Italiani brava gente?
Rosario Sapienza
Questo discorso presenta forse qualche profilo tecnico-giuridico di troppo, del quale mi scuso subito. Ma vale la pena affrontare qualche asperità lessicale e argomentativa per scoprire insieme che anche la nostra Corte costituzionale va annoverata (almeno pare) tra quei tanti italiani che pensano che in fondo il Belpaese è un posto fantastico, soprattutto perché l’Italia è il Paese dei diritti umani.
Con una recente sentenza, la n. 49, adottata il 26 marzo scorso, la nostra Corte costituzionale ha stabilito che anche se la Corte europea dei diritti dell’uomo dice che la confisca dei beni a un condannato è una misura penale e come tale va trattata (lo ha detto per ben due volte nel 2009 e nel 2013, con le sentenze Sud Fondi e Varvara), i giudici italiani non sono tenuti a seguirne il parere perché non si tratta di un orientamento giurisprudenziale consolidato. E sapete perché? Perché, dice la Corte di Roma, se è pur vero che spetta alla Corte di Strasburgo pronunziarsi sulla interpretazione e l’applicazione della Convenzione (cosa che la Corte costituzionale va ripetendo dal 2007 almeno), in Italia non siamo però «passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale».
E la novità affermata nella sentenza che stiamo segnalando è appunto che i giudici italiani, secondo la Corte costituzionale, devono seguire il parere della Corte europea in materia di interpretazione della Convenzione solo quando si tratti di un indirizzo giurisprudenziale consolidato.
Ora, a parte la difficoltà di stabilire quando un indirizzo giurisprudenziale possa veramente dirsi “consolidato” (anche se in verità la Corte costituzionale offre un’ampia esemplificazione al riguardo), resta il problema, tutt’altro che trascurabile, che secondo l’articolo 46 CEDU gli Stati hanno l’obbligo di rispettare ed eseguire le sentenze della Corte di Strasburgo.
Ma, e torniamo così alle nostre affermazioni di esordio, quello che appare veramente discutibile è il motivo sul quale la nostra Corte fonda questa sua convinzione. E cioè che, mentre la Corte di Strasburgo decide sul caso singolo, solo il giudice nazionale potrebbe valutare con la dovuta ampiezza di prospettive, la situazione complessiva della garanzia di questo o quel diritto nel sistema nazionale.
Intendiamoci, per quanto originale, l’approccio della Corte costituzionale non appare del tutto incompatibile con lo spirito del sistema di Strasburgo, dato che la stessa Corte europea ha sempre ribadito il carattere “sussidiario” del proprio ruolo, confidando nella effettività dei sistemi nazionali di tutela. Solo che, invece di contribuire alla certezza del diritto in materia di tutela dei diritti umani, la sentenza 49/2015 inserisce pericolosi elementi di oscillazione e dunque di incertezza nel sistema.
Anche se non esiste alcuna diretta relazione tra le decisione della nostra Corte costituzionale della quale abbiamo fin qui detto e quanto stiamo per evocare, che dire della decisione adottata all’unanimità il 7 aprile 2015 (nel caso Cestaroc.Italia), con la quale la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione (che vieta i trattamenti disumani e degradanti, in breve la tortura e comportamenti assimilabili), non solo perché i poliziotti che nel 2001 fecero irruzione nella scuola Diaz-Pertini di Genova al tempo del G8 usarono una gratuita ed eccessiva violenza, ma anche perché non furono adeguatamente puniti? E non furono adeguatamente puniti, sottolinea la Corte, perché l’Italia non si era e non si è ancora dotata di una legislazione interna che punisca adeguatamente il crimine di tortura.
14 maggio 2015
Update RequiredTo play the media you will need to either update your browser to a recent version or update your
Flash plugin.
© FCSF 