La trama del film
Daniel Blake, un falegname di Newcastle di 59 anni, è costretto a chiedere un sussidio statale. Il suo medico gli ha proibito di lavorare dopo un attacco di cuore, ma Daniel si trova nell’assurda condizione di dover comunque cercare lavoro in attesa che venga approvata la sua richiesta di indennità per malattia. Al centro per l’impiego Daniel incontra Katie, madre single di due figli piccoli che non riesce a trovare lavoro. Entrambi prigionieri della burocrazia della Gran Bretagna di oggi, i due stringono un legame di amicizia speciale, cercando di aiutarsi e farsi coraggio.
Nonostante un ritiro dalle scene più volte annunciato, l’inglese Ken Loach è tornato alla regia di un film di finzione dal titolo emblematico: Io, Daniel Blake. Sono diverse le pellicole di Loach identificate dal nome di un personaggio: basti pensare a La canzone di Carla, a My Name is Joe, a Il mio amico Eric, fino al più recente Jimmy’s Hall. Eppure, nell’ultima produzione del regista, l’idea di riaffermare un’identità individuale attraverso il cinema appare ancora più marcata, così come l’urgenza di raccontare la Gran Bretagna contemporanea – in questo caso a un passo dalla Brexit – e di dare voce a coloro che sono caduti vittima della crisi economica. Nel cinema di Loach l’identità corrisponde sempre alla dignità individuale: quando quest’ultima è calpestata dalle disparità sociali, non è più possibile riconoscersi come persona. I percorsi dei protagonisti, quindi, prevedono sempre un momento di riacquisizione, più o meno metaforica, della propria identità, che passa per l’uscita dall’isolamento e l’alleanza con altri personaggi che vivono situazioni di difficoltà. Al centro del film, che ha anche conquistato la Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno, vi è un personaggio dal nome ricco di suggestioni: “Daniel”, come il profeta, e “Blake”, come il poeta e incisore settecentesco William Blake, sostenitore dell’eguaglianza tra gli uomini e contrario alla schiavitù.
Falegname di Newcastle, costretto all’inattività dall’insorgere di problemi cardiaci, Daniel – interpretato dal comico Dave Johns in un’inedita veste drammatica – frequenta abitualmente gli uffici dell’assistenza sociale per capire in che modo possa mantenersi, dato che i medici gli impediscono di lavorare per le sue precarie condizioni di salute, ma al contempo non riceve nessun tipo di sussidio pubblico. Qui, in una sala d’attesa, incontra Katie, giovane madre che sta crescendo da sola i suoi due figli. La donna, non essendo stata ritenuta idonea a ricevere un alloggio nelle case popolari di Londra, ha deciso di trasferirsi altrove, nella speranza che fuori dalla capitale sia più semplice garantire una vita dignitosa ai suoi bambini. Tuttavia, sia lei sia Daniel finiscono imprigionati nel medesimo ingranaggio kafkiano: un labirinto di uffici e sportelli nel quale è impossibile trovare comprensione e dal quale è difficile uscire avendo ottenuto una risposta alle proprie richieste.
Il sistema descritto da Loach sembra predisposto per rendere la vita impossibile a coloro che non possiedono gli strumenti sufficienti per restare al passo con la tecnologia. Agli utenti sono infatti richiesti un grado di competenza informatica e una dimestichezza con i dispositivi digitali che difficilmente possono essere raggiunti da fasce economicamente svantaggiate e di età avanzata. Inoltre, non vi è alcuna disponibilità ad aiutare le persone che hanno difficoltà a districarsi tra le maglie della burocrazia e a comprendere la loro reale situazione. Si veda ad esempio l’apertura del film: mentre scorrono i titoli di testa, possiamo ascoltare la voce di Daniel, sempre più impaziente e frustrata, che risponde alle domande relative alla possibilità di lavorare dopo l’attacco di cuore. Benché medici e fisioterapisti gli abbiano consigliato un periodo di riposo, la donna che lo sta intervistando all’altro capo del telefono non ha alcuna conoscenza in ambito medico e gli pone domande sulla sua mobilità e sulla sua incontinenza, senza nemmeno sfiorare il tema delle sue condizioni cardiache. Così, mentre il dialogo assume un tono comico e quasi surreale, Daniel è ritenuto idoneo a tornare al lavoro.
