Io sto con la sposa
di A. Augugliaro, K. S. Al Nassiry e G. del Grande
Italia 2014, Gina Films, Docufilm, 76 min
Khaled Soliman Al Nassiry e Gabriele del Grande (registi e personaggi del film) decidono di aiutare
un gruppo di rifugiati palestinesi e siriani a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per
evitare di essere arrestati come contrabbandieri, però, si inventano la messa in scena di un matrimonio.
Qual è il confine tra documentario e azione politica, tra storia reale e fiction? Io sto con la sposa, di
Antonio Augugliaro, Gabriele del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry, è l’intreccio tra queste matrici: da
un lato una vera azione politico-sociale e dall’altra un racconto cinematografico, con i suoi ritmi e i suoi
colpi di scena. La pellicola nasce dall’incontro di un poeta palestinese siriano e un giornalista italiano con un
gruppo di palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra e diretti clandestinamente in Svezia.
I fatti raccontati si sono realmente svolti tra il 14 e il 18 novembre 2013, con il primo ciak a Milano e
l’ultima inquadratura a Malmö. Coinvolgendo un’amica palestinese, che si travestirà da sposa, e una decina
di amici italiani e siriani, che si fingeranno invitati, registi e rifugiati attraverseranno mezza Europa, in un
viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Un lungo percorso fino all’arrivo in Svezia, terra promessa e
unica “eccezione” europea che dal settembre 2013 concede il diritto di residenza a tutti i siriani che
domandano asilo. I protagonisti, durante il film, si raccontano, rivelando allo spettatore chi è veramente un
rifugiato e chi, invece, è un semplice migrante o un amico della troupe.
Lo stile di regia privilegia i volti, puntando a descriverne la fatica, le aspettative e i traumi. Una
storia fiume, che coinvolge ciascuno dei protagonisti, che trasformano in preghiere, canti e dialoghi la loro
storia e le loro sofferenze. Le motivazioni di ognuno diventano, in “presa diretta”, vive: un bambino e suo
padre, un giovane, una coppia di anziani, strada facendo si raccontano davanti alla macchina da presa,
parlando del più e del meno, discutendo, litigando. Il film coniuga così due obiettivi: diventare strumento
“pratico” di soluzione di un problema ed essere luogo privilegiato per far recuperare a ogni personaggio la
propria identità ferita.
L’impegno dei registi non è solo nella produzione, ma è anche la volontà di assumersi un rischio
personale, in un film che potrebbe portare all’accusa di sfruttamento dell’immigrazione clandestina e al
carcere. Ma, come hanno dichiarato: «Condividere un grande rischio e un grande sogno, ci ha
inevitabilmente unito. E quell’esperienza ha cambiato il nostro sguardo sulla realtà, aiutandoci anche nella
ricerca di una nuova estetica della frontiera. Di un linguaggio cioè che, senza cadere nel vittimismo, sia
capace di trasformare i mostri delle nostre paure negli eroi dei nostri sogni, il brutto in bello, i numeri in
nomi propri». Un rischio che ha fornito l’occasione di mostrare un’Europa distante dallo stereotipo di
chiusura e xenofobia che viene sempre più spesso raccontato dalla politica. «C’è un’Europa sconosciuta.
Un’Europa transnazionale, solidale e goliardica che riesce a farsi beffa delle leggi e dei controlli della
Fortezza». Un paese unico, capace di accogliere tutti i partecipanti al film, da Milano a Malmö, passando per
Copenaghen e Stoccolma.
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