Shun Li lavora in un laboratorio tessile della
periferia romana per ottenere i documenti e riuscire a far venire in Italia suo
figlio di otto anni. All’improvviso viene trasferita a Chioggia, per lavorare
come barista in un’osteria. Malinconica e piena di grazia, trova amicizia e
solidarietà in Bepi, un pescatore slavo. Poeta e gentiluomo, Bepi è
profondamente commosso dalla sensibilità della donna, di cui avverte lo
struggimento per quel figlio e quella sua terra lontani. La loro intesa non
sfugge agli sguardi limitati della provincia e delle rispettive comunità, che
mettono bruscamente fine alla loro corrispondenza sentimentale.
Ogni anno nella Cina sudorientale si commemora il
poeta Qu Yuan (III secolo a.C.) preparando delle lanterne con candele avvolte
in carta di riso e adagiandole sull’acqua fluviale mentre si recitano poesie
perché la corrente le porti lontano. Il film si apre proprio su quest’antica
tradizione: nel buio sentiamo voci femminili che sussurrano poesie in cinese,
mentre delle lanterne rosse vengono posate sull’acqua. La carica evocativa e
poetica dell’immagine viene improvvisamente infranta dalla luce artificiale che
illumina la scena: capiamo che ci troviamo in un appartamento popolare di Roma,
dove due donne cercano di riprodurre il rituale in una vasca da bagno.
Andrea Segre, fin dalla prima scena, gioca la
carta dello spaesamento: lo spettatore – nonostante l’ambientazione italiana –
non comprende la lingua in cui si svolgono i dialoghi, dialetto chioggiotto o
cinese mandarino, quasi a suggerirci il dramma dell’emigrazione tra spaesamento
linguistico e spostamento fisico. Il titolo del film gioca con l’assonanza tra
il nome della protagonista, Li, e l’avverbio di luogo “lì”, e dunque con
“essere” come affermazione d’identità ed “essere” come “stare in un luogo”. In
italiano “lì” indica uno spazio «non molto lontano da chi parla e da chi
ascolta»: una definizione che ben si adatta anche a quanto viene raccontato nel
film. Shun Li si trova fisicamente a Chioggia, ma la sua identità e i suoi
pensieri appartengono a un altro luogo, la Cina. Per tutta la prima parte del racconto,
la donna cerca di vincere la fatica del lavoro e dell’adattamento a una nuova
realtà scrivendo lettere al padre e al figlio, o parlando la propria lingua con
una connazionale, ricercando continuamente un contatto con le proprie radici.
La Cina è anche il soggetto privilegiato dei primi
dialoghi con Bepi, quando Shun Li racconta delle sue origini e delle tradizioni
del proprio Paese. È proprio grazie a questi scambi che la Cina diventa “lì”
(cioè un luogo non troppo lontano) anche per Bepi, che riconosce nella storia
personale di Shun Li molte affinità con la propria. Anch’egli appartiene solo
in parte a Chioggia, perché in realtà è immigrato dalla Iugoslavia molti anni
prima, e ha una sincera passione per la poesia. Due culture e due identità fisicamente
distanti arrivano così a sfiorarsi. A dividerle non è il bancone del bar, ma
quello che sta dietro. Dietro a Bepi i compagni di bevute ancorati
indissolubilmente alle loro tradizioni e quindi ostili all’amicizia dell’uomo
con una straniera; dietro a Shun Li, invece, uno specchio che non può che
riflettere i volti e i pregiudizi che si trova davanti, senza poter mostrare
che esiste anche altro, un “lì” ancora da scoprire.
La stessa laguna che fa da cornice alla vicenda,
nel suo non essere né terra né mare, con le sue acque non più dolci ma nemmeno
salate, ricorda quanto il concetto di identità sia spesso sfuggente. La distesa
d’acqua che a Shun Li appare come un mare, alla fine le si rivela un bacino
chiuso, esattamente come la mentalità dei suoi datori di lavoro cinesi e dei
clienti italiani.