Joker

di Todd Philips
Warner Bros., Stati Uniti 2019, Drammatico, 122'
Scheda di: 
Fascicolo: gennaio 2020

Isolamento, indigenza e disagio di vivere in un mondo che ti considera irrilevante: questi sono alcuni dei temi fondanti di Joker, il film sull’omonimo personaggio della DC Comics che si è aggiudicato il Leone d’Oro al Festival di Venezia del 2019 e ha incassato un miliardo di dollari al box office. Un successo notevole che, prevedibilmente, ha causato numerose controversie. In un contesto culturale e sociale che minimizza le violenze commesse da uomini e ragazzi bianchi – si pensi ai casi di razzismo e di femminicidio – come possiamo legittimare il successo di un film il cui protagonista è un uomo bianco che sfoga in modo violento la propria frustrazione?

Il protagonista di Joker, in teoria, non ha bisogno di presentazioni: fin dalla sua prima apparizione nel primo numero del fumetto Batman (1940) ha avuto numerose trasposizioni televisive e cinematografiche. Ma il protagonista del film, per i primi due atti, non è la nemesi di Batman, è Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un aspirante comico che cerca disperatamente di far buon viso a cattivo gioco in un mondo che, in cambio dei suoi continui sforzi, gli restituisce soltanto scherno e crudeltà. Un personaggio “patetico”, afflitto da un disturbo psicologico che interferisce con tutte le sue interazioni sociali.

Per buona parte del film è quasi impossibile non provare empatia per Arthur. Dopotutto, siamo al suo fianco mentre colleziona fallimento dopo fallimento, frustrazione dopo frustrazione. Non riesce a mantenere un lavoro stabile, anche per via della sua psicosi, a malapena monitorata dal centro sociale responsabile della sua terapia; è costretto a vivere nello squallore e nella povertà. L’unico essere umano con cui interagisce regolarmente è sua madre (Frances Conroy), una donna fragile che vive nella perenne illusione che Thomas Wayne (Brett Cullen), per il quale ha lavorato come donna di servizio, li salverà dall’indigenza; Thomas Wayne, padre del futuro Batman, è uno degli uomini più ricchi e potenti della città, che aspira alla carica di sindaco e afferma di voler migliorare le condizioni di vita dei poveri, eppure guarda con condiscendenza e disprezzo ai moti di protesta e vive in una magione isolata, protetta da misure di sicurezza incredibili. È un’immagine che rompe nettamente con l’interpretazione classica del personaggio, che nella saga di Batman è l’icona di un capitalismo filantropico.

Mentre la città diventa sempre più buia, sporca e crudele, le condizioni di vita e mentali di Arthur si aggravano. I suoi tentativi di costruire una carriera come comico falliscono, esponendolo al pubblico ludibrio; contemporaneamente, terribili segreti vengono alla luce, cambiando radicalmente le carte in tavola. Il suo buon carattere si inasprisce in un’escalation che raggiunge il suo apice nella prima scena di violenza vera e propria del film, scioccante nel suo realismo, il cui effetto domino metterà la città in ginocchio e ribalterà le sorti di Arthur stesso, in un modo che nessuno – lui compreso – avrebbe mai potuto prevedere. I crimini commessi da Arthur causano la nascita di un moto popolare che, in suo onore, esibisce orgogliosamente la classica maschera da pagliaccio e arma i poveri contro l’élite della città, generando disordini e atti di violenza. Un movimento aspramente rimproverato da Wayne, con una condiscendenza che ricorda quella esibita da vari leader politici nei confronti delle sempre più frequenti proteste sociali che, negli ultimi anni, si sono fatte sentire in varie parti del mondo, a volte violente come il movimento dei gilet jaunes in Francia, altre volte pacifiche come i Fridays for Future.

Ma Arthur non è interessato a diventare un simbolo della rivoluzione: l’unica cosa che gli interessa è essere notato dalla società e dalle persone che ammira. Paradossalmente, saranno proprio i mass media a regalargli la celebrità, facendo della sua storia una narrativa pubblica, con la quale i rivoltosi si identificano.

Ci troviamo quindi di fronte a un film “problematico”?

Certo, la vita di Arthur è incredibilmente difficile e molte delle sue decisioni distruttive sono, almeno inizialmente, dettate dalla disperazione. Come però ci ricorda il tema musicale del talk show di Murray Franklin, che finisce per diventare il leitmotiv del film stesso, «That’s life», «Così è la vita»: un giorno ti porta in alto, quello dopo ti butta giù. Una filosofia piuttosto dark, ma che ben si adatta a questo universo malinconico e claustrofobico, abitato da personaggi impegnati nella lotta per sopravvivere.

