L’altra metà della storia

Ritesh Batra
BBC Films 2017, Gran Bretagna 2017, durata: 108 min.
Scheda di: 
Fascicolo: maggio 2018

Si può parlare di verità “oggettiva”? E se la nostra storia non è altro che un filo, inevitabilmente intrecciato con altri fili e altre storie, si può ancora dire legittimamente che è “nostra”? È possibile sapere con certezza quale impatto abbiamo sulle vite degli altri? Questi sono i complessi interrogativi affrontati da L’altra metà della storia.

Il film, tratto dal romanzo di Julian Barnes Il senso di una fine, segue le vicende di Anthony “Tony” Webster (Jim Broadbent), un burbero pensionato che gestisce un piccolo negozio di macchine fotografiche a Londra, che conduce un’esistenza tranquilla, ma non così ordinaria come si potrebbe pensare. Divorziato, ha tuttavia un rapporto cordiale e affettuoso con l’ex moglie Margaret (Harriet Walter); la loro figlia (Michelle Dockery) aspetta un bambino, concepito tramite inseminazione artificiale, che intende crescere da sola. La vita di Tony viene stravolta quando riceve una lettera dalla recentemente defunta Sarah Ford, madre del suo primo amore, Veronica, incontrata all’università negli anni ’60. Nella lettera, Sarah assegna a Tony un lascito di 500 sterline e un oggetto indefinito, che poi si scoprirà essere un diario. Tuttavia, quando Tony si presenta presso lo studio legale per ritirare il diario, viene a sapere che Veronica, contestando le ultime volontà della madre, lo ha tenuto per sé.

Questo evento innesca una narrazione parallela e disorganica, come spesso sono i ricordi, in cui ci viene presentato un Tony adolescente (Billy Howle), che frequenta l’ultimo anno di liceo in un istituto maschile. Questo Tony del passato non è molto diverso da quello del presente: è egocentrico, intellettuale in modo quasi ostentato e, almeno in apparenza, indifferente di fronte all’imprevedibilità delle cose umane. I suoi amici e compagni di scuola non sono da meno; forti della loro giovane età, “invulnerabili” nella loro arroganza, cresciuti in un ambiente sostanzialmente protetto, sempre disposti a perdersi in fredde riflessioni filosofiche sulla vita e tuttavia incapaci di comprendere realmente ciò che essa comporta. Questo status quo viene turbato dall’arrivo di un nuovo studente, Adrian Finn (Joe Alwyn). Adrian è colto, dotato, appassionato di filosofia; al contrario degli altri, è però contraddistinto da una personalità schiva e sensibile e da una maggiore maturità emotiva. Il nuovo studente viene subito accolto nel gruppo, benché ci sia in lui questa evidente diversità, che emerge con forza quando la scuola viene scossa dalla notizia che uno degli studenti, un certo Dobson, si è tolto la vita, forse dopo aver scoperto che la sua ragazza aspettava un bambino. Tony e i suoi amici si limitano ad analizzare l’atto di Dobson in modo distaccato, ma Adrian sembra esserne decisamente più colpito e più turbato. Il tema della verità “oggettiva” viene, così, prepotentemente in scena quando, durante una lezione di storia, Adrian commenta la morte del compagno, osservando che «niente può essere saputo per certo in assenza della testimonianza di Dobson. Potremmo non scoprire mai la verità e nessuna speculazione intellettuale potrà cambiare le cose».

Dopo il diploma, Adrian si iscrive a Cambridge, mentre Tony viene accettato all’Università di Bristol, dove conosce Veronica (Freya Mavor). La relazione tra loro, di cui ci vengono mostrati solo dei frammenti, è estremamente difficile da comprendere e da definire. Veronica stessa sembra quasi “incompleta” e le sue interazioni con Tony sono spesso incoerenti, come se fosse il ricordo sfumato di una persona piuttosto che una persona vera e propria. Questo senso di incertezza e di indefinibile disagio, presente in tutti i flashback del film, è particolarmente forte nelle scene che riguardano Veronica. Anche le scelte tecniche di regia e fotografia lo rinforzano, creando una narrazione frammentata in cui è difficile orientarsi. La sensazione generale è che ci vengano celate delle informazioni, senza le quali, però, non abbiamo speranze di ricostruire adeguatamente la storia. Gli eventi successivi si avvicendano in un turbine di confusione: Veronica lascia improvvisamente Tony, che viene poi a sapere che Adrian e Veronica si stanno frequentando. Ebbro di vendetta e della sua stessa sofferenza, Tony manda a entrambi i “traditori” una lettera incredibilmente velenosa, con l’augurio di eterna infelicità e altre terribili disgrazie. Qualche anno dopo, viene a sapere che Adrian si è tolto la vita. In questa circostanza, la reazione di Tony – in cui il senso di rivalsa prevale nettamente sul dolore – rende quasi impossibile provare empatia per lui.

