegnanti
e studenti, per cui i più poveri vengono
automaticamente considerati potenzialmente
meno bravi a scuola. All’opposto,
se le aspettative migliorano, il successo
poi si alimenta da sé: «quando una situazione
inizia a migliorare, il miglioramento
stesso condiziona le aspettative e i comportamenti
» (p. 290).
Uno dei principali meriti del volume è
quello di proporre una direzione per superare
l’impasse del dibattito internazionale tra gli economisti dello sviluppo in merito
agli effetti degli aiuti internazionali. Da
un lato vi è chi, come Jeffrey Sachs, vede
in questi il fattore indispensabile affinché
i Paesi a basso reddito si liberino dalle
trappole della povertà, e di conseguenza
ne invoca un aumento, in particolare per
promuovere l’offerta di servizi sociali di
base. Dall’altro c’è chi, come William
Easterly o Dambisa Moyo, li considera
invece uno dei principali ostacoli allo
sviluppo, in quanto freno all’imprenditorialità
individuale e fonte di corruzione
e indebolimento delle istituzioni locali,
e individua nelle logiche del mercato e
dell’imprenditorialità privata i migliori
strumenti per rispondere all’effettiva domanda
di beni e servizi da parte dei più
poveri. Banerjee e Duflo scelgono di non
partire da una teoria preconcetta in merito,
ma cercano di analizzare con rigore i
contesti e le circostanze specifiche in cui
gli aiuti funzionano o meno. Arrivano
così a suggerire soluzioni concrete per riformulare
le politiche di lotta alla povertà,
adottando di volta in volta approcci fondati
sull’offerta o sulla domanda di servizi,
o sulla complementarità tra queste.
L’originalità dell’approccio degli AA.
consiste anche nello spostare il focus
dell’analisi economica dagli aiuti e dai loro
flussi – che rappresentano soltanto una
minima parte delle risorse globalmente
impiegate a sostegno dei più indigenti –
all’indagine sulla natura della povertà. Al
centro delle loro ricerche vi è l’ascolto dei
poveri, nel tentativo di comprenderne le
logiche e le strategie di azione. L’analisi
delle soluzioni concrete che i poveri adottano
per migliorare la loro vita si traduce
in una “economia del quotidiano” de cisamente
meno astratta della tradizionale
microeconomia: introducendo la dimensione
della contingenza, dell’inerzia o i
vincoli e le motivazioni sociali, essa riesce
a evidenziare che le persone non agiscono
solo in base alla razionalità economica.
Nonostante questa sensibilità, gli AA.
sembrano rimanere ancorati a una visione
meccanicistica e riduzionistica della lotta
alla povertà, concepita come lo sforzo
di affrontare «un insieme di problemi
concreti che, una volta correttamente
identificati e compresi, possono essere
risolti uno per uno» (p. 15). Questa visione
rischia, da un lato, di tralasciare la
dimensione simbolica e culturale della costruzione
dell’idea di povertà: quanti tra i
soggetti studiati si considerano effettivamente
poveri? Dall’altro tende a sottostimare
le conseguenze materiali delle relazioni
di potere e le responsabilità politiche
degli attori nazionali e internazionali in
merito ai fenomeni globali, che hanno
pesanti ricadute sui “problemi concreti”
della quotidianità dei poveri.
Gli studi controllati randomizzati
hanno grandi potenzialità, in particolare
nell’indagare gli effetti di scelte e comportamenti
relativi alla sfera privata delle
persone e nell’individuare gli «espedienti
tecnici per migliorare la vita dei poveri» (p.
265). La complessità di altri ambiti, come
quelli delle istituzioni pubbliche e della
partecipazione politica, è invece meno facile
da risolvere attraverso le misurazioni
econometriche e la definizione di rigide
causalità tra fenomeni. Nell’affrontare
questi temi, l’approccio di Banerjee e Duflo
potrebbe beneficiare di una maggior
interazione con le altre scienze sociali –
antropologia, sociologia, storia e scienza
politica – che praticano l’approccio “dal
basso” e l’attenzione al quotidiano.
L’empatia con cui sono descritte nel
volume le soluzioni che i poveri sperimentano
per migliorare il proprio destino riflette
l’entusiasmo e la passione degli AA.
Il loro è un inno alla continua necessità
di esplorare e sperimentare, curando i
dettagli e disertando le teorie consolidate
e le soluzioni preconfezionate, valido sia
per i ricercatori sia per gli operatori dello
sviluppo.
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