Insieme

Rituali, piaceri, politiche della collaborazione

Richard Sennett
Feltrinelli, Milano 2012, pp. 336, € 25
Scheda di: 
Sono pochi, oggi, gli scienziati sociali capaci di trattare con rigore e profondità temi che riguardano la vita quotidiana delle persone con un linguaggio comprensibile non solo all’accademia ma anche al pubblico non specialistico. Richard Sennett è indubbiamente uno di questi. Con Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, il sociologo americano raggiunge la seconda tappa del suo “Progetto homo faber”, una trilogia di studi volta a «mostrare come le persone conformino l’impegno personale, i rapporti sociali e l’ambiente fisico» (p. 10), ponendo l’accento sulle abilità tecniche e le competenze che consentono di costruire la propria vita conciliandola con quella degli altri. Se la prima tappa, L’uomo artigiano (cfr la recensione in Aggiornamenti Sociali, 6 [2009] 469-473), si incentrava su come si sviluppano le competenze del laboratorio artigiano, questo secondo lavoro si focalizza su quali siano le competenze che rendono le persone capaci di collaborare, sia nel mondo del lavoro, sia nelle attività sociali, culturali e politiche. La terza tappa del percorso, ancora in cantiere, riguarderà invece come costruire città capaci di rispettare l’esperienza personale e collettiva dei cittadini. Si tratta di temi non nuovi per Sennett, già affrontati in modo diverso nel corso della sua carriera di sociologo, nella quale egli ha tentato di indagare i riflessi che i grandi cambiamenti del capitalismo contemporaneo hanno sulla vita quotidiana delle persone, sulla loro psiche e sulla loro capacità di vivere e lavorare insieme. In questo volume, l’A. indaga come la collaborazione tra persone e tra gruppi possa essere plasmata, indebolita e rafforzata. A questi tre aspetti vengono dedicate le tre parti dell’opera, ciascuna composta di tre capitoli. In esse si dà conto dei modi con cui la collaborazione è stata resa possibile o difficile in varie epoche e contesti, attingendo a ricerche sociologiche, politiche, storiche e antropologiche. Ad esempio, si confrontano i diversi modelli di collaborazione sviluppati tra Ottocento e Novecento dalla sinistra politica nei partiti socialisti europei, impostati gerarchicamente con criteri di lotta politica nazionale, e dalla sinistra sociale nelle organizzazioni di comunità situate nei quartieri poveri delle grandi Insieme 619 recensione città americane, più aperti e meno strategici. Si ricostruisce poi il dibattito sulla compresenza di elementi competitivi e collaborativi nella specie umana nelle ricerche di genetisti, antropologi e psicologi evolutivi. Ancora, si analizza il modo in cui il passaggio dai codici di condotta cavallereschi medioevali ai codici dell’urbanità affermatisi nelle città europee durante il XVI secolo abbia forgiato un tipo umano più freddo, ma più avvezzo alla collaborazione con il diverso. E sul piano dell’attualità, si evidenzia come si sia degradata la capacità di collaborazione dalla fabbrica manifatturiera fordista, nella quale la stabilità produceva almeno un grado minimo di rispetto e fiducia reciproci tra operai e dirigenti, alle società del settore terziario avanzato, nelle quali la flessibilità e la mobilità delle carriere hanno prodotto stili di lavoro improntati a un individualismo non collaborativo. Sennett ci conduce in maniera appassionata in tutti questi oggetti di studio, utilizzando riferimenti a opere d’arte che condensano in maniera sintetica il suo ragionamento e ad esperienze personali che hanno facilitato in lui la comprensione dei problemi trattati: come violoncellista e direttore d’orchestra, come ex abitante di un quartiere popolare di Chicago, come collaudatore di programmi informatici sperimentali per il lavoro collaborativo. La scrittura di Sennett è piacevole e spesso ironica, anche se il testo ha un’andatura complessa e non di immediata decodificazione. Si viene infatti condotti dall’A. in percorsi di indagine molto differenti, nei quali non è raro perdersi: i frequenti spostamenti di luogo, di epoca, di oggetto e di scala di analisi spiazzano di continuo il lettore, con un filo del discorso non lineare ma circolare, dove i temi vengono trattati da punti di partenza apparentemente slegati tra loro. Nonostante la sua poliedricità erratica, l’opera ha un obiettivo preciso: individuare gli elementi delle attuali società capitalistiche che rendono le persone più incapaci di cooperare. Secondo Sennett, infatti, il problema non risiede in uno stato di natura costitutivamente avverso alla collaborazione. Egli mette più volte in luce come le ricerche sull’attitudine collaborativa dei bambini nella prima infanzia dimostrino il contrario. Anche se è sempre intrecciata con elementi competitivi, la collaborazione è una capacità che emerge spontaneamente nella vita sociale, dove vi siano condizioni che permettono alle persone di riconoscere le reciproche abilità e limiti e di adattarvisi progressivamente. Questo avviene ad esempio nell’esperienza delle botteghe artigiane o nelle orchestre, nelle quali le persone sono