Il film, pur mostrando una capacità rara di far sfociare il dramma in momenti di leggerezza e ironia, contiene comunque scene in cui si avverte la tragicità della condizione di Daniel, che è simbolo di una situazione che accomuna migliaia di lavoratori. Quando candidamente ammette di non essere mai stato «vicino a un computer», Daniel ignora le conseguenze di questa sua inadeguatezza informatica, mentre lo spettatore può avvertirle in tutta la loro gravità. Tra le attività che l’uomo deve dimostrare di aver effettuato per ottenere almeno il sussidio di disoccupazione, c’è un corso per imparare a scrivere un curriculum vitae. Nonostante questo, Daniel scrive a mano il documento: lo sguardo severo e al contempo imbarazzato che il funzionario getta sul suo foglio esprime al meglio l’impossibilità di riscatto per chi si ritrova improvvisamente espulso dal sistema. D’altra parte, lo stesso Daniel, frequentando il corso, si rende conto di essere solo una tra le centinaia di persone che fanno richiesta per gli stessi lavori. Dunque, quale speranza di essere assunto può coltivare? Soddisfare le richieste del sistema sembra umanamente impossibile: Daniel deve trascorrere 35 ore alla settimana candidandosi per lavori per i quali non è ritenuto idoneo, e al contempo deve dimostrare di averlo fatto. Il ricorso continuo a forme di mediazione, che prendono il posto del dialogo diretto e dell’incontro ravvicinato, impediscono al protagonista di spiegare la propria condizione e di conseguenza di essere di supporto a Katie. Di fronte alle segreterie telefoniche, ai vetri degli sportelli, a un aiuto costantemente negato o rimosso, il grido silenzioso di Daniel Blake si leva progressivamente come una richiesta di ascolto. Loach si chiede attraverso questo personaggio se, in una società sempre più anestetizzata e nella quale il malessere viene costantemente nascosto sotto al tappeto, sia ancora possibile stabilire una comunicazione autentica con l’altro. Vale a dire, se sia ancora possibile sentire in maniera profonda il dolore di chi ci sta di fronte e compiere quindi un gesto di solidarietà.
Con Io, Daniel Blake, il regista continua a portare avanti una riflessione che ha iniziato ormai dagli anni ’60: ciò che colpisce è che suoni ancora così attuale. Loach è una tra le voci più autorevoli di un cinema apertamente di denuncia, tracimante rabbia e insofferenza verso assetti economici e sociali spesso considerati come dati di fatto di fronte ai quali è inutile, oltre che impossibile, opporsi. Così, i suoi personaggi combattono la loro lotta dal basso, con i mezzi che hanno a disposizione, ma che non contemplano mai una violenza fine a se stessa. Sono eroi del quotidiano armati solo della propria voce, che lanciano messaggi che smuovono le coscienze. In Jimmy’s Hall, ad esempio, Jimmy apriva una scuola di ballo che diveniva spazio in cui scoprire e mettere alla prova i propri talenti, in una comunità altrimenti priva di stimoli culturali. Qui, Daniel ricorre a un’azione molto meno razionale: l’iscrizione su un muro del proprio nome e della propria rabbia. Ma, a un livello più profondo, il vero gesto eversivo di Daniel consiste nel disinnescare l’indifferenza che lo circonda, prestando la propria attenzione e il proprio tempo al prossimo, come accade con Katie. Significativo è anche l’interesse che Daniel dimostra verso la situazione del suo vicino di appartamento, un ragazzo di origini africane che tenta di sbarcare il lunario ingegnandosi come può con gli strumenti offerti dalla Rete. Il suo commercio di scarpe da ginnastica firmate, che vengono acquistate online per poi essere rivendute sottobanco ad amici e conoscenti, rappresenta un improbabile tentativo di sfruttare la decantata democrazia e gratuità di Internet per sopravvivere. Se il ragazzo contrabbanda beni in risposta a una mancata integrazione, il disagio dei suoi coetanei trova un illusorio risarcimento nel possesso delle calzature maggiormente reclamizzate dalle aziende multinazionali. L’attenta osservazione sociale di Loach – e del suo collaboratore di vecchia data Paul Laverty, autore della sceneggiatura – emerge proprio a partire da questi dettagli, che fanno di personaggi secondari dei rappresentanti delle diverse facce dello stesso malessere. La vicenda di Katie, ad esempio, tocca un altro tema di grande attualità, quello della gentrificazione, ossia i cambiamenti urbanistici e socio-culturali che si realizzano in aree periferiche e popolari quando iniziano ad affluire abitanti ad alto reddito, che fanno alzare i prezzi degli immobili. Un fenomeno che tocca in particolare le grandi città come Londra, che la donna ha dovuto lasciare proprio per questo motivo.
Il disagio sociale che conduce alla cancellazione di sé e alla perdita di dignità non è per Loach una memoria che appartiene al passato dickensiano, ma è qualcosa di molto più attuale e tangibile nella nostra quotidianità. La scena in cui Katie mangia disperatamente da una scatola di fagioli, senza nemmeno aspettare di uscire dal Banco alimentare, ad esempio, costituisce una delle rappresentazioni più devastanti della nuova miseria occidentale. L’estrema semplicità e classicità narrativa di Io, Daniel Blake è in realtà essa stessa una forte presa di posizione. A costo di apparire tradizionalista e incapace di rinnovare le forme del suo cinema – la Palma d’oro è stata contestata da molti critici – Loach sceglie di parlare un linguaggio universale, che sia comprensibile a tutti gli spettatori. Quindi, non solo ai cinefili, né semplicemente ai cittadini britannici colpiti dalle misure di austerità del Governo Cameron, ma a tutti coloro che quotidianamente ingaggiano una lotta per la sopravvivenza. O che, come Daniel, vorrebbero tendere la mano a chi sta ancora lottando.