Io sono Li

Andrea Segre
Parthenos, Francia, Italia 2011
Scheda di: 
Fascicolo: gennaio 2013

Shun Li lavora in un laboratorio tessile della periferia romana per ottenere i documenti e riuscire a far venire in Italia suo figlio di otto anni. All’improvviso viene trasferita a Chioggia, per lavorare come barista in un’osteria. Malinconica e piena di grazia, trova amicizia e solidarietà in Bepi, un pescatore slavo. Poeta e gentiluomo, Bepi è profondamente commosso dalla sensibilità della donna, di cui avverte lo struggimento per quel figlio e quella sua terra lontani. La loro intesa non sfugge agli sguardi limitati della provincia e delle rispettive comunità, che mettono bruscamente fine alla loro corrispondenza sentimentale.

 

Ogni anno nella Cina sudorientale si commemora il poeta Qu Yuan (III secolo a.C.) preparando delle lanterne con candele avvolte in carta di riso e adagiandole sull’acqua fluviale mentre si recitano poesie perché la corrente le porti lontano. Il film si apre proprio su quest’antica tradizione: nel buio sentiamo voci femminili che sussurrano poesie in cinese, mentre delle lanterne rosse vengono posate sull’acqua. La carica evocativa e poetica dell’immagine viene improvvisamente infranta dalla luce artificiale che illumina la scena: capiamo che ci troviamo in un appartamento popolare di Roma, dove due donne cercano di riprodurre il rituale in una vasca da bagno.

Andrea Segre, fin dalla prima scena, gioca la carta dello spaesamento: lo spettatore – nonostante l’ambientazione italiana – non comprende la lingua in cui si svolgono i dialoghi, dialetto chioggiotto o cinese mandarino, quasi a suggerirci il dramma dell’emigrazione tra spaesamento linguistico e spostamento fisico. Il titolo del film gioca con l’assonanza tra il nome della protagonista, Li, e l’avverbio di luogo “lì”, e dunque con “essere” come affermazione d’identità ed “essere” come “stare in un luogo”. In italiano “lì” indica uno spazio «non molto lontano da chi parla e da chi ascolta»: una definizione che ben si adatta anche a quanto viene raccontato nel film. Shun Li si trova fisicamente a Chioggia, ma la sua identità e i suoi pensieri appartengono a un altro luogo, la Cina. Per tutta la prima parte del racconto, la donna cerca di vincere la fatica del lavoro e dell’adattamento a una nuova realtà scrivendo lettere al padre e al figlio, o parlando la propria lingua con una connazionale, ricercando continuamente un contatto con le proprie radici.

La Cina è anche il soggetto privilegiato dei primi dialoghi con Bepi, quando Shun Li racconta delle sue origini e delle tradizioni del proprio Paese. È proprio grazie a questi scambi che la Cina diventa “lì” (cioè un luogo non troppo lontano) anche per Bepi, che riconosce nella storia personale di Shun Li molte affinità con la propria. Anch’egli appartiene solo in parte a Chioggia, perché in realtà è immigrato dalla Iugoslavia molti anni prima, e ha una sincera passione per la poesia. Due culture e due identità fisicamente distanti arrivano così a sfiorarsi. A dividerle non è il bancone del bar, ma quello che sta dietro. Dietro a Bepi i compagni di bevute ancorati indissolubilmente alle loro tradizioni e quindi ostili all’amicizia dell’uomo con una straniera; dietro a Shun Li, invece, uno specchio che non può che riflettere i volti e i pregiudizi che si trova davanti, senza poter mostrare che esiste anche altro, un “lì” ancora da scoprire.

La stessa laguna che fa da cornice alla vicenda, nel suo non essere né terra né mare, con le sue acque non più dolci ma nemmeno salate, ricorda quanto il concetto di identità sia spesso sfuggente. La distesa d’acqua che a Shun Li appare come un mare, alla fine le si rivela un bacino chiuso, esattamente come la mentalità dei suoi datori di lavoro cinesi e dei clienti italiani.

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