consapevoli che la loro parte di lavoro riesce bene nella misura in cui sanno ascoltare e farsi capire dall’altro. Perché ci sia collaborazione, sottolinea Sennett, non è affatto necessario che vi sia identità di vedute tra i soggetti, né che vi sia una simpatia. L’altro rimane un “diverso” con cui confrontarsi in maniera dialogica, senza mirare a giungere a delle sintesi che superino le differenze. Da questo punto di vista, il procedimento dialogico, come modo di collaborare che anzitutto mira a trovare un terreno comune di comprensione, viene visto dall’A. in contrapposizione a quello dialettico, che invece rischia, con la sua tensione a trovare una sintesi, di annullare le differenze. Anche la simpatia, intesa come desiderio di unirsi emotivamente all’altro, viene vista in contrapposizione all’empatia, che invece mira anzitutto ad ascoltare l’altro e a capirlo nella sua specificità e dignità. Vista in questi termini, la cooperazione diventa una pratica che non solo impedisce l’annientamento o l’umiliazione dell’altro, ma può diventare un piacere, nei termini in cui sono un piacere i giochi collettivi, nei quali si può gustare la presenza dell’altro senza necessariamente essere simili a lui. 620 Emanuele Polizzi Affinché si produca un rapporto dialogico ed empatico con gli altri è necessario, proprio come nei giochi, utilizzare dei codici che costruiscano un terreno comune di intesa su come agire, delle regole di condotta che consentano di far convivere competitività e cooperazione. Questi codici possono assumere la forma di linguaggi che denotano il rispetto dell’avversario, come negli stili della diplomazia, o di rituali che stabiliscono una comune definizione della situazione e permettono che anche in un eventuale conflitto la dignità dei soggetti sia salva. Un tipico esempio sono le tecniche dei mediatori negoziali: quando vi è una trattativa tra due parti avverse carica di elementi emotivi che rischiano di non far vedere il possibile punto di intesa, essi utilizzano frasi come «in altre parole, lei sta dicendo che…», tramite le quali riconfigurano la discussione, ne attenuano gli elementi emotivamente più ruvidi e preparano un avvicinamento graduale tra le parti. Il problema politico che Sennett affronta, a partire da questa disamina delle dinamiche della cooperazione, è che l’organizzazione sociale plasmata dal capitalismo contemporaneo impedisce la formazione dei linguaggi e dei rituali comuni. A inibire le persone dall’agire cooperativamente sono anzitutto alcune condizioni sociali di partenza, soprattutto la disuguaglianza socioeconomica, che pone le persone in una situazione di distanza eccessiva di opportunità, tale da impedire la creazione di un terreno di gioco comune, specie quando viene interiorizzata fin da bambini. Altro elemento di inibizione della collaborazione è l’instabilità delle carriere lavorative: il fatto di non trascorrere periodi di tempo neanche di media lunghezza con lo stesso gruppo di persone, come avviene in molti ambiti del settore terziario, impedisce lo stabilirsi di quella routine e di quei rituali che rendono possibile il lavoro di squadra. Inoltre, l’alta mobilità delle carriere e la conseguente mancanza di terreni comuni di interazione rendono i manager del terziario ancora più slegati socialmente dalle persone loro subordinate (e quindi meno responsabili moralmente), aumentando la frequenza di condotte opportuniste, come quelle emerse in diverse società finanziarie con la crisi del 2008. Nel finale dell’opera l’A. non fornisce soluzioni generali per contrastare queste derive anticooperative, preferendo concentrarsi su alcune competenze che, soprattutto nel microsociale, possono aiutare a contrastare le derive dell’individualismo non collaborativo. Sennett intravede nelle esperienze di impegno comunitario di base una possibile fonte di apprendimento collaborativo, prendendo però nettamente le distanze dalle ricette neoconservatrici (ad esempio quelle proposte dal primo ministro inglese David Cameron con lo slogan della “Big Society”), nelle quali si pensa che il legame comunitario possa svilupparsi spontaneamente, una volta che i gruppi della società civile vengano liberati dal supporto economico e normativo delle istituzioni pubbliche. Sennett ritiene quest’autosufficienza delle comunità locali insostenibile sul piano economico, oltre che incapace di garantire le differenze culturali. D’altronde, egli prende sul serio diverse esperienze passate di impegno civico comunitario, ritenendole ancora oggi una fonte preziosa di apprendimento: dall’organizzazione delle comunità afroamericane promosse a Chicago da Saul Alinsky ai kibbutz di ispirazione tolstojana di Aaron David Gordon, dall’informalità dello stile organizzativo del Partito socialista americano di Norman Thomas alle attività caritative del Movimento dei lavoratori cattolici di Dorothy Day. Pur nei loro differenti limiti, tali esperienze evidenziano che anche in contesti di crescente individualismo è ancora possibile ricostruire forme di collaborazione aperta tra le persone.
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