L’anima del corpo

Contro l’utero in affitto

Luisa Muraro
La Scuola, Brescia 2016, pp. 86, € 8,50
Scheda di: 
Fascicolo: novembre 2016

Utero in affitto, maternità surrogata, gestazione per altri (GPA): sono alcuni dei nomi utilizzati per indicare la pratica di procreazione medicalmente assistita nella quale la gestante o madre surrogata intraprende una gravidanza per conto d’altri con l’esplicita intenzione – garantita da un contratto commerciale – di rinunciare a suo figlio. A rigore, la GPA contempla, oltre a quella commerciale, anche la fattispecie gratuita, detta anche solidale o altruistica. Quest’ultima prevede l’accordo diretto fra due donne, l’una sterile e l’altra feconda (una sorella, la madre o un’amica), senza passaggio di denaro. A prescindere dalla differenza fra le due varianti, va osservato che, per la prima volta nella storia dell’umanità, è spezzata l’unicità della relazione materna a favore di una pluralità di figure, al massimo tre: la madre surrogata porta in grembo il nascituro, quella genetica fornisce l’ovocita e la madre in intenzione provvede alla crescita.

La surrogazione non perde attualità nell’opinione pubblica e a fare chiarezza nel groviglio di molte e discordanti posizioni in merito è intervenuta la filosofa Luisa Muraro, maestra del pensiero della differenza sessuale, con un breve libro che ha il pregio di una scrittura diretta ed evocativa, scarna e poetica, quotidiana e pensante. Ha pure il merito di aver trattato un argomento difficile senza polemica, senza formule confezionate e lontano dalla retorica dell’idealizzazione materna o di quella antimaterna.

Il libro si compone di due parti: la prima, intitolata «Dentro le parole», ricostruisce con precisione i termini della questione e formula una tesi: l’utero in affitto rappresenta «un attacco demolitore alla relazione materna» (p. 25), relazione «che ha dato un’impronta di civiltà alla convivenza umana, forse la più importante» (p. 30) e il cui senso e potenza sono esplorati nella seconda parte del libro, intitolata «La relazione materna». La prima parte del lavoro è mossa dalla seguente domanda: «in una cultura che trova odiosa la compravendita di bambine/i, come può essere accettabile commissionare la loro confezione da parte di donne pagate allo scopo?» (p. 23). Per far luce su questa «incoerenza dovuta ai cambiamenti storici» (p. 12), Muraro propone una lettura inusuale: non è l’accusa dello sfruttamento delle donne o il mercato delle loro creature (termine preferito dall’A. per definire il figlio) a fornire l’argomento principale; non è neppure il senso del limite a guidare la sua riflessione. È la smisuratezza del desiderio umano a portarci dentro la questione. «Il desiderio – lei scrive – è una grande potenza, come i soldi, ma più misteriosa e meno razionale. Si spinge e ci spinge avanti con tutti i mezzi a disposizione, sempre più avanti. […] Con la surrogata la realizzazione del desiderio genitoriale fa un salto di qualità» (p. 24). Detto altrimenti, esiste un desiderio di maternità (e paternità) comprensibile e che non può essere ignorato, che non va confuso col capriccio e che produce talvolta un dolore così forte da far ammalare chi lo prova. Nel quadro storico attuale, dominato dalle potenze della tecnoscienza e del mercato globale, questo comprensibile desiderio di genitorialità si confronta con la tentazione di prevaricare, a proprio beneficio, sul desiderio d’altri. Finisce, così, per espropriare il desiderio della madre (surrogata), separandola dalla sua creatura. Finisce anche per ignorare il desiderio di quest’ultima, concepita per soddisfare il desiderio dei committenti. È così che la creatura, scrive l’A. in uno dei passaggi più intensi del libro, «voluta in partenza e attesa all’arrivo, nutrita e custodita dalla portatrice, madre reale simbolicamente rinunciataria, deve fare il suo viaggio in una strana solitudine, accompagnata forse da sogni e fantasie non autorizzate della portatrice» (ivi).