Mentre la narrazione prosegue nel presente, si formalizza lo status di Tony come narratore inaffidabile. Il divario tra passato e presente si fa sempre più pronunciato, al punto da creare due storie che sembrano completamente indipendenti tra loro. Il dubbio si insinua nello spettatore, che si trova costretto a mettere continuamente in discussione tutto ciò che ha visto e sentito. Qual era la vera natura del rapporto tra i tre giovani protagonisti? Quanto è responsabile Tony per quello che è accaduto ad Adrian e, per estensione, a Veronica? Le domande si accumulano e le risposte tardano ad arrivare. A questo punto della narrazione, è quasi solo l’ostinazione a guidare Tony. Ossessionato dal passato, perde progressivamente la percezione del presente, sotto lo sguardo perplesso della sua famiglia.

Mentre il film si avvia verso il suo culmine narrativo, siamo costretti a tornare al punto di partenza. Che cos’è la verità? Il titolo del film ci dice che c’è sempre “l’altra metà della storia”. Ma, se questo è vero, e la storia è realmente fatta dalle “bugie dei vincitori” e dalla “delusione degli sconfitti”, allora la somma di questi due fattori dovrebbe darci la “verità”. Eppure, non è così semplice. Due versioni soggettive della realtà, tra loro separate e non comunicanti, non ne fanno una oggettiva. Nessuno di noi può davvero guardare al passato in una prospettiva neutra; non a quello degli altri e certamente non al proprio. Per usare le parole di Adrian: «Tutto quello che si può dire sinceramente di ogni periodo storico è che è successo qualcosa». Chi può dire che cosa? E come si può sapere, con certezza, quali e quante vite sono inestricabilmente connesse alla propria? L’interpretazione “impersonale” della storia risulterà sempre compromessa non soltanto dal peso della nostra soggettività e delle nostre opinioni ed esperienze, ma anche da quello di tutte le interpretazioni e le soggettività che interagiscono e si intessono con la nostra, e che hanno il medesimo diritto di essere espresse. Se c’è qualcosa da imparare da questo nostro periodo storico, caratterizzato dalle fake news, dall’individualismo e dalle ideologie irriducibili, è che una prospettiva “monolitica” sulla storia passata, presente e soprattutto futura sarà sempre e inevitabilmente lacunosa.

In Tony, diviso tra la convinzione di aver avuto un impatto sulla vita altrui e il rifiuto di accettarne le dovute responsabilità, questo contrasto è esasperato; è particolarmente calzante, in un protagonista così chiaramente ossessionato dal bisogno di sentirsi “rilevante” e dal terrore di essere meramente average (“nella media”). Parlando dei suoi anni giovanili, dice: «A quel tempo, ci immaginavamo prigionieri dentro a un recinto, in attesa di essere “rilasciati” nelle nostre vite [...]. Come potevamo immaginare che le nostre vite fossero già iniziate?». Non è una domanda insignificante. La storia di Tony, in un certo senso, è la storia di chiunque si sia trovato a “vivere” – o, piuttosto, a esistere – come se la vita non fosse ancora iniziata, nell’attesa disperata di un release (“senso di liberazione”), di una “de-sospensione” che sembra non arrivare mai.

È una domanda “impossibile”, a cui il protagonista offre, in chiusura, una sorta di parziale risoluzione: «Penso a tutto ciò che è accaduto nella mia vita, e alle poche cose che ho lasciato accadere. Io, che non ho né vinto né perso. Io che ho evitato di venire ferito e l’ho chiamato “istinto di sopravvivenza”. Penso a come le nostre vite si siano intrecciate e siano fluite in parallelo per un certo periodo». La “nostra” vita non è mai soltanto nostra. Nel momento in cui veniamo al mondo, siamo già parte della storia di qualcun altro, e così via; ogni volta che ci troviamo anche solo a “sfiorare” un’altra vita, il processo continua e le connessioni aumentano. Il risultato è una grande storia, fatta di altre storie più piccole. Certo, è possibile (e legittimo) fingere che non sia così e vivere di conseguenza; ma una vita separata, priva di connessioni, “sospesa”, si può comunque definire tale?

Il titolo originale del film è lo stesso del romanzo da cui è tratto, The Sense of an Ending, Il senso di una fine. Tuttavia, dopo averlo guardato, non si ha tanto il senso di una fine quanto piuttosto di una “verità sospesa”. Del resto, è improbabile che l’obiettivo del film fosse trovare questo “senso” e fornire risposte precise. Dopotutto, se la nostra storia non è altro che un flusso di ricordi che si susseguono, uno dopo l’altro e tutti allo stesso momento, non si può parlare tanto di verità “oggettiva” quanto piuttosto di verità “relazionale”, condivisa e co-costruita. E questa verità, su cui nessuno può realmente avanzare delle pretese, non ha né un inizio né una fine vera e propria.

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