Immigrazione irregolare e welfare invisibile
Il lavoro di cura attraverso le frontiere
Maurizio Ambrosini
il Mulino, Bologna 2013, pp. 296, € 27
Che relazione sussiste nel mondo contemporaneo tra alti livelli di immigrazione irregolare e diffusione nei Paesi ricchi di un sistema di welfare in gran parte informale, governato dalle famiglie, basato sul lavoro di immigrati (soprattutto donne) spesso privi dei documenti necessari a risiedere e/o lavorare «legalmente» e tollerato, o addirittura sussidiato, dal settore pubblico?
Da questa domanda trae spunto la riflessione sviluppata nel nuovo libro di Maurizio Ambrosini, sociologo tra i più attenti studiosi in Italia delle migrazioni. Nell’indagare il fenomeno dell’immigrazione irregolare, egli adotta un approccio dinamico e multicausale, che cerca di cogliere le interazioni tra il livello macro e quello microsociale, e in cui i risultati di numerose ricerche empiriche vengono interpretati alla luce di alcune delle più interessanti teorie prodotte negli ultimi anni dal dibattito internazionale in quel settore della sociologia denominato Migration studies.
Indagare le cause della diffusione dell’immigrazione irregolare in Italia e in tutto il Nord del mondo spinge l’A. ad analizzare quelle caratteristiche assunte dalle economie e dai sistemi sociali dei Paesi riceventi che rendono i migranti una risorsa indispensabile per il funzionamento delle nostre società (c. I). Se, infatti, i Governi utilizzano la lotta all’immigrazione irregolare per riaffermare la propria legittimità minata dai processi di globalizzazione, da ampi settori delle società riceventi emergono vari interessi, tra cui quelli delle famiglie, che spingono in direzione di una maggiore apertura delle frontiere. È da queste contraddizioni tra politiche restrittive e bisogni economici e sociali che trae origine l’immigrazione irregolare (cfr pp. 45-53).
Tuttavia l’A. rifiuta una visione dei migranti come vittime passive di condizionamenti esterni, di natura politica ed economica, che li sovrastano. Se l’immagine prevalente degli immigrati irregolari è quella stereotipata di malfattori, di vittime o eroi (cfr pp. 27-30), egli preferisce considerarli attori sociali dotati di autonomia e capacità d’iniziativa (agency).
In particolare, ricollegandosi all’innovativo filone degli “studi sul benessere”, sottolinea l’importanza delle pratiche quotidiane messe in atto dai migranti: «il riferimento alle pratiche sottintende che le capacità strategiche degli immigrati non autorizzati incontrano dei limiti, ma non di meno che attraverso la tenace concatenazione delle varie azioni della vita quotidiana e la ricerca di risposte alle difficoltà che incontrano, essi perseguono propositi di inserimento lavorativo, indipendenza economica, sollecitudine per i familiari, emersione alla legalità, radicamento nel territorio» (p. 135).
La partecipazione alla vita della comunità locale, attraverso il lavoro o la scuola dei figli, consente agli immigrati non autorizzati di acquisire forme di riconoscimento sociale e così di accedere a istituzioni e opportunità. Ne deriva che, come ha mostrato la sociologa statunitense Saskia Sassen, la cittadinanza non è soltanto un insieme di diritti concessi dallo Stato, ma un processo che può originarsi dal basso, attraverso le pratiche messe quotidianamente in atto (cfr p. 137).
L’ambito privilegiato scelto per cogliere l’interazione tra fattori strutturali e agency dei migranti è il lavoro domestico e assistenziale, che viene dapprima analizzato a livello macrosociale (c. II), ricercando le cause all’origine di una nuova domanda di lavoro espressa dalle famiglie occidentali, per lo più di classe media, ma anche di condizione più modesta, orientate a reperire sul mercato la fornitura di servizi di cura. L’incremento della popolazione anziana che necessita assistenza e la maggiore partecipazione delle donne al lavoro extradomestico hanno infatti ridotto la capacità delle famiglie di assolvere a quei compiti di cura che sono loro tradizionalmente assegnati. Ma a fronte di questi mutamenti non vi è stato né un adeguato sviluppo dei servizi pubblici, né una più equa redistribuzione dei compiti all’interno delle famiglie, che pertanto si rivolgono al mercato (cfr pp. 81-87).
Così avviene l’incontro con l’offerta di lavoro da parte degli immigrati, principalmente donne, spesso in condizione irregolare, alle quali continua a essere affidata la cura di anziani, bambini e malati. Il lavoro domestico e assistenziale, specie se in coabitazione, offre loro la possibilità di soddisfare alcuni bisogni: fornisce un tetto e un salario, permette di risparmiare e inviare rimesse, le protegge nei confronti delle autorità (cfr p. 105). Ha così preso corpo, in modo più evidente nell’Europa meridionale – sebbene ormai il modello si diffonda in tutto il Nord del mondo – un sistema di welfare informale, parallelo a quello ufficiale, gestito direttamente dalle famiglie al di fuori degli schemi di regolazione pubblica.