Il desiderio di genitorialità sembra non tollerare il conflitto e la frustrazione; assumendo la sterilità come una disfunzione, mira all’immediatezza ed efficienza della sua risoluzione. La tecnica ne accresce e facilita le condizioni di possibilità, il mercato gli fornisce una speciale forma di autorizzazione, mentre il contratto si preoccupa di evitare il contenzioso, regolamentando i termini della transazione. Sotto l’influsso di tutto ciò, esso finisce per alimentarsi in una dismisura terribile, che lo indebolisce e che «può capovolgersi nella morte del desiderio» (p. 30). Scienza e tecnica infatti «fanno valere la loro logica e il loro ordine anche là dove l’essere umano sarebbe chiamato a esserci in prima persona: con il desiderio, sì, ma anche con l’attesa, l’incertezza, la speranza, l’amore» (ivi). Avviene allora che il desiderio deperisce e viene colonizzato dalla tecnica oppure è preso nelle strette di codici e sentenze; si vuole libero di espandersi secondo la misura del possibile, ma finisce per trovarsi sommerso da vincoli e forme di controllo, non più d’ordine morale, ma tecnico, legale e burocratico.

Tra le più risibili difese della maternità surrogata, l’A. discute l’argomento della libera scelta delle donne, ritenendo un grave fraintendimento ridurre la libertà ad autonomia della scelta. Se, infatti, è vero che le scelte libere sono anche autonome, non vale il contrario, perché non tutto quello che si sceglie autonomamente è libero. Si pensi alle donne che sottoscrivono per necessità il contratto di surrogazione: quand’anche potessimo parlare di autonomia, essa sarebbe «il livello minimo richiesto da un contratto commerciale» (p. 35). Non potremmo certo farla passare per libertà, che «è un godere di essere secondo la misura delle proprie possibilità» (p. 37); ovvero la piena autorealizzazione della vita. Il bisogno economico può far comprendere la scelta della maternità per conto d’altri, ma non giustifica certamente il contratto di surrogazione. Scegliere, in questo caso – ribadisce Muraro, che si ispira alla filosofa inglese Iris Murdoch – «è quello che resta “quando tutto è già perduto”» (p. 38).

La seconda parte del libro si concentra sulla relazione materna, a partire da una considerazione fondamentale: nonostante il contratto stabilisca che la gestante rinuncia al nascituro, non di meno madre è colei che l’ha portato in grembo, a prescindere dalla provenienza del materiale genetico. Sempre più si lascia intendere che è l’ovocita a stabilire chi è la madre; sempre più il legame carnale viene oscurato da quello prodotto dal materiale biologico. A riprova, per evitare che la portatrice avanzi pretese o si affezioni alla creatura che porta in grembo, oppure per dissuadere i committenti dall’abbandonare il neonato, si suggerisce, laddove possibile, l’uso del materiale genetico degli aspiranti genitori.

Della relazione materna Muraro sottolinea l’unicità. Quella tra chi nasce e chi accompagna alla nascita è infatti la sola relazione fra esseri umani in cui si abbia uno scambio pervasivo di corpi e di parole. L’unicità della relazione materna si esprime anche nel continuum tra il «portare/venire alla luce» e l’«insegnare/imparare a parlare», che si trova all’origine di «uno speciale sentimento interiore» (p. 45), lo stesso che ci costituisce, donandoci fiducia in noi stessi e nelle relazioni. Se è vero che le circostanze della vita possono interrompere la continuità di questa relazione primaria, la questione che l’A. pone è: «possiamo accettare che l’interruzione venga programmata senza una necessità?» (p. 47).

Vengono anche messe a confronto le ragioni dell’adozione e quelle della surrogazione, sottolineando la «superiorità morale» (p. 70) delle prime: i genitori adottivi realizzano il loro desiderio di genitorialità facendolo passare «attraverso le esigenze pressanti di altri esseri umani» (ivi); si prendono cura dei piccoli nei punti di rottura della relazione genitoriale. I genitori committenti invece soddisfano il proprio desiderio stabilendo preliminarmente l’interruzione della relazione materna. I genitori adottivi, inoltre, maturano l’«interiore consapevolezza» di essere subentrati «a riparare una discontinuità […] accaduta in precedenza» (p. 71), laddove invece i committenti si pongono come il punto d’origine della nuova creatura: è il loro desiderio ad aver chiamato quella vita, anche se il corpo che l’ha tessuta e tenuta è quello di un’altra.