La violenza non è l’unica opzione, ma è quella che Arthur finirà per scegliere, sacrificando fino all’ultimo brandello di umanità per completare la sua trasformazione nel Joker. Uno spettatore che si esalta assistendo a scene di bruta violenza, dunque, leggerà questo film come un percorso di scoperta di sé e di emancipazione dai vincoli della società perbenista, che culmina, finalmente, in una “giustizia” che sa di vendetta. Qualcun altro potrebbe percepirlo, piuttosto, come una tragica parabola sulle conseguenze del disagio diffuso nella nostra società, osservando come basti poco per accendere la miccia dello scontento collettivo.

Il “ciclo della violenza” è il filo conduttore del film: sono la crudeltà e il rifiuto subiti da Arthur ad aver creato il Joker, questo “mostro” che si fa simbolo tangibile del disagio sociale di Gotham, pronto a infliggere lui stesso violenza. Questa reinterpretazione della classica figura del supercriminale da fumetto è uno degli elementi più interessanti del film, spesso messi in ombra dall’intensa indignazione mediatica che lo ha accompagnato fin dalla promozione. La violenza rappresentata, coniugata all’enfasi posta sull’oppressione sociale subita da un uomo bianco, ha rivitalizzato un dibattito vecchio quasi quanto l’invenzione del cinema stesso, centrato sui potenziali pericoli di celebrare atti brutali e desensibilizzare il pubblico.

Da sempre, i prodotti mediali prendono le mosse dall’ambiente sociale circostante, di cui si fanno riflesso e monito; per quanto l’immagine che ci rimandano possa non piacerci, essa rimane, spesso, corretta. Sono mezzi pervasivi e influenti e il messaggio che trasmettono può distanziarsi dall’intenzione originaria. Tuttavia, se ci troviamo ad analizzare complessi fenomeni sociali, come l’aumento della violenza legata alle armi da fuoco o il ritorno di forti proteste sociali, sarebbe assurdo pensare di isolare un’unica influenza, un’unica variabile con il potere di orientare le azioni di intere generazioni.

Vogliamo chiederci se l’arte debba attenersi a un determinato standard morale? Bene; prima, però, dobbiamo chiederci se possiamo “giudicare” la violenza rappresentata sullo schermo con lo stesso metro di giudizio con cui giudichiamo circostanze ed eventi realmente avvenuti.

Da una parte, il trattamento “irresponsabile” di temi così delicati può avere conseguenze disastrose: si pensi alla serie di Netflix 13 Reasons Why, più volte accusata di glorificare il suicidio, un messaggio molto pericoloso da trasmettere a un pubblico composto prevalentemente da adolescenti. Se quindi la realtà influenza l’arte, è vero anche il contrario. Se questi due piani sono realmente collegati, lo sono da un cerchio, non da una linea: un ciclo continuo, influenzato da numerosi fattori e variabili. D’altra parte, al di là del sottotesto morale, un film è una storia, fittizia anche quando basata su fatti reali; un prodotto artistico complesso, nato da un sapiente mix di storytelling, regia, sonoro. L’esperienza dello spettatore si sviluppa proprio a cavallo tra questi due piani convergenti, quello estetico e quello morale.

Le numerose polemiche che hanno preceduto l’uscita in sala di Joker erano basate puramente su ipotesi e “teorie”, molte delle quali si sono rivelate infondate; eppure, hanno generato articoli, speculazioni, dibattiti in televisione e persino un’ondata di panico collettivo, legata al possibile rischio di attacchi terroristici durante la promozione e la proiezione del film. Un effetto domino incredibile che, ironicamente, ci ricorda il severo giudizio espresso in merito dal film stesso. È chiaro, quindi, che la semplice presenza di un determinato tema all’interno di un film non basta a renderlo “problematico” di per sé; è il giudizio che il film esprime sulle azioni dei suoi personaggi e sui temi morali che affronta a fare la differenza.

Con tutte queste premesse, cosa possiamo dire su Joker, un film che mette in scena una violenza intensa, molto vera e molto “nostra”, con un protagonista che arriva a utilizzarla come mezzo di autoaffermazione, ricevendo così un riconoscimento e un plauso che, altrimenti, non avrebbe mai ottenuto? È un messaggio ambiguo e cinico, ma non necessariamente un invito alla violenza.

Piuttosto, la raggelante consapevolezza che ci assale è che molti dei crimini di Arthur avrebbero potuto essere evitati, se solo qualcuno si fosse interessato al suo tracollo psicologico in atto. Ma, come il film evidenzia efficacemente, la nostra società, costruita attorno al guadagno frenetico, alla progressiva contrazione del tempo e alla forte interferenza dei mass media, non è naturalmente portata a prestare attenzione a questi elementi, e negli ultimi anni le conseguenze – attentati, sparatorie, un tasso di suicidi sempre più alto – sono innegabili.

Attraverso la parabola discendente (o ascendente, a seconda dei punti di vista) di Arthur, Joker ci mostra una società che è una versione amplificata della nostra, prossima al collasso o forse già al di là di ogni speranza; e ci avverte che, se vogliamo prevenire il crollo della nostra, dobbiamo iniziare a rivolgere lo sguardo non verso l’esterno, ma verso noi stessi.

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