Dopo aver inquadrato il fenomeno a livello macrosociale, lo sguardo si sposta su quello micro (c. III). Qui l’A. svolge un’analisi dell’esperienza vissuta dalle migranti impiegate nella fornitura di sevizi di cura, e, in particolare, nell’assistenza a domicilio di persone anziane, definite nel linguaggio comune «badanti», termine svalutante che riflette la tendenza a sminuire la pesantezza e la delicatezza dei compiti loro affidati (p. 89). La vita delle care workers viene indagata richiamando i risultati di una serie di ricerche svolte nell’ultimo decennio in varie Province d’Italia, con l’intento di svelare le risorse e le pratiche che consentono a queste lavoratrici, così come ad altri immigrati privi di documenti, di sopravvivere, di integrarsi nel tessuto socioeconomico e, in alcuni casi, di porre le basi per l’emersione dall’irregolarità.
Al centro c’è ovviamente il lavoro, definito come l’architrave delle strategie di insediamento dei migranti non autorizzati (cfr p. 146). La sua importanza va al di là del reddito che procura, perché si connota come l’unica fonte di legittimazione per i nuovi arrivati in Paesi in cui la presenza dei migranti viene giustificata solo in proporzione a quanto sia ritenuta funzionale alle economie delle società riceventi. Nel caso delle care workers, a ciò si aggiunge l’utilità sociale del loro lavoro, aspetto che le aiuta a sopportare le dure condizioni di vita cui sono sottoposte e la svalutazione culturale nei confronti di un’occupazione giudicata servile (p. 152).
Ancor più decisive appaiono quelle risorse che scaturiscono dalle relazioni sociali in cui sono coinvolti gli immigrati. Per le lavoratrici occupate in attività di cura, particolarmente rilevante appare quella che l’A. definisce «familiarizzazione», ossia il coinvolgimento in relazioni parafamiliari con le famiglie italiane datrici di lavoro (pp. 170-171). Viene così analizzato il complesso intreccio di rapporti con la persona assistita e i suoi cari, tra cui spicca la care manager, una nuova figura espressione dei mutamenti negli assetti familiari della società post-industriale. Si tratta di un familiare dell’anziano, spesso una figlia, che svolge un ruolo di regia del lavoro di cura, assumendosi la responsabilità delle questioni burocratiche, economiche e di relazione con l’esterno. Dalle interviste emerge un quadro carico di ambivalenze, in cui relazioni di lavoro e dimensioni affettive si sovrappongono e che può vedere le lavoratrici vittime di invadenze nella propria sfera privata, ma anche beneficiarie dei vantaggi derivanti dalla disponibilità delle famiglie a fornire aiuti oltre gli obblighi contrattuali (pp. 171-183).
Problematiche appaiono anche le relazioni che legano l’immigrata al proprio Paese natio, in particolare ai figli rimasti in patria e ai care takers sostitutivi – spesso la madre o la sorella – con cui le madri migranti formano un «triangolo dell’accudimento». Ai problemi della maternità attraverso i confini nazionali l’A. dedica una particolare attenzione (cap. IV), mostrando le differenze interne alle famiglie transazionali. Non emigrano più soltanto giovani madri provenienti da Paesi lontani che lasciano a casa figli ancora piccoli, ma anche donne in età matura, che spesso si fanno carico delle esigenze di più generazioni, non interessate a ricongiungere i figli (cfr pp. 204-215). D’altra parte, la strada dei ricongiungimenti è spesso impervia, specialmente quando avvengono dopo lunghe separazioni che hanno inevitabilmente modificato abitudini, mentalità e stili di vita dei componenti della famiglia, obbligandoli a un difficile riadattamento alla vita in comune, per di più in un ambiente non sempre ospitale e dovendo fronteggiare problemi nuovi, fonte di stress e delusioni (cfr pp. 226-235).
Queste considerazioni spingono l’A. ad affrontare la spinosa questione del drenaggio di risorse di cura nei confronti delle società di provenienza (care drain). Se i Paesi ricchi importano dal Sud del mondo risorse di accudimento per fronteggiare le nuove sfide poste dai mutamenti demografici e culturali, ciò provoca un depauperamento dei sistemi di protezione sociale delle famiglie d’origine (cfr pp. 235-245). Ma quanto è sostenibile nel lungo periodo un sistema nel quale il Nord del mondo ricava «beni comuni socioemozionali» dai Paesi poveri, scaricando interamente su quest’ultimi i costi umani che tale privazione comporta? Come afferma l’A., «le società profittatrici dei beni comuni del Sud del mondo cercano di mantenere una posizione di privilegio, importando le madri e ostacolando il ricongiungimento dei figli. Ma a un certo punto, sotto regimi democratici, questo equilibrio asimmetrico diventa insostenibile. I vincoli affettivi delle madri migranti irrompono sulla scena, chiedendo alle società riceventi di includerli nello spazio sociale legittimo» (p. 258). Il Nord del mondo dovrà prendere atto di tale asimmetria e farsi carico dei legami familiari negati delle madri migranti.
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