Al termine del suo lavoro, Muraro suggerisce due risorse, su cui continuare a riflettere: l’idea di endogeno, elaborata dallo psichiatra Herbertus Tallenbach. Endogeno è ciò che nasce dentro, ma senza essere il prodotto di un determinismo organico né provenire passivamente da una causalità esterna. L’endogeno, chiamato a riparare la frattura fra natura e cultura prodotta dalla modernità scientifica, trova, a parere dell’A., un’espressione paradigmatica nella lingua materna, quell’insieme di espressioni e gestualità, prime parole e linguaggi del corpo che rendono unica la relazione madre-figlio e che aiutano a mediare la distanza con chi è estraneo a tale rapporto.

Una seconda risorsa è offerta dall’idea dell’indisponibile. Esso non è fissato una volta per tutte, ma si trasforma nel tempo, secondo la vita del desiderio e le capacità simboliche acquisite dagli umani. Eppure esso non può oltrepassare un chiaro limite, che conferisce al non disponibile un contenuto positivo: «è indisponibile quello che va tenuto a disposizione del di più di gioia del vivente» (p. 86). Ovvero ciò la cui consumazione condanna al degradarsi di una civiltà umana. Nel lavoro di Muraro, massimamente indisponibile è la relazione materna.

Del presente testo condivido il tono e l’argomentazione; mi limito a due riflessioni conclusive. La prima riguarda il ruolo del padre nella relazione materna, ovvero il modo in cui il desiderio del padre (nel senso del genitivo soggettivo e oggettivo) entra nella mente della madre. Muraro anticipa l’obiezione, ma sceglie di non occuparsene. «Mi manca», spiega, «su questo versante della questione, la verità soggettiva: non l’ho trovata finora dialogando con uomini. Forse non l’ho cercata bene» (p. 77). Se ne potrebbe concludere che del padre possono parlare solo gli uomini o che parlare del padre faccia ricadere nel linguaggio e nel simbolico patriarcale. Credo invece che, proprio a partire dal simbolico femminile e dall’asimmetria dei sessi nella generazione, ci si possa chiedere: come la madre contiene e articola il desiderio che il padre le consegna perché lei rivesta di carne la parola d’amore pronunciata fra di loro? Più ancora: se il bambino è frutto del desiderio fra un padre e una madre, non dovremmo operare lo spostamento da una prospettiva binaria (il mio desiderio di un figlio) alla triangolazione dei desideri? Prima del mio desiderio di un figlio e prima del desiderio di fare un’esperienza corporea di gestazione non c’è forse la parola d’amore fra un uomo e una donna, parola d’amore che riceve la grazia di farsi carne? Non è quella fra un uomo e una donna la forma di intersoggettività da cui prende corpo la relazione materna? E questa forma di intersoggettività originaria non è tradita dalla potenza del desiderio (individuale) alleata alle potenze biotecnologiche e alla mediazione del denaro? Ciò avviene tanto nelle coppie omosessuali quanto in quelle eterosessuali. In queste ultime, infatti, ci si spartiscono le quote di genitorialità come farebbero gli azionisti col dividendo, oscurando l’unicità della relazione fra il padre e la madre del figlio.

In secondo luogo, considero l’analisi di Muraro imprescindibile laddove esplora e difende il desiderio delle donne (di gestazione e di crescita), secondo il senso libero della differenza sessuale. Con una mossa simmetrica, nella direzione disegnata da Muraro, vorrei spostare lo sguardo sulle persone piccole e sul danno incalcolabile che, suo malgrado, il desiderio femminile può infliggere loro. Che cosa accade quando viene loro sottratta, oltre alla propria origine, l’idea stessa di indisponibile? Non stiamo dicendo loro che nulla è indisponibile, a partire dal loro stesso essere, il quale è a disposizione di altri che lo confezionano per ragioni altruistiche, commerciali o predatorie? Ma se il loro essere non è indisponibile, dove fonderanno la propria libertà e verso dove si lancerà il loro desiderio, se non lontano da quegli adulti e da quella civiltà che li ha resi disponibili?

Il libro di Luisa Muraro è solo apparentemente di facile lettura; di fatto articola una complessità di livelli e una radicalità di analisi che a fatica riusciamo a condensare e che si prolunga in un’interrogazione che richiede tempo, costanza e intelligenza. In particolare, avvertiamo la responsabilità che discende dall’espansione del possibile.

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